Immigrazione: problema o risorsa? (II)

Intervista a Giorgio Paolucci, caporedattore di “Avvenire”

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di Antonio Gaspari

ROMA, venerdì, 28 gennaio 2011 (ZENIT.org).- Una soluzione concreta al problema dell’emigrazione incontrollata consiste nel dare vita a una politica di cooperazione internazionale capace di porre le fondamenta per uno sviluppo dei Paesi poveri. E’ quanto sostiene in questa seconda parte dell’intervista il giornalista Giorgio Paolucci.

Che cosa occorre fare rispetto all’immigrazione di cultura e tradizione islamica, che per certi versi sembra essere quella che pone più problemi di integrazione?

Paolucci: In Italia vive un milione e mezzo di musulmani, poco più di un terzo degli stranieri residenti in Italia. Per la stragrande maggioranza si tratta di persone che vogliono vivere in pace seguendo i dettami della loro religione, e che la praticano a livello individuale e familiare, senza legami  stretti con le associazioni islamiche. E’ la cosiddetta “maggioranza silenziosa” dell’islam italiano, alla quale si affianca una “minoranza intensa” costituita da organizzazioni di diverso orientamento, le quali lavorano per un riconoscimento dell’islam sulla scena pubblica, a partire dalla possibilità di costruire moschee.

Spesso le richieste inoltrate dalle comunità non vengono recepite dalle amministrazioni locali, sia perché talvolta gli edifici in cui si svolge la preghiera mancano dei requisiti di legge, sia per motivi di opportunità politica, legate anche alle proteste degli abitanti, talvolta sapientemente orchestrate da partiti e movimenti che denunciano il pericolo di islamizzazione  del territorio. Sul tavolo stanno molti fattori: da una parte, la concreta realizzazione del principio di libertà religiosa garantita dalla Costituzione, dall’altra la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, alla quale si rifanno coloro che mettono in evidenza le attività a sfondo politico ospitate da moschee e centri islamici. Il dibattito divide le forze politiche e l’opinione pubblica, c’è chi invoca una regolamentazione della questione a livello nazionale e chi invece sollecita decisioni  da parte delle amministrazioni locali.

Come agire?

Paolucci: In un contesto molto magmatico e controverso è opportuno tenere presenti alcune coordinate di fondo che possono essere utili per formulare giudizi adeguati alle diverse situazioni locali. E’ necessario sapere anzitutto che nella concezione islamica la moschea non è “soltanto” un luogo di culto ma svolge anche un ruolo sociale e politico. Non è assimilabile a una chiesa cristiana: è il luogo dove la comunità si raduna per la preghiera e per affrontare e giudicare tutto ciò che la riguarda, da essa partono indicazioni, prese di posizione, iniziative di rilevanza pubblica, come dimostra l’esperienza dei Paesi islamici. Non a caso in molti di essi le prediche dell’imam devono essere preventivamente vagliate e autorizzate dalle autorità pubbliche, affinché non sconfinino dal campo religioso e non determinino turbative dell’ordine pubblico. Anche l’esperienza di questi anni in Italia insegna che in certi casi da quelle che vengono classificate come “sale di preghiera” sono arrivate invettive contro le regole e i valori che fondano la convivenza in Occidente e che alcuni imam sono stati indagati e condannati per attività di fiancheggiamento al terrorismo internazionale. Anche per questo è opportuno che l’autorizzazione all’apertura di moschee e centri islamici sia preceduta da accertamenti e valutazioni relativi all’identità giuridica e alle finalità degli enti promotori, alla provenienza dei finanziamenti, alla trasparenza delle attività previste, alla libertà di accesso senza distinzione di sesso e razza, alla preparazione degli imam, che dovranno avere un’appropriata cultura teologica e conoscere adeguatamente la lingua e la cultura italiane. A questo proposito c’è chi propone l’istituzione di un “albo nazionale” a cui si dovrà iscrivere chiunque voglia fare l’imam in Italia. Andrà altresì posta attenzione alle dimensioni dell’edificio, affinché esso non risulti sproporzionato rispetto alla situazione urbanistica nel quale si colloca e al numero di fedeli che lo frequenta. Tutto deve avvenire all’insegna della massima trasparenza, sia per offrire tutte le garanzie necessarie alle autorità locali, sia per tutelare i fedeli musulmani  che chiedono un  luogo in cui pregare e desiderano vivere in pace   e non diventare oggetto di pregiudizi e sospetti. L’auspicio è che la presenza di una moschea risponda alle esigenze spirituali di coloro che la frequentano e insieme rappresenti un punto di incontro con la popolazione che vive in quel territorio e un motivo di arricchimento, piuttosto che di divisione, per la convivenza civile. E’ un sogno destinato a infrangersi contro il muro delle incomprensioni e dei reciproci pregiudizi o piuttosto un legittimo desiderio attorno al quale istituzioni pubbliche, leader religiosi e uomini di buona volontà sono chiamati a un impegno comune?

Non c’è solo il nodo delle moschee sul tavolo del confronto tra comunità musulmane e istituzioni…

Per esempio, il rapporto tra religione e politica, la condizione femminile e il ruolo della donna all’interno del matrimonio, la poligamia, la libertà religiosa, compresa la possibilità di aderire a una fede diversa da quella islamica. Sono aspetti che rimandano alla grande (e per molti versi irrisolta) questione del rapporto tra islam e modernità, sulla quale nella comunità musulmana è aperto da tempo un grande dibattito e che anche in Italia ha fatto emergere posizioni molto diverse. 

Da anni si discute sull’opportunità di un accordo organico ai sensi dell’articolo 8 della Costituzione che prevede la possibilità di stabilire Intese tra lo Stato e le comunità religiose diverse da quella cattolica (che sono invece normate dal Concordato). Tra gli aspetti che potrebbero essere regolamentati, la costruzione di luoghi di culto e aree per la sepoltura, l’insegnamento della religione islamica nelle scuole, la possibilitàdi assentarsi dai luoghi di lavoro e da scuola in occasione di alcune festività del calendario islamico, la partecipazione alla ripartizione dei fondi dell’8 per mille, ecc. Alcune associazioni hanno presentato delle “bozze d’Intesa” che però non hanno mai iniziato neppure la fase istruttoria perché non viene sciolto il nodo cruciale della rappresentanza: chi ha titolo per rappresentare le istanze dei musulmani in una ipotetica trattativa con lo Stato tesa al raggiungimento di un’Intesa? Manca un’autorità gerarchica unanimemente riconosciuta, e le associazioni che si contendono la leadership dell’islam in Italia non hanno finora raggiunto un accordo stabile che consenta di superare questo primo, decisivo scoglio.  

In un capitolo del suo saggio lei propone di aiutare lo sviluppo in casa loro. Può illustrarci di che cosa si tratta?

Paolucci: E’ illusorio pensare che la migrazione possa risolvere i problemi creati dal sottosviluppo: può al massimo costituire una valvola di sfogo, che peraltro in tempio di crisi economica come quelli che  viviamo rischia di essere chiusa a causa delle difficoltà occupazionali che vivono anche i Paesi sviluppati. Per questo è più che mai necessario mettere mano a una politica di cooperazione internazionale che ponga le basi per lo sviluppo dei Paesi poveri. In questo l’Italia è stata finora molto avara: nel 2009 gli aiuti ammontavano allo 0.12 del Prodotto interno lordo.  L’erogazione degli aiuti economici deve peraltro essere fatta con intelligenza, privilegiando i canali che arrivano direttamente alle popolazioni locali (per esempio attraverso il lavoro dell ong già presenti in loco) ed evitando di ingrassare i potentati e le burocrazie locali. Gli aiuti economici devono coniugarsi con un impegno in campo educativo, perché solo partendo dalla valorizzazione della persona si può costruire uno sviluppo autentico, come dimostra da secoli il lavoro dei missionari cristiani e, più recentemente, quello dei volontari laici impegnati in varie parti del mondo.

[La prima parte dell’intervista è stata pubblicata il 27 gennaio]

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ZENIT Staff

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