di Renzo Allegri
ROMA, giovedì, 10 marzo 2011 (ZENIT.org).- In questi giorni si parla e si scrive molto di Edda Ciano Mussolini (1910-1995). Il film “Edda Ciano e il comunista”, realizzato dalla Rai, ha richiamato l’attenzione di massa sulla figlia primogenita del Duce, moglie del conte Galeazzo Ciano, una donna dal carattere forte, passionale che fu protagonista, spesso scomoda, in tutte le fasi della sua vita.
Su Edda Ciano sono stati scritti innumerevoli libri e articoli. Anch’io mi sono interessato di lei in varie occasioni. Nel 1973, incontrai un personaggio che la conosceva bene, il sacerdote don Giusto Pancino, suo compagno di giochi nell’adolescenza e poi testimone di uno dei periodi più drammatici della vita di Edda, quello seguito alla fucilazione di suo marito. L’ordine di uccidere Galeazzo Ciano era stato firmato dal Duce ed Edda, che adorava il padre, rimase sconvolta. Non riusciva a concepire che il proprio genitore avesse condannato l’uomo che lei aveva sposato. Cominciò a odiare il padre come non aveva mai odiato nessuno. E Mussolini, nel tentativo di riconquistare l’affetto di quella figlia, per la quale aveva una predilezione, ricorse a don Giusto Pancino, amico di Edda, pregandolo di incontrarla e di ottenergli il suo perdono.
Per oltre un anno, il sacerdote si trovò così al centro di una situazione estremamente drammatica. Un groviglio di terribili vicende familiari, politiche, diplomatiche. Il Duce era a Gargnano sul lago di Garda, dove, sotto l’egida di Hitler, aveva fondato la Repubblica di Salò. Edda Ciano era fuggita in Svizzera con i figli. Don Pancino, in incognito e in gran segreto, faceva la spola tra Gargnano e la Svizzera, ma tra mille difficoltà e sempre inseguito dai servizi segreti di varie nazioni che gli davano una caccia spietata. Una pagina di storia che non è conosciuta, ma che offre spunti inediti sulla vita di Edda e di suo padre Benito Mussolini e su altri fatti dell’ultimo anno di vita del duce.
Quando lo incontrai, nell’estate del 1973, don Giusto Pancino era parroco a Vivaro, un paese in provincia di Pordenone. Non gradiva parlare di quella sua ormai lontana avventura e accettò di farlo solo dopo che gli avevo promesso di fargli leggere l’articolo prima della pubblicazione. Nel suo racconto citava la Santa Sede, Pio XII, il Nunzio apostolico, il proprio vescovo. "Sono un sacerdote tranquillo", diceva. "Non vorrei che qualche mia frase riferita male mi mettesse in difficoltà con i miei superiori. Non mi sono mai interessato di politica. Ho incontrato il Duce perché me lo chiese il Vaticano".
Accettai molto volentieri di fargli leggere l’articolo prima della pubblicazione perché in questo modo io avevo un documento straordinario in quanto era stato corretto e rivisto dal protagonista. "Sono nato a Milano nel 1907", cominciò a raccontarmi don Giusto in quel pomeriggio di settembre del 1973, e il suo racconto fu lunghissimo. "Quando Benito Mussolini faceva il giornalista a Milano ed era direttore del Popolo d’Italia, io avevo 14 anni. La mia famiglia abitava vicino a quella di Benito. Ero amico dei suoi figli, in particolare di Edda, che aveva tre anni meno di me. Era una ragazzina magra, nervosa con due grandi occhi. Con lei andavo d’accordo, giocavamo e stavamo volentieri insieme”.
"Allora studiavo per diventare ragioniere, ma per guadagnarmi qualche cosa facevo il garzone in un’edicola. Tutte le mattine Mussolini veniva a prendere il giornale. Era sempre corrucciato e pensieroso. Mi diceva, 'Ragazzo, dammi giornali istruttivi'. Furono gli unici contatti che ebbi allora con Mussolini”.
"Nel 1924, la famiglia Mussolini si trasferì a Roma. Per qualche anno continuai a ricordarmi di Edda, ma poi la dimenticai. Terminati gli studi di ragioneria, entrai in seminario e divenni sacerdote. Frequentai l’università e mi dedicai all’insegnamento”.
"Nel 1941 andai in Albania, cappellano militare al 'campo 27'. Un giorno, vestita da crocerossina, arrivò nella mia tenda Edda Mussolini. Fu un incontro cordialissimo. Ritornammo ad essere i vecchi amici di un tempo. Edda era venuta in Albania insieme con un'amica, Natalia Paresce, nipote di Guglielmo Marconi. Tutte e due restarono nel mio ospedale da campo e lavorammo insieme”.“In quel periodo, anche Mussolini venne a fare una visita in Albania. Edda me lo presentò e gli ricordò i tempi in cui noi due eravamo ragazzi a Milano. Io dissi al Duce che gli vendevo il giornale. In quei giorni, gli fui molto vicino. Lo accompagnavo negli ospedali da campo, cenavo con lui. Parlavamo dei problemi dei soldati e soprattutto di quelli dei feriti. Mussolini mi fece un'impressione strana. Lo pensavo un uomo duro, sprezzante, freddo; invece, lo trovavo diverso. Quando era in pubblico, attorniato dai collaboratori, era taciturno e corrucciato. Quando eravamo soli, appariva mite, remissivo, preoccupato. Davanti ai feriti e al sangue, impallidiva”.
“Nel mio campo c'era un soldato che aveva perduto le mani, le gambe e la vista. Accompagnai Mussolini al letto di questo ferito e dissi: 'Cesare, c'è qui il Duce che vuole salutarti'. Quel soldato alzò il moncherino fasciato in segno di saluto. Sul volto di Mussolini apparve una smorfia di dolore e di contrarietà”.
“Nel 1942, tornai in Italia. Ero ammalato. Il vescovo mi chiese dove volevo andare a fare il parroco. Scelsi un piccolo paese vicino a Belluno, Erto, che in seguito fu distrutto dal disastro del Vaiont. Qui condussi vita ritirata e tranquilla. Seguii le vicende politiche del Paese solo attraverso i giornali: la crisi del fascismo, la caduta di Mussolini, la prigionia sul Gran Sasso, la fuga e poi la nascita della Repubblica di Salò. Seguii anche il processo di Verona”.
“Dodici giorni dopo l'esecuzione della sentenza di Verona, seppi che Mussolini voleva vedermi a Gargnano, vicino a Salò, dove aveva sistemato il suo quartier generale. La sentenza era stata firmata da Mussolini. Tra i condannati c'era anche Galeazzo Ciano, marito di Edda Mussolini. Edda, rifugiata in Svizzera con figli, si era battuta con tutte le forze perché suo marito fosse salvato. Ma Mussolini, pressato dai collaboratori, fu costretto a sbarazzarsi senza pietà dei cosiddetti 'traditori'. Però, dopo l'esecuzione della sentenza, si rese conto di aver perduto anche Edda, la figlia prediletta, e di questo non si dava pace. Fu allora che si ricordò di me, dell'amicizia che avevo per Edda. Mi fece chiamare per mandarmi in Svizzera a ottenere il perdono dalla figlia”.
Come trovò Mussolini nel suo esilio di Gargnano?
Don Giusto Pancino: Un uomo diverso da quello che avevo conosciuto in Albania, tre anni prima. Era dimagrito e invecchiato. Il primo incontro avvenne il 22 febbraio 1944, al tramonto. Era una serata umida e nebbiosa. Mussolini era nella sua villa, di proprietà di Feltrinelli. Le prime battute furono fredde, convenzionali, poi la conversazione si fece più distesa. Mussolini mi disse che era profondamente amareggiato per il comportamento della figlia e che non voleva perderne l'affetto, per nessuna ragione al mondo. Parlammo naturalmente del processo di Verona e della condanna di Ciano. Mi disse che aveva dovuto agire così per "ragion di Stato". Continuava a ripetere che non aveva avuto possibilità di scelta, che aveva firmato la condanna di Ciano con la morte nel cuore, pensando a Edda.
Parlammo a lungo, e il discorso tornava sempre sulla morte di Ciano. L'ombra del genero era presente come un incubo. Mussolini continuava a cercare argomenti e ragioni per giustificarsi. “Lei deve farlo capire a Edda”, mi ripeteva “deve convincerla che io non sono colpevole, che non potevo fare diversamente”. Il colloquio durò fino a tardi. Mussolini si incaricò di farmi ottenere tutti i permessi per entrare in Svizzera. Gli feci presente che non potevo lasciare la parrocchia senza l'autorizzazione del mio vescovo. “Ci penso io, anche per questo”, rispose. Nell'attesa di ottenere i permessi, incontrai Mussolini più volte. Era sempre nello stesso stato d'animo: tormentato, sofferente, depresso. Parlava di Edda, di Ciano e di morte.
Parlavate anche della situazione politica italiana?
Don Giusto Pancino: Anche di quella. Mussolini era pessimista. Temeva una catastrofe improvvisa. Diceva: “Da un momento all'altro mi possono uccidere”. Oppure: “Se cado nelle mani degli alleati, mi porteranno in giro, come un fenomeno da mostrare al mondo”.
Quando partì per la Svizzera?
Don Giusto Pancino: Dopo la metà di marzo. I permessi della Santa Sede arrivarono in fretta, ma quelli del governo svizzero si fecero attendere. Le autorità elvetiche erano diffidenti. Ripetutamente dovetti dichiarare che il mio viaggio non aveva scopi politici. Quando seppero che dovevo avvicinare Edda Ciano, opposero un secco rifiuto. Solo l'intervento del nunzio apostolico mi fece superare quella difficoltà.
Dove incontrò la figlia di Mussolini?
Don Giusto Pancino: Edda si trovava a Ingenbohl, nel convento del Heiliger Kreuz. Portavo con me le ultime lettere di Galeazzo Ciano, i suoi oggetti personali e una lunga lettera di Mussolini. Era una lettera umile, dolce, piena d'affetto, la lettera di un padre spaventato all'idea di perdere l'affetto della figlia prediletta. Edda era in uno stato di terribile disperazione. Ogni parola era un'accusa contro il padre e una minaccia di vendetta. Se tentavo di dirle che Mussolini chiedeva il suo perdono, l'odio di Edda si rivolgeva contro di me. Rimasi con lei una ventina di giorni cercando di confortarla, ma senza ottenere niente di quanto mi aveva chiesto Mussolini. Quindi tornai a Gargnano.
Mussolini restò malissimo quando gli riferii l'esito della mia visita a Edda. Continuava a farmi domande, a chiedere particolari, e ogni mia risposta lo addolorava sempre più. Faceva lunghi monologhi parlando delle sue sofferenze, del bene che voleva a Edda, della sua vita sbagliata. Non avrei mai immaginato che potesse ridursi in quelle condizioni. Certe volte la sua voce era rotta dalla commozione gli occhi luccicavano, sembrava stesse per piangere. Quando uscivamo dalla sua stanza, gonfiava il torace, stringeva i denti, alzava la testa, tornava ad essere il Duce che tutti conoscevano. Ma dentro quelle quattro mura era uno straccio di uomo.
Dopo la metà di aprile mi chiese di tornare ancora da Edda. Mi consegnò una lettera in cui, tra le altre cose, scriveva alla figlia: “Sulle rive di questo lago tutto appare calmo, appare... Mi rendo conto della tua situazione e spero che un giorno più o meno lontano ti renderai conto della mia, personale e politica...”. Mi diede anche una lettera che aveva appena ricevuto da Carolina Ciano, la madre di Galeazzo. “Faccia leggere questa lettera a Edda”, mi disse. “Le dica che anche la madre di Galeazzo ha compreso la mia situazione: ha capito subito e mi ha risposto con parole affettuose”.
La lettera, che conservo ancora perché Edda non la volle, diceva: “Mio carissimo, sono commossa per le tue buone parole. Tutto quello che fai e farai per me è rivolto soltanto ai nostri tre cari nipotini. Ho saputo da mio cognato della traslazione della mia adorata salma. E, se ora riposa vicino ai suoi e ai miei cari, è per volere tuo. A te tutta la mia gratitudine! Se potrai ricevermi ne sarò lieta e riconoscente. La mia Pasqua è stata triste come la tua. Sola con i miei pensieri e lontana dalla cara Edda e dai bambini. Dal mio animo grato i miei auguri di una pace che meriti, con molti affettuosi saluti. Carolina Ciano”.
Anche il secondo viaggio fu negativo. Intanto la mia missione si complicava. Edda Ciano era in possesso dei famosi Diari del marito, che facevano gola a Himmler, capo delle SS. Himmler sapeva che nei Diari Ciano aveva trascritto lunghi colloqui avuti con Ribbentrop. Il ministro degli Esteri tedesco aveva espresso giudizi negativi su Hitler. Himmler voleva accusare Ribbentrop di fronte al Führer ed era disposto a tutto per avere quei diari.
Le SS sapevano dei miei viaggi in Svizzera e mi davano una caccia spietata. Più volte fui avvicinato da emissari di Himmler che mi offrivano denaro, libertà e qualunque cosa desiderassi, in cambio dei Diari di Ciano. L'ultima offerta furono cento milioni in contanti, da ritirare in Svizzera, e la possibilità di scappare in qualunque parte del mondo. Alle offerte aggiunsero anche le minacce. Nei miei viaggi in Svizzera dovetti ricorrere ad astuzie di ogni genere per sfuggire alle trappole degli emissari di Himmler. I miei spostamenti diventavano sempre più pericolosi e avventurosi. Una volta io e Edda, per sfuggire alle spie tedesche, ci incontrammo in cima a una grossa quercia. Eravamo costretti ad adoperare parole segrete per fissare gli appuntamenti. Riuscii, però, a sfuggire sempre agli agguati delle SS.
Lei fu in possesso dei Diari di Ciano?
Don Giusto Pancino: Sì, quei famosi quaderni restarono nelle mie mani per parecchi giorni. Edda me li consegnò nel convento del Heiliger Kreuz perché li portassi al sicuro. Li tenni nascosti nella mia stanza per un po', e quando si presentò l'occasione buona andai a Berna e li depositai al Credit Suisse. Poteva ritirarli solo chi avesse pronunciato una parola d'ordine dai tre numeri della data di nascita di Edda Mussolini.
Fu poi Edda a ritirare i Diari?
Don Giusto Pancino: Sì, e li vendette agli americani per 200 milioni, riservandosi i diritti d'autore sulle pubblicazioni.
Quando tornava dalla Svizzera, lei andava sempre a Gargnano, da Mussolini?
Don Giusto Pancino: Tornavo a riferirgli i risultati dei colloqui con Edda. Le notizie erano sempre le stesse: Edda non voleva sentir parlare di suo padre. Mussolini, intanto, mi si era affezionato. Si confidava. Nell'aprile del 1944 cominciò a dirmi di essere credente, cattolico romano. Quando attaccava questi discorsi, cercavo di cambiare argomento, perché pensavo che parlasse di religione solo per farmi piacere. Si accorse che dubitavo della serietà delle sue parole e mi ripetè più volte di essere credente. Mi disse che non si era mai mostrato praticante per non attirare la curiosità della gente sulla sua persona. Mi chiese di diventare il suo assistente spirituale e manifestò il desiderio di confessarsi. Parlammo anche di Claretta Petacci. Cercava di giustificare quella relazione con ragioni infantili: diceva che tutti i grandi uomini politici avevano avuto un'amante.
Mussolini insisteva perché lo confessassi e lo assolvessi dei suoi peccati. Lasciai passare del tempo per vedere se erano desideri passeggeri, suggeriti dalla sua depressione, ma lui insisteva. Allora cominciai a pensare che si fosse convertito realmente. Però, confessare Mussolini non era una cosa semplice. Aveva commesso peccati riservati al Papa, non potevo assolverlo senza una particolare autorizzazione. Mi rivolsi al Vaticano, e alla fine di giugno 1944 Pio XII mi mandò l'autorizzazione ad assolvere, in nome del Papa, Benito Mussolini da tutti i peccati e delitti commessi qualora avesse manifestato pentimento e contrizione.
E lei si servì di quella autorizzazione?
Don Giusto Pancino: Cominciai a preparare Mussolini perché facesse una confessione generale. Volevo che la sua riconciliazione con Dio avvenisse nel modo migliore. Ma improvvisamente accadde un fatto che cambiò completamente i propositi di Mussolini: l'attentato del 20 luglio 1944 contro Hitler. Il colonnello Von Stauffenberg collocò una bomba nel quartiere generale del Führer, a Rastenburg, nella Prussia orientale. Hitler rimase ferito soltanto leggermente e si vendicò immediatamente dei suoi attentatori. Kluge e Rommel, implicati nella congiura, si tolsero la vita; gli altri vennero giustiziati.
Proprio in quei giorni Mussolini ebbe un incontro con Hitler a Rastenburg. Quando tornò a Gargnano, era completamente cambiato. Non appariva più triste, sfiduciato, depresso, ma euforico, sicuro di sé, sprezzante della situazione, del pericolo. Le parole di Hitler lo avevano drogato. Non gli interessava più il giudizio della figlia Edda, non parlava più della morte di Ciano, non manifestò più il desiderio di confessarsi; anzi, non mi parlò più di religione.
Il suo Dio era Hitler. Continuava a parlare di Hitler. “Vinceremo noi”, ripeteva. “Hitler mi ha convinto. I suoi scienziati hanno messo a punto un'arma eccezionale, una bomba che piegherà i nostri nemici. Sono già stati fatti i primi esperimenti in un'isola nel Baltico, con risultati eccezionali. Si tratta di resistere ancora qualche mese, poi la vittoria sarà nostra”. Quando Mussolini parlava di quest'arma, i suoi occhi sembravano di fuoco. Con me, ora, teneva un contegno distaccato. Capii che la mia missione era finita e chiesi di tornare alla mia parrocchia di Erto.
Per quattro mesi non seppi niente di Mussolini, né di Edda Ciano. Nel dicembre 1944 Mussolini mi fece chiamare ancora. La sicurezza della vittoria era sfumata, l'infatuazione per Hitler era scomparsa. Questa volta mi chiese di andare in Svizzera non solo per incontrare Edda, ma per chiedere al nunzio apostolico di trattare una resa con gli alleati. Mi disse che era deciso a finirla, perché ormai non c'erano più speranze.
Andai in Svizzera. Anche questa volta il viaggio fu molto avventuroso. Edda Ciano non era più nel convento di Ingenbohl: si era fatta ricoverare in una clinica presso Losanna. Aveva i nervi a pezzi. Le parlai ancora di suo padre, del motivo per cui ero venuto in Svizzera. E lei, sempre con grande odio verso Mussolini, mi rispose: “Dì a mio padre che gli restano solo due soluzioni: o fuggire o suicidarsi”.
Incontrai il nunzio apostolico e gli riferii quanto mi aveva detto Mussolini. “Informerò subito la Santa Sede”, rispose il nunzio “e inizieremo le trattative al più presto”. Tornai a Gargnano. Intanto i tedeschi avevano sferrato la controffensiva delle Ardenne e stavano respingendo gli alleati. Mussolini si era ricaricato e mi disse: “Riprenda contatto con il nunzio e fermi le trattative per la resa: c'è ancora la possibilità di vincere”.
In quel periodo seppi che i tedeschi avevano rubato il "diario" scritto da Mussolini durante la prigionia sul Gran Sasso. Il diario era stato tradotto in tedesco e consegnato a Hitler. Riferii a Mussolini quanto avevo saputo. Lui restò allibito. Il giorno dopo mi chiamò per chiedere altri particolari. Era sconvolto. Mi disse che in quel diario aveva scritto giudizi molto pesanti su Hitler. Aveva riportato anche un giudizio di Vittorio Emanuele III, che un giorno gli aveva detto: “Hitler è uno jettatore: ogni volta che viene in Italia accadono catastrofi”. Aveva riferito che Bottai usava chiamare Hitler “ridicolo topo”. Lasciai Mussolini in preda a gravi preoccupazioni e tornai alla mia parrocchia.
Verso la fine del gennaio 1945 fui chiamato a Gargnano ancora una volta. L'offensiva tedesca nelle Ardenne era fallita, la Germania stava per crollare. Mussolini era di nuovo disperato. Mi chiese di tornare in Svizzera per trattare la resa con gli alleati. Partii immediatamente e incontrai il nunzio apostolico, il quale, attraverso la Santa Sede, iniziò i contatti. Gli alleati si dissero disposti a trattare, ma senza condizioni. Riferii a Mussolini. “Chiedo soltanto di salvare la faccia”, disse. La Santa Sede continuò le trattative. Mussolini doveva recarsi in Svizzera per incontrare gli alleati, le SS erano al corrente di ogni cosa. Il generale Karl Wolff, comandante delle SS in Italia, si intromise e riuscì a impedire la partenza del duce e a bloccare le trattative.
Contemporaneamente, cominciò lui a trattare la resa con gli alleati e la concluse nell'aprile, riuscendo in questo moda a salvare se stesso. Se non si fosse intromesso il generale Wolff, forse Mussolini non sarebbe caduto in mano ai partigiani e non sarebbe stato fucilato.
Quando avvenne il suo ultimo incontro con Mussolini?
Don Giusto Pancino: In marzo, una quarantina di giorni prima della sua morte. Era cosciente che la fine era prossima. “Finirò ucciso”, mi ripeteva. No, non penso che avesse paura. Era diventato cinico. Restai con lui alcune ore, ma non mi parlò di Dio, non mi chiese di confessarlo. Tentai di risvegliare in lui i sentimenti religiosi che mi aveva manifestato un anno prima. “Ciano si è riconciliato con Dio prima della fine, è morto in pace”, dissi. Mussolini restò sopra pensiero, ma non mi rispose.