di Paul De Maeyer
ROMA, giovedì, 23 giugno 2011 (ZENIT.org).- A quasi un mese esatto dallo scoppio delle ostilità, il governo del Sudan e del futuro Sud Sudan, che il 9 luglio prossimo diventerà il 54° Paese del continente africano e il 193° del mondo, hanno firmato lunedì 20 giugno nella capitale etiope Addis Abeba, che ospita la sede centrale dell'Unione Africana (UA), un accordo sulla contestata regione di Abyei (o Abiyei), occupata il 21 maggio scorso dalle truppe di Khartoum.
Ottenuta grazie alla mediazione dell'ex presidente sudafricano Thabo Mbeki e del primo ministro etiope Meles Zenawi, l'intesa prevede la smilitarizzazione della zona che si trova a cavallo tra Nord e Sud, e il ritiro delle truppe di entrambe le parti coinvolte nel conflitto nel distretto di Abyei, le quali poi saranno sostituite da circa 4.000 soldati o "caschi blu" etiopi.
La notizia della firma dell'accordo è stato annunciato da Mbeki in un collegamento video con il Consiglio di Sicurezza ONU a New York. Secondo il mediatore speciale dell'UA, è cruciale che il ritiro delle truppe e il dispiegamento del contingente etiope avvengano quanto prima. "Questo accelererebbe il processo di ritorno degli sfollati alle loro aree e di conseguenza migliorerebbe la possibilità di affrontare le questioni umanitarie", ha dichiarato Mbeki (BBC, 21 giugno).
L'occupazione di Abyei da parte di Khartoum ha provocato infatti l'ennesima emergenza umanitaria nella martoriata regione. Secondo le stime delle organizzazioni non governative e dell'Ufficio di Coordinamento per gli Affari Umanitari (OCHA in acronimo inglese) delle Nazioni Unite, più di 100.000 persone sono state sfollate in seguito alla violenza.
Mentre un grosso punto interrogativo pesa comunque sull'accordo - non è stata fissata una tabella di marcia dettagliata per il ritiro -, non è stato fatto un passo in avanti per risolvere il nucleo della controversia che ad Abyei oppone il Sudan al futuro Sud Sudan: a chi appartiene la regione in questione, a Khartoum o a Juba?
A suscitare l'interesse nonché cupidigia non è tanto l'oro nero nascosto nel sottosuolo di Abyei (la produzione petrolifera ha superato già il suo picco e le riserve sono ridotte, come spiega la BBC del 20 giugno), quanto piuttosto la terra e un'altra preziosissima materia prima: l'oro blu, ossia l'acqua. A contendersi il possesso delle fertili terre del distretto e l'accesso all'acqua sono da un lato la tribù sedentaria dei Dinka Ngok, etnicamente legata al Sud, e dall'altro lato i pastori "arabi" Misseriya, che portano i loro capi di bestiame al pascolo nella regione e sono sostenuti da Khartoum.
Ad Addis Abeba non è stata risolta neppure la crisi scoppiata di recente nello Stato (petrolifero) del Kordofan del Sud, quando il vincitore delle elezioni governatoriali del 2 maggio scorso, Ahmed Mohammed Haroun - uno dei tre esponenti di Khartoum ricercati dalla Corte Penale Internazionale (ICC) de L'Aja, in Olanda, per crimini di guerra e contro l'umanità commessi nel Darfour tra il 2003 e il 2004 - ha ordinato di deporre le armi agli ex ribelli dei Nuba, che nella sanguinosa guerra civile tra Nord e Sud hanno combattuto a fianco dell'Esercito per la Liberazione del Popolo Sudanese (SPLA, Sud).
I Nuba, che nel gennaio scorso non hanno potuto partecipare al referendum sull'indipendenza del Sud perché l'Accordo Comprensivo di Pace (CPA) firmato il 9 gennaio del 2005 nella capitale keniota Nairobi tra Nord e Sud si è "dimenticato" di loro, non hanno però alcuna intenzione di piegarsi alla volontà di Khartoum, che vuole imporre ad esempio in tutto il Nord la legge islamica o sharia come unica fonte di diritto.
Conservare la propria identità è infatti la priorità dei Nuba. "Se continueranno ad imporre alla gente la legge della sharia, la religione islamica e la lingua araba, vedrete emergere un nuovo Darfour", ha dichiarato alla BBC (10 giugno) il capo della Nuba Relief, Rehabilitation and Development Organisation (NRRDO), Najwa Musa. I Nuba, che hanno la pelle molto scura e si considerano "africani" piuttosto che "arabi", non disdegnano ad esempio la birra artigianale - questo vale anche per i Nuba di fede musulmana -. Inoltre nella città di Kauda si usa nell'insegnamento l'inglese e non l'arabo.
I combattimenti sono scoppiati nel capoluogo dello Stato del Sud Kordofan, Kadugli, quando il 5 giugno scorso l'esercito sudanese si stava preparando a disarmare con l'aiuto di milizie "arabe" gli ex ribelli Nuba. La situazione è precipitata quando la violenza ha contagiato le aree circostanti e l'aviazione sudanese ha cominciato a bombardare l'intera zona, i Monti Nuba inclusi.
Testimone di uno dei bombardamenti è stata suor Carmen, missionaria comboniana messicana che opera nella regione. "Nell'area di Kauda ho assistito personalmente ad un bombardamento aereo. Ho visto i jet da combattimento avvicinarsi velocemente e, dopo un giro di ricognizione, ritornare a bassa quota per sganciare le bombe e sparare con le armi di bordo. Ci siamo gettati a terra mentre intorno esplodevano le bombe, è stato terribile", ha spiegato la religiosa all'agenzia Fides (16 giugno), aggiungendo che i bombardamenti avvengono solo di giorno, in quanto gli aerei sudanesi non sono dotati di sistemi di puntamento notturno.
Mentre la Missione delle Nazioni Unite nel Sudan (UNMIS) ha denunciato "l'uso eccessivo di bombardamenti" (The Guardian, 18 giugno), secondo Juba sul terreno è in atto una vera e propria pulizia etnica, un'accusa respinta dalle autorità sudanesi. "Ho parlato con i cinque membri permanenti (del Consiglio di Sicurezza ONU), avvertendo che ciò che sta succedendo nei Monti Nuba è pulizia etnica", ha denunciato il vice presidente sud sudanese, Riek Machar (BBC, 16 giugno).
Della stessa opinione è Tawanda Hondora, vice direttore per l'Africa di Amnesty International. "Pensiamo che questo sia l'inizio di ciò che potrebbe essere una pulizia etnica del Sud Kordofan, dello Stato di Unità e di Abyei", ha detto (BBC, 14 giugno). Anche John Ashworth, che lavora come consigliere per il Sudan Ecumenical Forum (SEF), conferma questa sensazione o timore. "La gente viene braccata per la sua appartenenza etnica", ha raccontato al programma Focus on Africa della BBC, pensando ai rastrellamenti porta a porta eseguiti dalle forze di Khartoum.
"Siamo estremamente preoccupati per la campagna di bombardamenti, che sta causando enorme sofferenza alla popolazione civile e mettendo in pericolo l'assistenza umanitaria", ha dichiarato il portavoce dell'UNMIS, Kouider Zerrouk, all'Agence France-Presse (13 giugno). L'emergenza umanitaria provocata dalla crisi nel Kordofan del Sud ha assunto infatti dimensioni drammatiche. Secondo gli ultimi dati forniti dalle Nazioni Unite, almeno 73.000 persone sono sfuggite ai combattimenti (Reuters, 22 giugno).
Non mancano purtroppo le notizie di gravissimi episodi di violenza anticristiana. Secondo quanto riferito da Compass Direct News (17 giugno), agenti dei servizi di intelligence delle Forze Armate Sudanesi (SAF) hanno ucciso a sangue freddo mercoledì 8 giugno a Kadugli davanti agli occhi della gente inorridita uno studente del Seminario Maggiore di San Paolo, Nimeri Philip Kalo. Trattandosi di un cristiano, gli agenti sospettavano fosse un oppositore del governo islamico.
Sempre a Kadugli, i miliziani islamici che appoggiano l'offensiva di Khartoum contro gli ex ribelli ancora stanziati nel Kordofan Meridionale hanno ucciso lo stesso giorno un altro cristiano, mentre intonavano il noto grido "Allahu akbar" (Allah è grande). Si tratta - come riportato da Compass - del trentatreenne Adeeb Gismalla Aksam, autista di autobus e figlio di uno degli "anziani" della Chiesa evangelica di Kadugli.
Mentre vari edifici di culto sono stati saccheggiati e dati alle fiamme, due cristiani, fra cui un parroco, hanno subito torture. Il reverendo Abraham James Lual è stato arrestato l'8 giugno nella sua chiesa a Kadugli e trasferito in un luogo sconosciuto, dove è stato torturato per due giorni, prima di essere rilasciato la mattina successiva.
"La situazione è critica - abbiamo bisogno di altri cristiani che digiunano e pregano per noi", ha detto una fonte locale a Compass.