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La Redazione

Libertà e responsabilità: l’autentica vocazione dell’attività economica

di Stefano Fontana*

ROMA, venerdì, 24 dicembre 2010 (ZENIT.org).- L’enciclica Caritas in veritate (CV) di Benedetto XVI è molto più di un’enciclica sulla attuale crisi economica. E’ molto di più di un’enciclica sull’economia ed è addirittura molto di più di un’enciclica sullo sviluppo. Essa concerne il reciproco guardarsi della Chiesa e del mondo, della fede e della ragione, della sopranatura e della natura. In questo senso essa è un’enciclica sul “posto di Dio nel mondo” e ci dice non solo che la questione sociale è diventata ormai questione antropologica, ma che essa è, nelle sue radici, questione teologica[1]. Ciò tuttavia l’enciclica parla anche di economia, e a lungo. Quindi anch’io partirò dall’economia, per risalire però poi all’altra questione, più importante e fondativa, quella della questione sociale come questione teologica.

Una delle affermazioni principali dell’enciclica è quando Benedetto XVI dice che il dono e la gratuità devono entrare a far parte dell’attività economica fin dall’inizio[2]. Non si sottovaluti la grande novità di questa affermazione, anche rispetto al precedente magistero sociale. Il donare solitamente viene inteso come successivo al produrre. Si dona quanto si è prodotto. L’ambito del gratuito, della reciprocità, della fraternità sarebbe così un ambito che si aggiunge a quello economico della produzione di ricchezza. Secondo questo schema, quindi, l’economia sarebbe pienamente se stessa affidandosi a proprie logiche diverse da quella del dono. Poi, una volta dispiegatasi e raggiunti i suoi fini naturali, essa lascerebbe posto al dono. Questo schema interpretativo non tiene. E a dire che non tiene è prima di tutto l’economia.

Non è vero che si possa produrre senza presupporre una dimensione di gratuità. Non è vero, in altri termini, che il dono si collochi “dopo”[3]. Senza una quantità di beni immateriali non a carattere economico ma gratuito l’economia non funziona. Quand’anche il dono dovesse subentrare dopo che la produzione economica avesse trovato compimento, esso non sarebbe da essa riconosciuto, in quanto non economico. Il dono, allora, dovrebbe prescindere dalla razionalità economica, come la razionalità economica aveva precedentemente prescisso dal dono. Ma un dono che non tenesse in conto la razionalità economica non sarebbe nemmeno più tale, sarebbe come la carità senza la verità, dato che anche quella economica è una forma di intelligenza umana[4]. Come non è possibile una economia senza dono, così non è possibile il dono senza l’economia. E’ evidente quindi la complementarietà tra economia e dono, mentre rimane aperto, per il momento, se uno dei due abbia la priorità sull’altro, pur nella loro indiscutibile circolarità. Affronteremo questo tema tra poco.

Cerchiamo ora di capire più in profondità cosa significhi che l’economia ha bisogno del dono. Una cosa è certa: il dono non può essere prodotto, ma solo offerto e accolto. Offerto e accolto, appunto, in dono. Il dono e la gratuità rivelano così l’indisponibile, ossia un senso non prodotto ma ricevuto. Si pensa di solito che l’economia abbia solo a che fare con il disponibile, anzi essa sarebbe proprio la scienza che rende disponibili le risorse e i beni.

Eppure essa non funziona se non in virtù di qualcosa – il dono – che è indisponibile e quindi pre-economico, o meta-economico. Ciò significa che l’economia non è in grado di costituire autonomamente se stessa[5]. Essa ha bisogno di “qualcos’altro” che sfugge alle sue capacità produttive, in quanto è appunto indisponibile. Vorrei che si ponesse attenzione ad un aspetto. Non è che l’economia abbia bisogno di questo “qualcos’altro” per essere indirizzata “poi” in senso altruistico o solidale.

Essa ne ha bisogno per costituirsi come tale, o meglio, per prendere coscienza di sé sul suo proprio terreno. Nessuna realtà assume pienamente coscienza di sé a partire da se stessa. Nessun livello di realtà è fonte della propria verità. Niente si dà da sé il proprio nome. Ogni cosa ha bisogno di altro che la precede, la fonda e ne risveglia la capacità di senso. Infatti, il senso prodotto da noi non soddisfa, solo un senso non prodotto, ricevuto in dono, assume un vero soddisfacente significato e alla risposta al suo interpellarci ci costituiamo in identità[6].

Non chiedete agli economisti cos’è l’economia. Essi vi risponderebbero che l’economia è quello che gli economisti chiamano economia, il che non è propriamente una risposta. Per sapere chi si è bisogna distogliere lo sguardo da sé, e indirizzarlo non al guardare ma all’essere guardati. Così è anche per l’economia che ha bisogno di presupposti di senso che essa non sa produrre né sostituire quando dovessero venir meno nella coscienza comune.

Possiamo forse ora affrontare il tema che prima ho volutamente lasciato in disparte. Stante questa circolarità tra economia e dono, possiamo però stabilire una priorità dell’una sull’altro o viceversa? Il dono rivela l’indisponibile e come tale dovrebbe avere una priorità. Il senso, infatti, non è mai prodotto e un senso prodotto non ci soddisfa.

Però questo dono – come dice la CV – deve essere già presente nell’economia fin dall’inizio e non aggiungersi dopo. Esso non è prodotto dall’economia stessa e quindi deve venirle incontro, ma allora come fa ad esserci fin dall’inizio? Non si tratta di un bizantinismo. Se il dono si aggiunge “dopo” rimarrà sempre estrinseco all’economica; per essere riconosciuto e fatto proprio esso deve esserci già fin dall’inizio. Credo che sia possibile risolvere filosoficamente questo interessantissimo problema in questo modo: la dimensione del dono rappresenta la “vocazione” dell’economia, presente fin dall’inizio nell’economia stessa come “attesa”.

La dimensione del dono e della relazione di gratuita fraternità tra gli uomini dà senso all’economia, le indica la sua vocazione, le dice cos’è e a cosa deve tendere. Tutte cose che l’economia non sa darsi da sé. Questa parola, però, non potrebbe nemmeno essere compresa dall’economia se essa già non la attendesse. Capita così che la dimensione fraterna del dono induca l’economia a guardare dentro se stessa, a fare la propria anamnesi, a scoprire più in profondità la propria identità. La luce della vocazione non verrebbe nemmeno vista se essa non fosse già in qualche modo attesa, e l’attesa viene rischiarata nella propria realtà dalla scoperta della vocazione. Ciò che non dipende da noi e che ci è gratuitamente donato non si aggiunge quindi “dopo” quanto produciamo noi, ma ci interpella rendendoci maggiormente consapevoli di quello che possiamo e sappiamo fare.

Propongo allora di intendere così il rapporto tra economia e dono – una volta si diceva tra economia ed etica ma ormai questo termine è diventato ambiguo, come osserva la stessa CV – : il dono rappresenta la vocazione dell’economia in quanto le fa capire di non essere fine a se stessa ma di essere chiamata a sostenere la fraternità umana – una volta si diceva solidarietà, ma anche questo termini è diventato ambiguo e bene ha fatto la CV ad adoperare la parola fraternità. La logica del dono, come quella di ogni vocazione, non interviene in un secondo momento, alla fine del processo, quando l’economia ha fatto il proprio corso.

In questo caso essa sarebbe estrinseca all’economia e superflua, una appiccicaticcia etichetta moralistica. La vocazione è già presente nell’economia, già la anima nella forma dell’attesa. Si badi bene che questa dinamica circolare di vocazione e attesa ha senso se collocata nel suo luogo proprio, cioè nella persona umana. Non c’è l’economia, non c’è il dono, c’è la persona umana che è nello stesso tempo agire economico ed agire oblativo. Non dobbiamo cadere nelle astrazioni, né moltiplicare g
li enti senza necessità.

La persona vivente è la sintesi, in essa si incontrano la razionalità economica e il dono. E’ qui, nella persona, che il dono funge da vocazione per la razionalità economica, invitando quest’ultima, che lo attendeva, a prendere maggiormente coscienza di sé. E’ la persona, non l’economia, ad avere bisogno di senso senza saperselo dare pienamente da sola. E’ la persona a fare l’esperienza del dono nella sua vita e di come questo dono non soffochi la propria umanità ma la inviti a scendere più in profondità dentro di sé.

Ci sono due esperienze umane che più di ogni altra portano con sé le caratteristiche di un senso in dono, ossia di una vocazione. Si tratta, per dirla con la CV, della verità e dell’amore. Tutti gli uomini ne fanno esperienza[7], tutti fanno la «stupefacente esperienza del dono»[8] e in quello stesso mentre vengono costituiti nella loro specifica verità e dignità. Nessuno, come si diceva, si dà la propria verità, nessuno, per dirla con un Ratzinger di annata 1969, si toglie fuori da solo dalle proprie incertezze[9]. La mia dignità risulta chiara a me stesso quando sono fatto oggetto di amore e quando scopro la verità, che è sempre più di quanto non ci aspettasimo. Amore e verità ci liberano così dai nostri determinismi e ci rendono maturi e liberi. L’amore e la verità sono la vocazione dell’intera realtà. Esse sono però già presenti nella realtà nella forma dell’attesa, altrimenti non sarebbero nemmeno riconosciute al loro passare. Più che conosciuti, amore e verità sono riconosciuti.

Siamo così ritornati al principio della CV, al titolo stesso dell’enciclica. Dicevo prima che essa è più di un’enciclica sull’economia e più di un’enciclica sullo sviluppo. Essa riguarda l’interfacciarsi della Chiesa e del mondo, della fede e della ragione, della sopranatura e della natura. Ci invita a domandarci se, secondo noi, il mondo, la ragione, la natura hanno in se stessi le capacità per capire fino in fondo cosa sono.

Oppure, se non siano capaci di darsi un senso, perché il senso non può mai essere prodotto ma solo ricevuto in dono. La risposta della CV è la risposta eterna del Vangelo. Solo il Dio che è Amore e Verità può essere vocazione, ossia un senso in dono. Vocazione che però ha la pretesa di corrispondere ad una nostra profonda attesa[10]. Vorrei esprimere questo concetto con le parole di Henri de Lubac: «Rivelando il Padre ed essendo rivelato da lui, Cristo finisce di rivelare l’uomo a se stesso.

Prendendo possesso dell’uomo, afferrandolo e penetrando fino al fondo del suo essere, forza anche lui a scendere dentro di sé per scoprirvi bruscamente regioni fino ad allora insospettate. Per mezzo di Cristo la persona è adulta, l’uomo emerge definitivamente dall’universo, prende piena coscienza di sé»[11]. Dentro in questo uomo che prende coscienza di sé mediante l’incontro con Cristo c’è anche la razionalità economica, la quale quindi è chiamata a scendere dentro di sé per scoprirvi regini fino ad allora insospettate. E’ così che essa capisce cosa veramente sia e a cosa serva.