Padre Piccinini, il “gigante buono delle favole”

Le testimonianze sull’orionino divenuto “Giusto fra le nazioni”

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di Chiara Santomiero

ROMA, giovedì, 23 giugno 2011 (ZENIT.org).- “Venivo da una famiglia profondamente ebraica. Alla sera mia madre mi poggiava la kippà sulla testa e mi insegnava: ‘Shemà Israel’. Chiesi a padre Piccinini di non farmi fare cose contrarie alla mia tradizione”: è la testimonianza di Bruno Camerini, poco più di un bambino nel 1943, quando il sacerdote orionino Gaetano Piccinini lo nascose insieme ai suoi familiari tra conventi ed orfanotrofi per sottrarlo alla persecuzione nazista.

Il 23 giugno, a Roma, alla memoria di padre Piccinini è stata consegnata la medaglia di “Giusto fra le nazioni” conferita dallo Yad Vashem, l’Istituto per la memoria dei martiri e degli eroi dell’Olocausto, proprio su istanza di Camerini.

“Piccinini – ricorda Camerini – in tempi in cui il Concilio Vaticano II e la sua apertura era ancora molto di là da venire, fece di tutto per acconsentire alla mia richiesta”. E, quindi “mi metteva a rispondere al telefono durante la Messa o a staccare i biglietti al cinema Induno, collegato alla Casa dell’orfano gestita dagli orionini dove ero nascosto, finché i tempi non divennero talmente rischiosi che disse a mia madre che, per la mia salvezza, sarebbe stato meglio che assistessi alle funzioni”.

“Ho ammirato in lui – ha proseguito Camerini – quel senso dell’amore per il prossimo, anche sconosciuto, che come ebreo conoscevo dal libro del Levitico ma che lui spingeva fino al rischio della vita”. Un pericolo non ipotetico considerato che “allora accogliere ebrei comportava almeno la deportazione nei campi di concentramento e il comando della Wermacht era proprio davanti al cinema Induno a ricordarglielo”.

“Non ricordo prediche da parte sua – ha aggiunto Camerini riandando con la memoria ai tempi terribili dell’occupazione nazista di Roma -: l’amore per il prossimo lo metteva in pratica nella quotidianità e ancora oggi non so come sia riuscito a dare da mangiare a tutti coloro che accoglieva: ebrei, prigionieri polacchi, renitenti alla leva, comunisti ostili alla Chiesa, non faceva distinzioni, bastava che fossero in pericolo”. “Devo a lui – ha concluso Camerini – non solo la vita ma un insegnamento per la vita: sentirmi vicino, come ebreo ai miei fratelli cristiani”.

La medaglia di “Giusto fra le nazioni” è l’unica onorificenza civile dello Stato d’Israele e viene conferita a persone non ebree che abbiano messo in pericolo la propria vita per salvare un ebreo dal genocidio nazista. In Italia hanno ricevuto questo riconoscimento 484 persone ma crescono di giorno in giorno le posizioni e le testimonianze che vengono portate all’attenzione dello Yad Vashem.

“L’integrità morale e l’umanità di ognuno di noi – ha affermato Livia Link, consigliere per gli affari pubblici e politici dell’ambasciata d’Israele a Roma – è messa alla prova dagli eventi tutti i giorni. Nell’ora buia della shoà persone virtuose hanno riportato la luce tendendo la mano a un altro essere umano a rischio della vita. Esse hanno compreso che ogni essere umano ha la possibilità di scegliere”. Padre Piccinini, per Link “è un esempio del contributo della Chiesa, mai ricordato abbastanza, per la salvezza degli ebrei”.

Se questo è un uomo

Il “gigante buono delle favole”, così appare Piccinini nei ricordi di don Giuseppe Sorani, anch’egli della famiglia orionina. “Nel settembre del 1943 – ha raccontato Sorani – avevo 15 anni e venivo da cinque anni di faticosa sopravvivenza”. Le leggi razziali, infatti, lo avevano privato in quanto ebreo della casa, della scuola, della famiglia, dispersa tra vari parenti per potersi salvare e persino del cibo. Non fu solo protezione quella che trovò presso Piccinini ma “la possibilità di riscoprirmi persona e non solo emarginato. Lo smarrimento profondo che avevo provato nella mia vita, il sentirsi calpestato nella dignità, rendevano applicabile anche a me la domanda di Primo Levi: ‘se questo è un uomo’”. Era soprattutto il modo in cui Piccinini accoglieva le persone a scaldare il cuore del giovane perseguitato: “senza fare mai domande, con discrezione e serenità d’animo, senza dar peso al contesto: con lui sembrava tutto facile”.

Un insegnamento di vita che genera vita. “Dopo la liberazione di Roma, il 4 giugno del ’44 – ricorda Sorani – vidi partire gli ultimi soldati tedeschi. Erano ragazzi di 16 anni, come me, stanchi, coperti di polvere, sconfitti. Avrei potuto sfogare la rabbia e l’angoscia dei miei giovani anni, ma Piccinini aveva ricreato in me una coscienza umana e lasciai che prendessero la via di casa senza aggiungere altra distruzione, soprattutto alla mia vita”.

Ancora di più: “Piccinini mi affidò l’assistenza di un ufficiale nazista nascosto in un sottoscala. Gli portavo da mangiare e gli procurai degli abiti civili. Lo ascoltavo mentre ripeteva che la guerra poteva ancora essere vinta dai tedeschi e che gli ebrei dovevano essere sterminati tutti. Avevo capito che anche per lui valevano quelle parole: anche questo è un uomo”.

Il valore della memoria.

“Il presidente Kennedy – ha ricordato Mario Macciò, amico di una vita di Piccinini – volle accompagnarlo fin dentro lo studio ovale per chiedergli di benedire la sedia presidenziale. Paolo VI gli inviò un rosario quando, negli ultimi giorni della sua vita era infermo in ospedale: un gesto che lo commosse molto perché, durante la guerra, era l’allora mons. Giovambattista Montini della Segreteria di Stato che teneva i rapporti tra Pio XII e le congregazioni religiose per adoperarsi per la salvezza dei perseguitati”.

Una porta, quella di Piccinini e delle case della Piccola Opera della Divina Provvidenza di S. Luigi Orione, aperta per chiunque bussasse in cerca di riparo. “Ai suoi funerali – ha raccontato Macciò – c’erano in prima fila lo scrittore socialista Ignazio Silone e Umberto Albini che aveva partecipato alla seduta del Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio del 1943 votando a favore dell’ordine del giorno Grandi che fece cadere il governo. Per questo fu condannato a morte dal Tribunale di Verona ma riuscì a raggiungere Roma dove Piccinini lo nascose in un istituto. Insieme lo accompagnarono nell’ultimo viaggio ad Avezzano dove era nato e da dove don Orione lo aveva portato a Roma dopo il terremoto della Marsica”.

“Il conferimento di questa medaglia – ha detto a ZENIT padre Flavio Peloso, Superiore generale della Piccola Opera della Divina Provvidenza – ha un duplice valore: innanzitutto coltivare il dialogo e la riconoscenza tra ebrei e cristiani, perché siamo fratelli e dobbiamo vivere come tali”. In secondo luogo questi riconoscimenti hanno la funzione di “provocare una ricerca storica che va ricomponendo uno scenario di atrocità e solidarietà che ripropone la lotta tra bene e male affrontata da Piccinini e da molti altri come lui”.

Una ricerca che aiuta a mettere nella giusta luce l’intervento della Chiesa e dello stesso Pontefice Pio XII a favore della salvezza degli ebrei: “dopo le polemiche più infuocate, è in atto un’opera discreta e proficua di ricostruzione storica degli eventi che va sfumando il giudizio sull’operato di Pio XII sottraendolo a considerazioni di natura morale, psicologica e politica”. Va in ogni caso sfatata l’idea che “ci sia una condanna morale di Israele e dell’ebraismo su Pio XII”.

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ZENIT Staff

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