di padre Pietro Messa*
ROMA, martedì, 25 gennaio 2011 (ZENIT.org).- Quando l’uomo si apre alla realtà, scopre che essa è complessa, tanto da apparire a volte anche contraddittoria o addirittura assurda; ciò vale in particolare per quegli aspetti che, pur presentandosi come ragionevoli, non sono immediatamente comprensibili perché superano la ragione dell’uomo.
In tale contesto il linguaggio che risulta più adeguato ad esprimere concetti così alti è quello simbolico, caratterizzato dal fatto di essere “polisemantico”, ossia di contenere in sé un numero ampio di significati in contemporanea. Non desta dunque meraviglia scoprire che quando la Chiesa ha voluto parlare di Dio, anche nel suo rivelarsi in Gesù Cristo, ha fatto ampio uso del linguaggio simbolico.
Nella stessa direzione si muove la costituzione dogmatica Dei Verbum del Concilio Vaticano II; un documento nel quale si sottolinea che la rivelazione «avviene con eventi e parole intimamente connessi tra loro, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole dichiarano le opere e chiariscono il mistero in esse contenute»[1].
Quanto indicato dal Concilio possiamo, con le debite differenze, applicarlo a tutti quegli avvenimenti in cui lo Spirito Santo è all’opera. Così il viaggio di Paolo vi in Terra Santa, compiuto agli inizi del 1964, è un gesto che da una parte diventa comprensibile alla luce degli stessi pronunciamenti conciliari che richiamavano la Chiesa a ritornare alle radici della propria fede; dall’altro indica il senso della grande assise conciliare, quello di maturare in una accresciuta fedeltà a Colui che è lumen gentium. Lo stesso vale per l’iniziativa di Giovanni Paolo ii, denominata lo “spirito di Assisi”, che vede la luce il 27 ottobre 1986.
Quella giornata è stata caratterizzata da gesti significativi, che hanno lasciato un segno almeno quanto i discorsi ufficiali. Un appuntamento che ha avuto una posterità non solo nel ritorno ad Assisi dello stesso Pontefice il 10 gennaio 1993 e il 24 gennaio 2002, ma anche in numerosi incontri come il Meeting internazionale Uomini e Religioni, organizzato annualmente dalla Comunità di Sant’Egidio in Roma.
Gesti e simboli che, proprio a causa della loro ricchezza di contenuti possono essere travisati, o addirittura strumentalizzati o demonizzati, e chiedono quindi di essere compresi rettamente alla luce delle parole che li hanno accompagnati.
Partiamo da un dato cronologico: il luogo, il giorno e la circostanza dell’annuncio della giornata di preghiera per la pace con tutte le religioni del mondo, sono già di per sé elementi molto significativi: a Roma nella Basilica di San Paolo, il 25 gennaio – ossia nella festa liturgica della conversione di san Paolo, apostolo delle genti – a conclusione dell’ottavario di preghiera per l’unità dei cristiani. Stesso luogo, giorno e circostanza in cui papa Giovanni xxiii annunciò la convocazione del Concilio Vaticano ii, come ha ricordato lo stesso Giovanni Paolo II. È dunque evidente che il contesto in cui si deve leggere, comprendere e vivere lo “spirito di Assisi” è quello dei pronunciamenti conciliari nella loro integralità, dalle costituzioni dogmatiche sulla rivelazione e la Chiesa, fino ai documenti riguardanti l’ecumenismo, le religioni, la libertà religiosa.
Tale legame indissolubile con il Concilio è stato espresso anche da una scelta legata ad un mezzo di trasporto: il 24 gennaio 2002, tornando nuovamente ad Assisi per una giornata interreligiosa di preghiera per la pace, Giovanni Paolo ii volle servirsi del treno; proprio come fece Giovanni xxiii il 4 ottobre 1962, quando si recò pellegrino sulla tomba di san Francesco a pregare per il buon esito del Concilio Vaticano ii che sarebbe iniziato dopo pochi giorni.
Un altro gesto dalla forte valenza simbolica, che ha caratterizzato la data del 27 ottobre 1986, è stato l’ampio spazio dato alla contemplazione: Giovanni Paolo II ha voluto iniziare la sua giornata a Perugia, presso la cappella della “Casa Sacro Cuore”, con una celebrazione eucaristica a cui hanno partecipato le claustrali della diocesi. Similmente il 24 gennaio 2002 concluderà la giornata con la visita alle clarisse del Protomonastero di santa Chiara in Assisi. Due incontri di preghiera con le claustrali non possono essere una scelta casuale; rappresentano piuttosto una sorte di inclusione che ha racchiuso la ricchezza di quelle giornate espressione dello “spirito di Assisi”. E ciò non deve meravigliare visto che l’intenzione del Pontefice era quella – come ha sottolineato lui stesso fin dal giorno dell’indizione – di «contribuire a suscitare un movimento mondiale di preghiera per la pace».
Altro gesto molto importante, da non trascurare neppure da un punto di vista teologico, è che mai durante quella giornata i rappresentanti delle diverse confessioni hanno pregato nello stesso luogo. Quello che non è stato sottolineato a sufficienza è che i diversi gruppi hanno pregato secondo le proprie modalità, separandosi gli uni dagli altri in spazi a loro riservati. Infatti, quando nella piazza della Basilica di San Francesco, in Assisi, sono state innalzate varie invocazioni per ottenere da Dio il dono della pace, ogni gruppo religioso lo ha fatto per conto proprio, distanziandosi anche fisicamente dagli altri; compresi i cristiani che si sono raccolti tra loro per pronunciare la parole del Padre nostro.
Una scelta che ha espresso in modo chiaro un fatto significativo: ad Assisi i rappresentanti delle diverse religioni, come ha continuamente rimarcato Giovanni Paolo II, si sono ritrovati insieme per pregare e non per pregare insieme. Infatti, secondo l’assioma teologico lex credendi, lex orandi, lex vivendi (ossia che la preghiera esprime la fede e la vita), è possibile pregare in comunione soltanto se tra i partecipanti esiste la possibilità di condividere la stessa fede. Una conferma di questo atteggiamento ci viene dallo stesso papa Wojtyla che ha compiuto frequenti visite di cortesia a numerose assemblee non cristiane (basti pensare all’incontro nella sinagoga di Roma o a quello in una moschea in Siria), senza però mai pregare assieme ai fedeli di quelle comunità.
In quel lontano 27 ottobre 1986 si realizzò anche un segno “non voluto da mano di uomo”, ma dallo stesso Signore del cielo, ovvero uno splendido arcobaleno che, con grande meraviglia dei presenti, apparve nel cielo di Assisi e venne ad allontanare le nuvole che offuscavano quella fredda giornata. Tutti sappiamo che tale fenomeno meteorologico – secondo l’interpretazione che ne dà il libro biblico della Genesi – è il segno dell’alleanza di pace che Dio volle costruire con gli uomini al termine del diluvio. Non solo: è il segno dell’alleanza con Noè, di quella del Sinai stretta con il popolo d’Israele e soprattutto di quella nuova instaurata da Gesù con la sua croce. È il segno dell’amicizia di Dio con tutti gli uomini, nessuno escluso; della chiamata universale alla salvezza.
In quel giorno ci furono altri segni e altri gesti importanti, ma che vanno sempre compresi alla luce delle parole pronunciate in quell’occasione. Per non rischiare che lo “Spirito di Assisi” diventi semplicemente un evento segnato dal “sincretismo religioso”, dimentico della ricerca della verità, come continuamente richiama Benedetto xvi[2].
[Da Pietro Messa, Giovanni Paolo II e lo spirito di Assisi. La profezia della pace tra identità e dialogo (Venti per venti, 1), Edizioni Porziuncola, Assisi]
1) Dei Verbum. Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione, 2 in Enchiridio Vaticanum 1. Documenti ufficiali del Concilio Vaticano II 1962-1965, Edizioni Dehoniane, Bologna 1979, 491.
2
) L’importanza del “senso religioso”, inteso come ricerca della verità, per una retta comprensione dello “spirito di Assisi” è stata evidenziata pochi giorni dopo il 27 ottobre 1986 da Hans Urs von Balthasar. Al riguardo cfr. P. Messa, Hans Urs von althasar e lo “spirito di Assisi” in Communio. Rivista Internazionale di Teologia e Cultura 203-204 (settembre-dicembre 2005; stampato nel 2006), p. 207-219.
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*Padre Pietro Messa è Preside della Scuola Superiore di Studi Medievali e Francescani della Pontificia Università Antonianum di Roma.