ROMA, venerdì, 4 marzo 2011 (ZENIT.org).- Negare la libertà religiosa “mina qualsiasi aspirazione democratica, favorisce l’oppressione e soffoca tutta la società, che può esplodere con risultati tragici”.
L’Arcivescovo Silvano M. Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede presso l’Ufficio delle Nazioni Unite a Ginevra, lo ha affermato questo mercoledì intervenendo alla XVI Sessione Ordinaria del Consiglio dei Diritti dell’Uomo sulla Libertà Religiosa, svoltasi nella città svizzera.
Il presule ha ricordato che la libertà religiosa “è un valore per la società nella sua interezza” e comporta conseguenze sociali come “coesistenza pacifica, integrazione nazionale nelle situazioni pluralistiche di oggi, maggiore creatività perché le doti di ognuno vengono messe al servizio del bene comune”.
“Un ambiente di autentica libertà di religione – ha aggiunto – diventa la medicina migliore per prevenire la manipolazione della religione ai fini politici di conquista e di mantenimento del potere e di repressione dei dissidenti, delle comunità di fede diverse o di minoranze religiose”.
La discriminazione e le lotte religiose, ha infatti sottolineato, “sono raramente, se non addirittura mai, il mero prodotto di differenze nelle opinioni e nelle pratiche religiose”, perché “al di sotto della superficie ci sono problemi sociali e politici”.
L’Arcivescovo ha lamentato “l’aumento della proliferazione di episodi di discriminazione e di atti di violenza contro persone, comunità di fede e luoghi di culto in diverse regioni geografiche del mondo”, sottolineando che il conflitto religioso “è un pericolo per lo sviluppo sociale, politico ed economico”.
Allo stesso modo, ha indicato, “polarizza la società, rompendo i vincoli necessari al prosperare della vita sociale e del commercio”, “produce una violenza che priva le persone del diritto più fondamentale di tutti, quello alla vita”, e “pianta i semi della sfiducia e dell’amarezza che possono trasmettersi per generazioni”.
“Questa concentrazione della discriminazione religiosa dovrebbe preoccupare tutti noi”, ha rilevato.
Il ruolo dello Stato
Il presule ha ricordato che lo Stato “ha il dovere di difendere il diritto alla libertà di religione e quindi ha la responsabilità di creare un ambiente in cui di questo diritto si possa godere”.
Come stabilisce la Dichiarazione ONU sull’Eliminazione di tutte le forme di Intolleranza e di Discriminazione fondate sulla religione e sul credo, “lo Stato deve svolgere diversi doveri nel funzionamento quotidiano della società”.
Ad esempio, ha osservato, “non deve esercitare discriminazioni religiose nelle sue leggi, nelle sue politiche, né permettere de facto una discriminazione da parte dei funzionari pubblici”, ma “promuovere la tolleranza religiosa e la comprensione nella società, un obiettivo che si può raggiungere soltanto se i sistemi educativi insegnano il rispetto per tutti e i sistemi giudiziari sono imparziali nella attuazione delle leggi e rifiutano la pressione politica volta a garantire l’impunità ai responsabili dei crimini contro i diritti umani di seguaci di una particolare religione”.
Lo Stato dovrebbe inoltre “sostenere tutte le iniziative volte a promuovere il dialogo e il rispetto reciproco fra le comunità religiose”, rafforzando le proprie leggi “che combattono contro la discriminazione religiosa, con vigore e imparzialità”.
Deve poi “garantire l’incolumità fisica alle comunità religiose sotto attacco” e “incoraggiare le maggioranze a permettere alle minoranze religiose di praticare la propria fede individualmente e in comunità senza minacce od ostacoli”.
False percezioni
“Per godere dei benefici sociali della libertà religiosa bisogna elaborare misure specifiche che permettano all’esercizio concreto di questo diritto di prosperare”, ha sottolineato monsignor Tomasi, richiamando l’attenzione su “tre false percezioni” realtive alla libertà religione e di credo.
In primo luogo, ha indicato che “il diritto di esprimere o di praticare la propria religione non è limitato agli atti di culto”, ma include “il diritto di esprimere la propria fede con azioni di servizio sociale e caritativo”, ad esempio offrendo “servizi sanitari ed educativi attraverso istituzioni religiose”.
In secondo luogo, “le comunità di fede hanno le proprie regole relative ai requisiti per l’ufficio religioso e per il servizio nelle istituzioni religiose, incluse le strutture caritative”.
Queste istituzioni “sono parte della società civile e non diramazioni dello Stato”, per cui “i limiti che la legge internazionale sui diritti umani pone agli Stati sui requisiti per gli uffici statali e per il servizio pubblico non si applicano automaticamente ad attori non statali”.
“Infine, si teme che il rispetto della libertà di scegliere e praticare un’altra religione, diversa dalla propria, si basi sul presupposto che tutta la verità sia relativa e che non vi sia una religione valida in maniera assoluta”.
“Questo è l’equivoco”, ha concluso monsignor Tomasi. “Il diritto di adottare e di cambiare una religione si basa sul rispetto per la dignità umana: lo Stato deve permettere a ogni persona di cercare liberamente la verità”.