Una possibilità più grande della letteratura

di Paolo Pegoraro*

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ROMA, martedì, 12 luglio 2011 (ZENIT.org).- È stato dunque Edoardo Nesi ad aggiudicarsi la 65ma edizione del Premio Strega, con uno stacco di oltre sessanta punti su tutti gli altri candidati: una vittoria netta e pulita, come non accadeva da tempo. Nesi – traduttore ed ex imprenditore – era in corsa con Storia della mia gente, una “autobiografia al plurale” che racconta fortuna e caduta dell’industria tessile a Prato; ma è soprattutto nei romanzi L’età dell’oro e Per sempre che fa sentire la sua stoffa di narratore. In particolare con Per sempre, rieditato lo scorso anno per Bompiani (pp. 157,€ 7,50), Nesi aveva dimostrato una qualità rara: lasciarsi mettere in gioco dalle storie che racconta, scombinare carte e calcoli, arrivare persino a conclusioni contrarie al punto di partenza.

Tanto da dichiarare, in una conferenza stampa di presentazione: «Quando ho cominciato a scrivere questo libro non credevo in Gesù». E la storia di Per sempre è un po’ tutta qui: un racconto nato per gioco e fattosi via via sempre più serio. Protagonista è Alice, vent’anni, sette tatuaggi, sei orecchini al lobo destro, cinque a quello sinistro, un piercing al naso, capelli rosso fuoco. Giubbotto di pelle, jeans strappati alle ginocchia, anfibi dell’esercito russo: un look aggressivo e un animo vulnerabilissimo. Ma Alice non è una sbandata. È solo una ragazza come troppe, con un lavoro precario in un call center, un’amica cocainomane e disillusa, un amore finito alle spalle. Il mondo non è sempre un bel posto, ma Alice non fa la vittima, anzi, vuole un futuro. Non ha forze da sprecare in sterili rabbie denunciatarie: cerca speranza. Anche se ogni tanto, per reggere all’urto della realtà, sottrae qualche antidolorifico alla mamma. Chiamarli “psicofarmaci” fa sentire in colpa: e così le chiama “caramelle”. E poi Alice sogna, diventa Alice nel paese delle meraviglie. E quando comincia ad apparirle Gesù non si preoccupa neppure più di tanto. Fino a quando un dubbio non la sfiora: e se, nonostante tutto, non fosse una allucinazione?

Una domandache è diventata la stessa di Nesi durante la scrittura del libro, nato appunto come un gioco che doveva restare privo di risposta, un’irrisolta ambiguità sospesa tra realtà e finzione. “E se invece fosse tutto vero? E se invece la storia di Gesù fosse vera? E se davvero il Figlio di Dio si fosse realmente fatto uomo?”. Dubbio martellante: la fede imbocca possibilità che perfino l’immaginazione letteraria fatica a contemplare. Così Nesi comincia a leggere i Vangeli, resta incantato dalla stringatezza di Marco, riprende in mano le quasi 400 pagine già scritte e comincia a tagliare, a sfoltire, a buttare. Lasciandosi guidare non da un disegno letterario prestabilito, ma da una possibilità che alcuni uomini hanno preso in considerazione da due millenni. Fidandosi del silenzio più che delle parole. Il risultato è un romanzo snello – appena 150 pagine – il più breve che Nesi abbia mai scritto. Un racconto magari non perfetto, ma nel quale brillano una semplicità e una sincerità rare. Dove Gesù non è più un personaggio letterario – una delle tante ricostruzioni che tornano ciclicamente nelle librerie – ma semplicemente una presenza che c’è. Che esiste ed è presente, oggi. Alice sarà sempre più alla deriva, eppure al suo fianco continua ad apparirle un Gesù silenzioso, che la guarda senza mai giudicare, senza dire nulla. Perché ha già detto tutto, per chi davvero lo vuole ascoltare. L’unica altra cosa che egli può aggiungere è la realtà della sua presenza accanto a ogni uomo. In qualunque momento, in qualsiasi situazione. E così Alice si trova Gesù a fianco anche quando vorrebbe abbandonarsi con innocenza all’autodistruzione, lasciando che la percezione del dolore si smarrisse, alla deriva, con tutta la coscienza. Invece Gesù rimane lì, nella sua tunica bianca, a guardarla. Sempre. Perfino in discoteca, persino al lap-dance, mentre sniffa coca o consola la sua amica Deborah che si è messa con un uomo di 30 anni più grande. Il turpiloquio non lo intimorisce, non tradisce nessuno scandalo. Non ci sono luoghi estranei alla sua presenza, dove la sua cura disdegni di accompagnare l’uomo e lo abbandoni a se stesso.

Pare davvero di leggere il salmo 138 declinato nei luoghi dell’alienazione consumistica: «Se dico: “Almeno le tenebre mi avvolgano / e la luce intorno a me sia notte”; / nemmeno le tenebre per te sono tenebre, / e la notte è luminosa come il giorno; / per te le tenebre sono come luce» (vv. 11-12). E quando Alice si rende conto che quelle apparizioni non sono frutto di una sniffata di troppo, allora qualcosa cambia. Perché Alice comprenderà infine che la disperazione – sua e di chi le sta intorno – non è una richiesta di morte, ma un desiderio frustrato di vita. «Suicidarmi non fa per me – dirà. – Io vorrei vivere meglio, non morire alla grande». Ecco, Per sempre racconta la salvezza che va incontro a vite che sentono di meritarsi solo la distruzione. Una salvezza che si fa confidentemente vicina, alla quale si può dire “Scusa” e “Grazie”. Alla quale si possono confidare le grandi ansie ma anche i timori stupidi, le massime ambizioni ma anche desideri infantili. Sì, a questo Gesù si può perfino osare chiedere la realizzazione di un «miracolo goffo». In fondo, alle nozze di Cana, Gesù non guarì malati né resuscitò morti né diede da mangiare agli affamati. Fece un miracolo assolutamente non necessario per evitare l’imbarazzo ad alcuni amici. Per accontentare sua madre. A un Dio così, allora, si può rivolgere la parola.

Un assaggio dell’opera

Ilsole cala lentissimo, giallo come i limoni cotti, e illumina la città sfinita. Il cielo è limpido, un vento d’alta quota sfilaccia le nuvole, le sbiadisce, le allunga per decine di chilometri. C’è un freddo che morde il naso e i lobi delle orecchie. Il tramonto del giorno di Natale non è un granché. Però aspetto, paziente, in attesa che qualcosa cambi. Che succeda qualcosa. Faccio sempre così, fin da bambina. Quando arriva il momento di andar via da un posto, o di addormentarsi, o di smettere di fare qualunque cosa, persino di cambiare canale alla televisione… Ecco, esito, perché non sopporto l’idea di perdermi qualcosa di bello che forse sta per succedere solo perché non ho avuto la fiducia o la pazienza o la fede – sì, la fede – di aspettare che succedesse. Perché sono incostante, viziata. Una bambina, insomma. Una donna, come diceva mio padre, e scuoteva la testa.

E così aspetto, mentre le mani cominciano a intorpidirsi per il freddo, e mi sento vuota e serena, e mi dico che ci dev’ essere davvero qualcosa che non torna in me se gli unici momenti in cui sto bene sono quelli passati a guardare una cosa infinitamente lontana e più grande di me. Sarebbe roba da psicologi, solo che io dagli psicologi non ci vado, basta vedere cos’è successo a Seymour. Poi in un secondo, in un solo secondo, il sole comincia ad accelerare e si abbassa più velocemente, come se cadesse o si staccasse dal cielo, e mi ricordo che Edo mi aveva raccontato questa cosa fantastica che in realtà il sole a questo punto è già tramontato e quella che vediamo è solo la sua immagine rifratta dagli strati più densi dell’atmosfera, una di quelle sue cose astronomiche che capivo poco ma che mi piaceva tantissimo che mi raccontasse. Il sole perde la forma sferica e comincia a nascondersi dietro la collina, che poi è la nuova discarica regionale, e il cielo si riempie di una miriade di nuovi colori: sulla pancia delle nuvole, subito sopra l’arco di luce pura, là dove fino a un attimo prima c’era solo l’azzurro, ora ci sono anche il bianco e il verde e il giallo e l’arancio, e poi c’è un’esplosione immensa e silenziosa, e vedo i colori volare nel cielo come schegge, finché tutto si ferma e il mondo diventa rosa. li cielo è rosa e le nuvole sono rosa e
la città è rosa e la croce della cattedrale brilla come se fosse fatta di diamanti rosa, e io sono così ammirata, Signore.

Grazie.

Lo so che questo era per me, e anche se dura poco, solo qualche secondo, non importa, perché mentre comincia la notte e il rosa si scioglie nel celeste in un suo modo incomprensibile, io sono felice che sei qui con me, Signore, Gesù, seduto accanto a me su questo stupido tetto sudicio, e profumi di lavanda, e se allungo un braccio ti posso toccare.

Sei bellissimo. Hai i capelli lunghi, la barba curata, leunghie dei piedi tagliate perfettamente. La tua tunica è immacolata. Chissà come sei, veramente. Cioè, che forma hai. Sei un globo di luce? Un’ombra leggera? Un pensiero?

Dev’essere stata durissima, eh? Cioè, fare quello che hai fatto tu. Perché lo sapevi, certo che lo sapevi… Lo sapevi come sarebbe stato, quanto male avresti sentito… Oh, mi sei piaciuto tantissimo quando sei crollato per un attimo e hai pregato di poterti salvare – nell’orto, di notte, da solo, mentre tutti gli altri dormivano –, quando ti sei perso d’animo e hai avuto paura, come uno di noi, davvero, e hai chiesto a Dio di non morire.

Gesù, Signore, come hai fatto, tu che sei immortale, a morire?

E quando sei risorto, come ti sei sentito? Come potevi essere uguale a prima? Quando avevi provato, tu, tutto quel dolore? E la rabbia? E l’amore? E l’odio? Non sono sentimenti da essere onnipotente: è roba nostra, quella. Sono le emozioni, la droga più forte di tutte.

Io credo che per te diventare uomo sia stato un po’ come ammalarti. Cioè, dopo esserti fatto uomo, tu lo sia rimasto per sempre. Un Dio umano, sei diventato, il nostro Dio. Ti sei innamorato di noi, delle tue figlie e dei tuoi figli. E, dopo essere risorto, non sei semplicemente salito in cielo, Gesù. Sei rimasto sulla Terra. Ti sei mischiato a noi, hai vissuto in mezzo a noi. Hai guardato le albe e i tramonti, il sole e la luna, i fulmini e i temporali. Hai ascoltato la nostra musica, visto i nostri film, letto i nostri libri, ammirato i nostri quadri e le nostre sculture. Cioè, sei rimasto a guardarci come se fossimo il tuo cinema: ognuna delle nostre vite un film diverso, miliardi di storie che hai visto crescere e svilupparsi, e a volte ti sei divertito e a volte hai pianto – perché sono sicura che piangi anche tu e, anzi, io dico che non hai fatto che piangere, in tutti questi anni.

Perché ti abbiamo veramente fatto male, giusto?

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*Paolo Pegoraro (Vicenza, 1977) si è laureato in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana e in Letterature comparate presso l’Università “La Sapienza” di Roma. Collabora da anni alle pagine culturali di numerose riviste, tra cui L’Osservatore Romano, La Civiltà Cattolica e Famiglia Cristiana.

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ZENIT Staff

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