Predicatore del Papa: “La risposta cristiana al razionalismo”

Terza meditazione di padre Cantalamessa davanti al Papa e alla Curia Romana

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CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 17 dicembre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la terza Predica d’Avvento pronunciata questo venerdì da padre Raniero Cantalamessa OFM Cap, predicatore della Casa Pontificia, davanti a Benedetto XVI e alla Curia Romana per offrire “La risposta cristiana al razionalismo”.

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“PRONTI A RENDERE RAGIONE DELLA SPERANZA CHE È IN NOI”

(1 Pietro 3,15)

La risposta cristiana al razionalismo

1. La ragione usurpatrice

Il terzo ostacolo, che rende tanta parte della cultura moderna “refrattaria” al Vangelo, è il razionalismo. Di esso intendiamo occuparci in questa ultima meditazione di Avvento.

Il cardinale, e ora beato, John Henry Newman ci ha lasciato un memorabile discorso, pronunciato l’11 Dicembre del 1831, all’Università di Oxford, intitolato “The Usurpation of Raison”, l’usurpazione, o  la prevaricazione, della ragione. In questo titolo c’è già la definizione  di ciò che intendiamo per razionalismo[1]. In una nota di commento a questo discorso, scritta nella prefazione alla sua terza edizione nel 1871, l’autore spiega cosa intende con tale espressione. Per usurpazione della ragione –dice- si intende “quel certo diffuso abuso di tale facoltà che si verifica ogni qual volta ci si occupa di religione senza una adeguata conoscenza intima, o senza il dovuto rispetto per i primi principi ad essa propri. Questa pretesa ‘ragione’ è chiamata dalla Scrittura ‘la sapienza del mondo’; è il ragionare di religione di chi ha la mentalità secolaristica, e si basa su massime mondane, che le sono intrinsecamente estranee” [2].

In un altro dei suoi Sermoni universitari, intitolato “Fede e ragione a confronto”, Newman illustra perché la ragione non può essere l’ultimo giudice in fatto di religione e di fede, con l’analogia della coscienza.

“Nessuno, scrive,  dirà che la coscienza si oppone alla ragione, o che i suoi dettami non possono essere posti in forma argomentativa; tuttavia chi, da ciò, vorrà arguire che la coscienza non è un principio originale, ma che per agire ha bisogno di attendere i risultati di un processo logico-razionale? La ragione analizza i fondamenti e i motivi dell’azione, senza essere essa stessa uno di questi motivi. Come dunque la coscienza è un elemento semplice della nostra natura, e tuttavia le sue operazioni ammettono di essere giustificati dalla ragione, altrettanto la fede può essere conoscibile e i suoi atti possono essere giustificati dalla ragione, senza con questo dipenderne realmente […].Quando si dice che il vangelo esige una fede razionale, si vuole soltanto dire che la fede concorda con la retta ragione in astratto, ma non che ne sia in realtà il risultato”[3].

Una seconda analogia è quella dell’arte.  “Il critico d’arte –scrive –  valuta ciò che egli stesso non sa creare; altrettanto la ragione può dare la sua approvazione all’atto di fede, senza per questo essere la fonte da cui la fede promana”[4].

L’analisi di Newman ha dei tratti nuovi e originali; mette in luce la tendenza, per così dire imperialista, della ragione a sottomettere ogni aspetto della realtà ai propri principi. Si può però considerare il razionalismo anche da un altro punto di vista, strettamente collegato con il precedente. Per rimanere nella metafora politica impiegata da Newman, potremmo definirlo l’atteggiamento di isolazionismo, di chiusura in se stessa della ragione. Esso non consiste tanto nell’invadere il campo altrui, quanto nel non riconoscere l’esistenza di altro campo fuori del proprio. In altre parole, nel rifiuto che possa esistere alcuna verità al di fuori di quella che passa attraverso la ragione umana.

In questa veste, il razionalismo non è nato con l’illuminismo, anche se esso gli ha impresso una accelerazione i cui effetti perdurano ancora. È  una tendenza contro la quale la fede  ha dovuto fare i conti da sempre. Non solo la fede cristiana, ma anche quella ebraica e islamica, almeno nel medioevo, ha conosciuto questa sfida.

Contro tale pretesa di assolutismo della ragione, si è levata in ogni epoca la voce non solo di uomini di fede, ma anche di uomini militanti nel campo della ragione, filosofi e scienziati. “L’atto supremo della ragione, ha scritto Pascal, sta nel riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sorpassano”[5]. Nell’istante stesso che la ragione riconosce il suo limite, lo infrange e lo supera. È ad opera della ragione che si produce questo riconoscimento, che  è, perciò,  un atto squisitamente razionale. Essa è, alla lettera, una “dotta ignoranza” [6]. Un ignorare “a ragion veduta”, sapendo di ignorare.

Si deve dunque dire che pone un limite alla ragione e la umilia colui che non le riconosce questa capacità di trascendersi. “Finora -ha scritto Kierkegaard- si è sempre parlato così: ‘Il dire che non si può capire questa o quella cosa, non soddisfa la scienza che vuol capire’. Ecco lo sbaglio. Si deve dire proprio il contrario: qualora la scienza umana non voglia riconoscere che vi è qualcosa  che essa non può capire, o -in modo ancor più preciso- qualcosa di cui essa con chiarezza può ‘capire che non può capire’, allora tutto è sconvolto. È pertanto un compito della conoscenza umana capire che vi sono e quali sono le cose che essa non può capire”[7].

2. Fede e senso del Sacro

È da attendersi che questo tipo di contestazione reciproca tra fede e ragione continui anche in futuro. È inevitabile che ogni epoca rifaccia il cammino per conto proprio, ma né i razionalisti convertiranno con i loro argomenti i credenti, né i credenti i razionalisti. Bisogna trovare una via per rompere questo circolo e liberare la fede da questa strettoia. In tutto questo dibattito su ragione e fede, è la ragione che impone la sua scelta e costringe la fede, per così dire, a giocare fuori casa e sulla difensiva.

Ne aveva ben coscienza il cardinal Newman che in un altro dei suoi discorsi universitari mette in guardia dal rischio di una mondanizzazione della fede nel suo desiderio di correre dietro la ragione. Egli dice di capire, anche se non può accettarle fino in fondo, le ragioni di coloro che sono tentati di sganciare completamente la fede dall’indagine razionale, a causa “degli antagonismi e le divisioni fomentati dall’argomentare e dibattere, l’orgogliosa confidenza che spesso accompagna lo studio delle prove apologetiche, la freddezza, il formalismo, lo spirito secolaristico e carnale, mentre la Scrittura parla della religione come di una vita divina, radicata negli affetti e manifestantesi in grazie spirituali”[8].

In tutti gli interventi di Newman sul rapporto tra ragione e fede, allora non meno dibattuto di oggi, si avverte un ammonimento: non si può combattere il razionalismo con un altro razionalismo, magari di segno contrario. Bisogna dunque trovare un’altra strada che non pretenda di sostituire quella della difesa razionale della fede, ma almeno che l’affianchi, anche perché i destinatari dell’annuncio cristiano non sono solo degli intellettuali, capaci di impegnarsi in questo tipo di confronto, ma anche la massa delle persone comuni indifferenti ad esso e più sensibili ad altri argomenti.

Pascal proponeva la strada del cuore: “Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce”[9]; i romantici (per esempio Schleiermacher) proponevano quella del sentimento. Ci resta, penso, una via da battere: quella dell’esperienza e della testimonianza. Non intendo qui parlare dell’esperienza personale, soggettiva, della fede, ma di una esperienza  universale e oggettiva che possiamo perciò far valere anche nei confronti di persone ancora estranee alla fede. Essa non ci porta fino alla fede piena e che salva: la fede in Gesù Cristo morto e risorto, ma ci può aiutare a crearne il presupposto che è l’apertura al mistero, la percezione di qualcosa che è al di sopra del mondo e della ragione.

Il contributo più no
tevole che la moderna fenomenologia della religione ha dato alla fede, soprattutto nella forma che essa riveste nell’opera classica di Rudolph Otto “Il sacro”[10], è di aver mostrato che l’affermazione tradizionale che c’è qualcosa che non si spiega con la ragione, non è un postulato teorico o di fede, ma un dato primordiale di esperienza.

Esiste un sentimento che accompagna l’umanità fin dai suoi primordi ed è presente in tutte le religioni e le culture: L’autore lo chiama il sentimento del numinoso. Esso è un dato primario, irriducibile a ogni altro sentimento o esperienza umana; coglie l’uomo con un brivido quando, per qualche circostanza esterna o interna a lui,  si trova davanti alla rivelazione del mistero “tremendo e affascinante” del soprannaturale.

Otto designa l’oggetto di questa esperienza  con l’aggettivo “irrazionale” (il sottotitolo dell’opera è “L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale”); ma tutta l’opera dimostra che il senso che egli da al termine “irrazionale” non è quello di “contrario alla ragione”, ma quello di “fuori della ragione”, di non traducibile in termini razionali. Il numinoso si manifesta in gradi diversi di purezza: dallo stadio più grezzo che è la reazione inquietante suscitata dalle storie di spiriti e di spettri, allo stadio più puro che è la manifestazione della santità di Dio – il Qadosh biblico -, come nella celebre scena della vocazione di Isaia (Is 6, 1 ss).

Se è così, la rievangelizzazione del mondo secolarizzato passa anche attraverso un recupero del senso del sacro. Il terreno di cultura del razionalismo –sua causa ed insieme suo effetto – è la perdita del senso del sacro, è necessario perciò che la Chiesa aiuti gli uomini a rimontare la china e riscoprire la presenza e la bellezza del sacro nel mondo.  Charles Péguy ha detto che  “la spaventosa penuria del Sacro è il marchio profondo del mondo moderno”. Lo si nota in ogni aspetto della vita, ma in particolare nell’arte, nella letteratura e nel linguaggio di tutti i giorni. Per molti autori, essere definiti “dissacranti” non è più un’offesa, ma un complimento.

La Bibbia viene accusata a volte di aver “desacralizzato” il mondo per aver scacciato ninfe e divinità dai monti, dai mari e dai boschi, e aver fatto di essi semplici creature a servizio dell’uomo. Questo è vero, ma è proprio spogliandole di questa falsa pretesa di essere essi stessi delle divinità, che la Scrittura  le ha restituite alla loro genuina natura di “segno” del divino. È l’idolatria delle creature che la Bibbia combatte, non la loro sacralità.

Così “secolarizzato”, il creato ha ancora più potere di provocare l’esperienza del numinoso e del divino. Di una esperienza del genere reca il segno, a mio parere, la celebre dichiarazione di Kant, il rappresentante più illustre del razionalismo filosofico:

Due cose riempiono l’animo mio di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. […]. La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo a una grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi ancora ai tempi illimitati del loro movimento periodico, del loro principio e della loro durata”[11].

Uno scienziato vivente, Francis Collins, da poco nominato accademico pontificio, nel suo libro “Il Linguaggio di Dio”, descrive così il momento del suo ritorno alla fede: “In un bel mattino di autunno, mentre per la prima volta, passeggiando sulle montagne, mi spingevo all’ovest del Mississippi, la maestà e bellezza della creazione vinsero la mia resistenza. Capii che la ricerca era arrivata al termine. Il mattino seguente, al sorgere del sole, mi inginocchiai sull’erba bagnata e mi arresi a Gesù Cristo” [12].

Le stesse scoperte meravigliose della scienza e della tecnica, anziché portare al disincanto, possono diventare occasioni di stupore e di esperienza del divino. Il momento finale della scoperta del genoma umano viene descritto dallo stesso Francis Collins che fu a capo dell’equipe governativa che portò a tale scoperta, “una esperienza di esaltazione scientifica e al tempo stesso di adorazione religiosa”. Tra le meraviglie del creato, nulla è più meraviglioso dell’uomo e, nell’uomo, della sua intelligenza creata da Dio.

La scienza dispera ormai di toccare un limite estremo nell’esplorazione dell’infinitamente grande che è l’universo e nell’esplorazione dell’infinitamente piccolo che sono le particelle sub-atomiche. Alcuni fanno di queste “sproporzioni” un argomento a favore dell’inesistenza di un Creatore  e dell’insignificanza dell’uomo. Per il credente esse sono il segno per eccellenza, non solo dell’esistenza, ma anche degli attributi di Dio: la vastità dell’universo, è segno della sua infinita grandezza e trascendenza, la piccolezza dell’atomo, della sua immanenza e dell’umiltà della sua incarnazione che lo ha portato a farsi bambino nel seno di una madre e minuscolo pezzo di pane nelle mani del sacerdote.

Anche nella vita umana quotidiana non mancano occasioni in cui è possibile fare l’esperienza di un’”altra” dimensione: l’innamoramento, la nascita del primo figlio, una grande gioia. Bisogna aiutare le persone ad aprire gli occhi e a ritrovare la capacità di stupirsi. “Chi si stupisce, regnerà”, dice un detto attribuito a Gesù fuori dei vangeli[13].  Nel romanzo “I fratelli Karamazov”, Dostoevskij riferisce le parole che lo starez Zosima, ancora ufficiale dell’esercito, rivolge ai presenti, nel momento in cui, folgorato dalla grazia, rinuncia a battersi in duello con l’avversario: “Signori, girate intorno lo sguardo ai doni di Dio: questo cielo limpido, quest’aria pura, quest’erba tenera, questi uccellini: la natura è così bella e innocente, mentre noi, noi soli, siamo lontani da Dio e siamo stupidi e non comprendiamo che la vita è un paradiso, giacché basterebbe che lo volessimo comprendere, e subito quello s’instaurerebbe in tutta la sua bellezza, e noi ci abbracceremmo e romperemmo in lacrime”[14]. Questo è genuino senso della sacralità del mondo e della vita!

3. Bisogno di testimoni

Quando l’esperienza del sacro e del divino che ci giunge improvvisa e inattesa da fuori di noi, è accolta e coltivata, diventa esperienza soggettiva vissuta. Si hanno così i “testimoni” di Dio che sono i santi e, in modo tutto particolare, una categoria di essi, i mistici.

I mistici, dice una celebre definizione di Dionigi Areopagita, sono coloro che hanno “patito Dio” [15], cioè che hanno sperimentato e vissuto il divino. Sono, per il resto dell’umanità, come gli esploratori che entrarono per primi, di nascosto, nella Terra Promessa e poi tornarono  indietro per riferire ciò che avevano veduto – “una terra dove scorre latte e miele” -, esortando tutto il popolo ad attraversare il Giordano (cf Num 14,6-9). Per mezzo di essi giungono a noi, in questa vita, i primi bagliori della vita eterna.

Quando si leggono i loro scritti, come appaiono lontane e perfino ingenue le più sottili argomentazioni degli atei e dei razionalisti! Nasce, nei confronti di questi ultimi, un senso di stupore e anche di pena, come davanti a qualcuno che parla di cose che manifestamente non conosce. Come chi credesse di scoprire continui errori di grammatica in un interlocutore,  e non si accorgesse che questi sta semplicemente parlando un’altra lingua che lui non conosce. Ma non si ha nessuna voglia di mettersi a confutarli, tanto le stesse parole dette in difesa di Dio appaiono, in quel momento, vuote e fuori luogo.

I mistici sono, per eccellenza, coloro che hanno scoperto che Dio “esiste”; anzi, che egli solo esiste davvero e che è infinitamente più reale di ciò che di solito chiamiamo realtà. Fu precisamente da uno di qu
esti incontri che una discepola del filosofo  Husserl, ebrea e atea convinta, una notte scoprì il Dio vivente. Parlo di Edith Stein, ora Santa Teresa Benedetta della Croce. Era ospite di amici cristiani e una sera che questi si erano dovuti assentare, rimasta sola in casa e non sapendo cosa fare, prese un libro dalla loro biblioteca e si mise a leggerlo. Era l’autobiografia di santa Tersa d’Avila. Andò avanti a leggere tutta la notte. Giunta alla fine, esclamò semplicemente: “Questa è la verità!”. Di buon mattino andò in città a comprare un catechismo cattolico e un messalino e, dopo averli studiati, si recò a una vicina chiesa e domandò al sacerdote di essere battezzata.

Ho fatto anch’io una piccola esperienza del potere che hanno i mistici di far toccare con mano il soprannaturale.  Era l’anno in cui si discuteva molto sul libro di un teologo intitolato “Esiste Dio?” (“Existiert Gott?”) ma, giunti alla fine della lettura, ben pochi erano pronti a cambiare il punto interrogativo del titolo in un punto esclamativo. Andando a un congresso mi portai dietro il libro degli scritti della Beata Angela da Foligno che non conoscevo ancora. Ne rimasi letteralmente abbagliato;  lo portavo con me alle conferenze, lo riaprivo a ogni intervallo, e alla fine lo richiusi dicendo a me stesso: “Se Dio esiste? Non solo esiste, ma è davvero fuoco divorante!”

Purtroppo una certa moda letteraria è riuscita a neutralizzare anche la “prova” vivente dell’esistenza di Dio che sono i mistici. Lo ha fatto con un metodo singolarissimo: non riducendo il loro numero, ma aumentandolo, non restringendo il fenomeno, ma dilatandolo a dismisura. Mi riferisco a coloro che in una rassegna dei mistici, in antologie dei loro scritti, o in una storia della mistica, mettono uno accanto all’altro, come appartenenti allo stesso genere di fenomeni, san Giovanni della Croce e Nostradamus, santi ed eccentrici, mistica cristiana e cabala medievale, ermetismo, teosofismo, forme di panteismo e perfino l’alchimia. I mistici veri sono un’altra cosa e la Chiesa ha ragione di essere così rigorosa nel suo giudizio su di loro.

Il teologo Karl Rahner, riprendendo, pare, una frase di Raimondo Pannikar, ha affermato: “Il cristiano di domani, o sarà un mistico, o non sarà”. Intendeva dire che, in futuro, a tener viva la fede sarà la testimonianza di persone che hanno una profonda esperienza di Dio, più che la dimostrazione della sua plausibilità razionale. Paolo VI diceva, in fondo, la stessa cosa quando affermava, nell’Evangelii nuntiandi (nr.41): “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni”.

Quando l’apostolo Pietro raccomandava ai cristiani di essere pronti a”dar ragione della loro speranza” (1 Pt 3,15), è certo, dal contesto, che anche lui non intendeva parlare di ragioni speculative o dialettiche, ma delle ragioni pratiche, cioè la loro esperienza di Cristo, unita alla testimonianza apostolica che la garantiva. In un commento a questo testo, il cardinal Newman, parla di “ragioni implicite”, che sono, per il credente, più intimamente persuasive che non le ragioni esplicite e argomentative[16].

4. Un soprassalto di fede a Natale

Arriviamo così alla conclusione pratica che più ci interessa in una meditazione come questa. Di irruzioni improvvise del soprannaturale nella vita, non hanno bisogno soltanto i non credenti e i razionalisti per venire alla fede; ne abbiamo bisogno anche noi credenti per ravvivare la nostra fede. Il pericolo maggiore che corrono le persone religiose è di ridurre la fede a una sequenza di riti e di formule, ripetute magari anche con scrupolo, ma meccanicamente e senza intima partecipazione di tutto l’essere. “Questo popolo si avvicina a me solo con la bocca  – si lamenta Dio in Isaia – e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me e la venerazione che ha verso di me è un imparaticcio di precetti umani” (Is 29, 13).

Il Natale può essere un’occasione privilegiata per avere questo soprassalto di fede. Esso è la suprema “teofania” di Dio, la più alta “manifestazione del Sacro”. Purtroppo il fenomeno del secolarismo sta spogliando questa festa del suo carattere di “mistero tremendo” – cioè che induce al santo timore e all’adorazione -, per ridurlo al solo aspetto di “mistero affascinante”. Affascinante, quel che è peggio, in senso solo naturale, non soprannaturale: una festa dei valori familiari, dell’inverno, dell’albero, delle renne e di Babbo Natale. È in atto in qualche paese il tentativo di cambiare anche il nome di Natale in quello di “festa della luce”. In pochi casi la secolarizzazione è così visibile come a Natale.

Per me, il carattere “numinoso” del Natale è legato a un ricordo. Assistevo un anno alla Messa di Mezzanotte presieduta da Giovanni Paolo II in San Pietro. Arrivò il momento del canto della Kalenda, cioè la solenne proclamazione della nascita del Salvatore, presente nell’antico Martirologio e reintrodotta nella liturgia natalizia dopo il Vaticano II:

“Molti secoli dalla creazione del mondo…

Tredici secoli dopo l’uscita dall’Egitto…

Nella centonovantacinquesima Olimpiade,

Nell’anno 752 dalla fondazione di Roma…

Nel  quarantaduesimo anno dell’impero di Cesare Augusto,

Gesù Cristo, Dio eterno e Figlio dell’eterno Padre, essendo stato concepito per opera dello Spirito Santo, trascorsi nove mesi, nasce a Betlemme di Giudea dalla Vergine Maria, fatto uomo”.

Giunti a queste ultime parole provai quella che viene chiamata “l’unzione della fede”: una improvvisa chiarezza interiore, per cui ricordo che dicevo tra me: “È vero! È tutto vero questo che si canta! Non sono soltanto parole. L’eterno entra nel tempo. L’ultimo avvenimento della serie ha rotto la serie; ha creato un “prima” e un “dopo” irreversibili; il computo del tempo che prima avveniva in relazione a diversi avvenimenti (olimpiade tale, regno del tale), ora avviene in relazione a un unico avvenimento”. Una commozione improvvisa mi attraversò tutta la persona, mentre potevo solo dire: “Grazie, Santissima Trinità, e grazie anche a te, Santa Madre di Dio!”.

Aiuta molto a fare del Natale l’occasione per un soprassalto di fede trovare spazi di silenzio. La liturgia avvolge la nascita di Gesù nel silenzio: “Dum medium silentium tenerent omnia”, mentre tutto intorno era silenzio. “Stille Nacht”, notte di silenzio, viene chiamato il Natale nel più diffuso e caro dei canti natalizi. A Natale dovremmo sentire come rivolto personalmente a noi l’invito del Salmo: “Fermatevi e sappiate che io sono Dio” (Sal 46,11).

La Madre di Dio è il modello insuperabile di questo silenzio natalizio: “Maria – è scritto –, da parte sua, serbava tutte queste cose, meditandole nel suo cuore” (Lc 2, 19). Il silenzio di Maria a Natale è più che un semplice tacere; è meraviglia, è adorazione; è un “religioso silenzio”, un essere sopraffatta dalla realtà. L’interpretazione più vera del silenzio di Maria è quella che si ha nelle antiche icone bizantine, dove la Madre di Dio ci appare immobile, con lo sguardo fisso, gli occhi spalancati, come chi ha visto cose che non si possono ridire a parole. Maria, per prima, ha elevato a Dio quello che san Gregorio Nazianzeno chiama un “inno di silenzio”[17].

Fa veramente il Natale chi è capace di fare oggi, a distanza di secoli, quello che avrebbe fatto, se fosse stato presente quel giorno. Chi fa quello che ci ha insegnato a fare Maria: inginocchiarsi, adorare e tacere!

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[1] J.H. Newman, Oxford University Sermons, London 1900, pp.54-74; trad. Ital. di L. Chitarin, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 2004, pp. 465-481.

[2] Ib.p. XV (trad. ital. Cit. p.726).

[3] Ib., p. 183 (trad. ital. Cit. p.575).

[4] Ibidem.

[5] B.Pascal, Pensieri
267 Br.

[6] S. Agostino, Epist. 130,28 (PL 33, 505).

[7] S. Kierkegaard, Diario VIII A 11.

[8] Newman, op. cit., p. 262   (trad. ital. cit., p. 640 s).

[9] B. Pascal, Pensieri, n.146 (ed. Br. N. 277).

[10] R. Otto, Das Heilige. Über das Irrationale in der Idee des Göttlichen und seine Verhältnis zum Rationalem, 1917.       ( Trad. ital. di E. Bonaiuti,  Il Sacro, Milano, Feltrinelli 1966).

[11] I. Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari, 1974, p. 197.

[12] F. Collins, The Language of God. A Scientist Presents Evidence for Belief, Free Press 2006, pp. 219 e 255.

[13] In Clemente Alessandrino, Stromati, 2, 9).

[14] F. Dostoevskij, I Fratelli Karamazov, parte II, VI,

[15] Dionigi Areopagita, Nomi divini II,9 (PG 3, 648) (“pati  divina”).

[16] Cf. Newman, “Implicit and Explicit Reason”, in  University Sermons, XIII, cit., pp. 251-277

[17] S. Gregorio Nazianzeno, Carmi, XXIX (PG 37, 507).

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ZENIT Staff

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