Dieci parole per la musica liturgica: “Estetica”

di Aurelio Porfiri*

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ROMA, martedì, 14 dicembre 2010 (ZENIT.org).- Estetica. Qualche anno fa, discutevo con un liturgista su alcune questioni riguardanti il rapporto fra liturgia in latino e liturgia in lingua volgare. Essendo un musicista ponevo il problema dell’importanza dei repertori musicali liturgici “tradizionali” in lingua latina. Si badi bene: non che questi siano la cosa fondante quando si parla di liturgia, ma certamente, come ho già detto in precedenza, non è qualcosa che va trascurata a cuor leggero. Se si ha un tesoro si deve farne buon uso, anche se questo tesoro dovesse mostrare alcune ingiurie del tempo.

Ora, questo liturgista mi faceva osservare che non bisogna rapportarsi a questi temi con una mentalità da esteta. Io, lo confesso, sul momento fui sorpreso da quest’osservazione, in quanto avevo nel mio dizionario mentale una precisa idea del termine “esteta” e del suo uso: praticamente è l’amore della bellezza fine a se stessa. Nel caso suggerito dal buon liturgista, la gente non amerebbe certi repertori per la loro valenza rituale (sono sicuro che questi termini così accostati farebbero felice il liturgista in questione) ma li amerebbe in se stessi. Rimasi sorpreso allora, come detto, ma oggi penso saprei rispondere meglio. In effetti il problema di allora era che non avevo chiaro il significato del termine estetica e ne facevo l’uso che la quotidianità mi imponeva. Ora credo di inquadrare il tema in modo migliore e per questo cerco di mettere ordine.

Innanzitutto bisogna introdurre il nostro primo protagonista, Alexander Gottlieb Baumgarten (1714-1762). Non è un personaggio molto conosciuto al di fuori dei circoli filosofici ma dobbiamo dedicargli un poco di attenzione per un paio di motivi. Il primo è che alcune sue tesi saranno oggetto di riflessione da parte di un filosofo che avrà un’influenza enorme sulla storia del pensiero successivo, fino ai nostri giorni: Immanuel Kant; l’altra è che egli sarà il primo nella storia ad usare il termine “estetica” per denotare la conoscenza sensibile (“Aesthetica…est scientia cognitionis sensitiuae”, come appare nel suo volume dedicato a questo tema), che si serve dei sensi e per formulare una teoria dell’arte. Essa sta vicino alla logica, che è conoscenza intellettuale.

Nel suo volume del 1750, che prende appunto il nome di “Aesthetica”, egli espone la sua visione filosofica ed intellettuale. Ma il concetto di “estetica” come scienza filosofica a se stante si trova già in questo autore in un lavoro del 1735, “Meditationes philosophicae de nonnullis ad poema pertinentibus” (Meditazioni filosofiche su alcune caratteristiche del Poema vedi Hammermeister, Kai (2002). The German Aesthetic Tradition. Cambridge, United Kingdom: Cambridge University Press. Pag. 3). Quindi, la storia accredita questo autore come colui che inserisce nel dibattito filosofico questo termine. Ora, come detto dal nostro amico Baumgarten, l’estetica è conoscenza sensibile, quindi l’esteta è colui che conosce attraverso i sensi. Da questo punto di vista, siamo tutti esteti. Mi si potrebbe controbattere che la conoscenza di tipo intellettuale è superiore a quella sensibile; non so bene se questa distinzione ancora possa reggere dopo gli studi sul cervello (la conoscenza intellettuale in effetti accade tramite i sensi, quindi ogni conoscenza è “estetica”) degli ultimi decenni ma basterebbe osservare che il ruolo ricoperto dalla nostra parte emozionale viene ora ritenuto estremamente importante. In uno studio recente (Ralph A., Spezio M, 2006), si metteva in luce come l’amigdala (parte del nostro cervello che ha un ruolo fondamentale nel controllo delle emozioni) giochi un ruolo fondamentale nel nostro essere sociale (e la liturgia è anche un momento sociale in cui il popolo di Dio si ritrova):

Noi sosteniamo che, pur se è chiaro che le rappresentazioni del comportamento sociale non sono contenute nell’amigdala, la più prudente interpretazione dei dati acquisiti è che l’amigdala gioca un ruolo fondamentale nel guidare il comportamento sociale sulla base del contesto socio ambientale. Quindi, appare essere richiesta per la normale cognizione sociale” (Ralph A., Spezio M. (2006). Role of the Amygdala in Processing Visual Social Stymuli. Progress in Brain Research. 156, 363-378, mia traduzione dall’inglese).

Insomma, non siamo proprio quegli essere razionali che ci piacerebbe essere. Già la teoria chiamata del “Triune Brain” sviluppata dal neuro scienziato americano Paul D. MacLean negli anni Sessanta, ci diceva che le nostre reazioni sono prima istintive ed emozionali e poi razionali. Quindi, la percezione (ecco la parolina magica) gioca un ruolo fondamentale nel modo in cui siamo ed essere esteti non è un difetto ma è il nostro modo di essere nel mondo. Ma è tutto così semplice? Ovviamente no. In effetti quel liturgista qualche piccola ragione l’aveva, in quanto si impone una distinzione tra esteta ed estetico (ma vedremo che la parte di ragione di quel liturgista rimane comunque piccola); e qui subentra il nostro secondo protagonista, un prete di origine italiana ma tedesco di formazione: Romano Guardini. Egli fu enormemente influente nel Movimento Liturgico, specialmente per un suo testo chiamato “Lo Spirito della Liturgia”. Da questo testo vorrei citare un passaggio:

Il bello è lo splendore del vero”, dice la scolastica. A noi uomini d’oggi questa affermazione sa di freddo intellettualismo. Se riflettiamo, però che questa sentenza scaturisce dallo spirito di uomini, che furono architetti incomparabili di pensieri, che disciplinarono concetti, fissarono conclusioni, elevarono sistemi audaci come le loro cattedrali, tutto questo ci ammonisce a penetrar più addentro il significato di queste parole. “Verità” non significa arida precisione di concetti, bensì adeguato inserimento nell’essere, interiore validità vitale; significa la forza e pienezza integrale di un’esistenza ricca di contenuto. E la bellezza è il gioioso splendore che ne promana, quando la verità nascosta all’ora giusta può rivelarsi, quando l’apparenza esteriore in ogni suo particolare è la pura e piena espressione della realtà interiore. Dunque, perfezione espressiva e non solo in superficie, ma dall’inizio primo dell’attività formante: si può definire con maggiore profondità e insieme brevità l’essenza del bello? Al bello, pertanto, rende giustizia solo chi rispetta questo ordine e lo intende come lo splendore della verità ontologica perfettamente espressa. Ma si presenta un grande pericolo, tale da essere difficilmente evitabile per molte nature; il pericolo di invertire l’ordine stabilito, di anteporre la bellezza alla verità, oppure di rendere del tutto indipendente la prima dalla seconda; la perfezione formale dal contenuto, l’espressione dall’anima e dal senso. E’ appunto questo il pericolo della visione del mondo estetica, che finisce poi in snervato estetismo” (Pagg. 88-89).

Ora, in questo intenso passaggio di Romano Guardini troviamo elementi di forte riflessione: la bellezza è lo splendore di una verità, ma chi si ferma al dato primo senza voler accedere alla verità ivi contenuta pecca di “estetismo”, in questo caso inteso in un senso peggiorativo. Quindi il peccato è in chi si ferma alla superficie della bellezza: ma chi ama certi repertori concepiti come artisticamente elevati (come può essere il canto gregoriano o la polifonia rinascimentale o tutto quello che viene fatto con arte per la liturgia) non è per questo un “esteta” (nel senso guardiniano negativo). Il problema non è nei repertori ma nell’uso che se ne fa. Infatti, Guardini ci dice l’esatto contrario di quello che il mio amico liturgista voleva implicare: quando c’è bellezza, la verità splende più fortemente. Il problema è semmai come questi repertori si adeguano alla verità della liturgia.

Io sostengo che una liturgia rinnovata celebrata degna
mente non può che accogliere e fare uso di ciò che di bello (e ancora utilizzabile) viene offerto dal patrimonio di musica liturgica che abbiamo. E che i moderni compositori non possono che beneficiare nel guardare a nuove forme poggiandosi sulle spalle dei giganti. Ma se il problema non è nei repertori, allora qualunque cosa va bene? Qui non sarei così sicuro. Si può fare un cattivo uso di repertori adeguati non significa che si può fare un buon uso di repertori inadeguati. La bellezza estetica della musica liturgica sta proprio nel suo adeguarsi alla verità profonda della liturgia, nel essere specchio della bellezza del “più bello dei figli dell’uomo”, nel riconoscere che ci si trova di fronte ad una realtà che ci supera.

Un mio direttore spirituale mi diceva che se sei in una buca e vuoi uscire devi trovare un appiglio esteriore. Questa esattamente è la differenza fra la vera musica liturgica e quella inadeguata: con la seconda ci si appiglia a se stessi e non ci si eleva veramente. Attraverso le vie della nostra percezione noi sentiamo, vediamo, ascoltiamo, odoriamo; l’uso sapiente di questi sensi ci aiuta ad elevarci ad una realtà che ci supera infinitamente. Il modo in cui facciamo bella la musica e la liturgia non è un vizio da esteti ma è un’esigenza che dobbiamo ritrovare in quanto essere umani. Abbiamo pensato di razionalizzare, verbalizzare la liturgia ma, probabilmente, le cose non funzionano in questo modo.

[Il prossimo articolo della serie le “Dieci parole per la musica liturgica” uscirà il 21 dicembre prossimo]

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*Aurelio Porfiri vive a Macao ed è sposato, con un figlio. E’ professore associato di musica liturgica e direzione di coro e coordinatore per l’intero programma musicale presso la University of Saint Joseph a Macao (Cina). Sempre a Macao collabora con il Polytechnic Institute, la Santa Rosa de Lima e il Fatima School; insegna inoltre allo Shanghai Conservatory of Music (Cina). Da anni scrive per varie riviste tra cui: L’Emanuele, la Nuova Alleanza, Liturgia, La Vita in Cristo e nella Chiesa. E’ socio del Centro Azione Liturgica (CAL) e dell’Associazione Professori di Liturgia (APL). Sta completando un Dottorato in Storia. Come compositore ha al suo attivo Oratori, Messe, Mottetti e canti liturgici in latino, italiano ed inglese. Ha pubblicato al momento quattro libri, l’ultimo edito dalle edizioni san Paolo intitolato “Abisso di Luce”.

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ZENIT Staff

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