La nazione e lo sviluppo dei popoli


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di mons. Giampaolo Crepaldi*

ROMA, giovedì, 9 dicembre 2010 (ZENIT.org).- L’impegno del cattolico in politica si snoda nella sua terra e nella sua nazione, tuttavia non può essere indifferente al più vasto orizzonte universale della comunità umana. Egli infatti sa che tutti gli uomini appartengono ad un’unica famiglia. Glielo dice la sua religione ed anche la sua ragione. Il Cristianesimo è stato fondamentale per la nascita dell’idea di un’unica fratellanza di tutti gli uomini; prima non esisteva una vera e propria idea dell’universalità della comunità umana. Una comunità universale può essere tale solo come unione degli spiriti.

Prima del cristianesimo c’era stata solo la proposta dello Stoicismo a parlare di cosmopolitismo, ma si trattava di una prospettiva ancora cosmica. C’era un mondo universale ma non una comunità universale. Il mondo è un ordine di cose mentre una società è un ordine di persone, di carattere spirituale. L’idea di una società umana universale ha origini religiose, comincia con la fede cristiana. Anche la ragione, però, conferma questa idea, in quanto vede tra gli uomini una uguaglianza di dignità e una unicità di destino, data la loro interdipendenza, che si estende fino agli estremi confini della terra. Non solo, quindi, per la globalizzazione in atto, ma per un motivo più profondo, ossia la “globalità”, l’unità del genere umano, il cattolico in politica vedrà il proprio impegno in un contesto più ampio, riguardante anche lo sviluppo di tutti i popoli.

Nasce così la preoccupazione per lo sviluppo, un concetto centrale nella dottrina sociale della Chiesa dopo che la Populorum progressio (1987) di Paolo VI lo ha posto come problema globale. Il concetto di sviluppo va però precisato. Esso ha una dimensione intensiva ed una estensiva. Per la dimensione intensiva esso riguarda non solo un aspetto della vita umana ma tutti, disposti in ordine gerarchico secondo la loro importanza. Per la dimensione estensiva esso riguarda tutti gli uomini, senza esclusione di sorta. Vediamo meglio i due aspetti.

Lo sviluppo è un concetto metafisico in quanto riguarda il raggiungimento per l’uomo della pienezza della sua vocazione. Un uomo sviluppato è una persona che è potuta crescere nella propria umanità, è diventata, in un certo senso, “più uomo”. Come si vede il concetto di sviluppo presuppone una vocazione per l’uomo. Esso indica una situazione di benessere, di vita buona nel senso di vita pienamente umana. Se l’uomo viene visto solo come un insieme di impulsi fisici, o come un fenomeno naturale accanto ad altri fenomeni naturali, immerso nella filiera dell’evoluzionismo naturalistico delle forme di vita, oppure come frutto del caso e della selezione naturale allora non si può parlare per esso di sviluppo. Se non c’è un essere della persona e se questo essere non indica dei fini da raggiungere, non si dà sviluppo. Non bisogna porre limiti quindi al concetto di sviluppo, in quanto esso riguarda la “pienezza” della vocazione umana, compresa la sua vocazione spirituale ed eterna. Si vede qui l’importanza di una concezione incondizionata della persona.

Se si hanno antropologie riduttive, che cioè considerano la persona solo da alcuni punti di vista e solo per alcune delle sue dimensioni, allora anche il concetto di sviluppo si atrofizza. Uno dei principali ostacoli allo sviluppo è di tipo culturale: le culture che riducono la persona a questo o a quell’aspetto sono nemiche dello sviluppo. In particolare lo sono le culture materialiste, secondo le quali l’uomo è solo un insieme di fenomeni materiali anche se particolarmente evoluti.

Una volta chiarito che lo sviluppo ha per oggetto “tutto l’uomo” bisogna però aggiungere che nell’uomo non tutte le sue dimensioni hanno lo stesso valore, ma alcune sono finalizzate ad altre. Per esempio la disponibilità dei beni materiali è finalizzata ai beni spirituali, lo sviluppo economico è finalizzato alla giustizia. L’uomo ha per esempio un bisogno di libertà, sicché un benessere che fosse limitativo della sua libertà non sarebbe vero sviluppo. Come vediamo, quindi, bisogna avere presenti tutte le dimensioni dell’umano e nello stesso tempo vederle nella loro giusta gerarchia, dentro un ordine di importanza maggiore o minore. Tutto ciò comporta una considerazione metafisica dell’uomo ossia una considerazione in profondità del suo essere e, in seguito, una valutazione morale dello sviluppo. Lo sviluppo sarà tanto più moralmente conforme alla dignità umana quanto più terrà conto di tutti gli aspetti dell’uomo senza rovesciare la giusta gerarchia dei valori in essi implicati.

Il cristianesimo è di fondamentale importanza per lo sviluppo in quanto fornisce, in Cristo, un modello di uomo pienamente realizzato nella sua stessa umanità e una concezione veramente incondizionata di persona. Il Cristianesimo permette alle singole culture di riconsiderare se stesse ed uscire dai propri limiti e riduzionismi in quanto propone un messaggio di vocazione integrale della persona umana.

Non c’è dubbio che lo sviluppo è quindi un concetto qualitativo e non solo quantitativo. Non riguarda solo l’incremento della ricchezza, ma la qualità umana della vita personale e sociale. Potremmo anche dire che lo sviluppo riguarda prima di tutto le condizioni immateriali che non quelle materiali. Questo è un criterio di giudizio e di azione molto importante per il cattolico impegnato in politica. Gli permette di indirizzare lo sguardo non tanto e non solo sui dati economici e gli interventi tecnici, pur necessari come dirò tra breve, ma sui presupposti immateriali, ossia culturali e morali, dello sviluppo. Nei paesi poveri molti freni allo sviluppo derivano da ancestrali culture locali che disprezzano il lavoro, stabiliscono norme discriminanti, non valorizzano adeguatamente la donna, vedono il rapporto con la natura in modo magico. Tutti questi atteggiamenti mentali sprecano risorse, non permettono un pieno utilizzo delle risorse naturali, costituiscono caste inamovibili nella società che frenano la mobilità sociale e il progresso, bloccano le iniziative di intraprendenza. Favorire lo sviluppo di quei popoli vuol dire anche liberarli da quelle culture limitanti.

Viceversa, leggi sulla proprietà intellettuale vigenti nei paesi ricchi, impediscono di distribuire farmaci di prima necessità nei paesi poveri in modo da lottare contro malattie endemiche e pandemie. Anche in questo caso una cultura, di tipo produttivistico e individualistico, è elemento di freno allo sviluppo. Il trasferimento nei paesi poveri di stili di vita edonistici e individualistici propri dei paesi sviluppati può essere negativo per il loro sviluppo. La mancanza di istruzione o della capacità di collaborare, le carenze nella concezione del rispetto della legalità sono cause di sottosviluppo non meno importanti di altre di ordine materiale. È bene, quindi, mettere a fuoco prima di tutto questi problemi di tipo immateriale ed associare agli aiuti allo sviluppo sempre anche un accompagnamento formativo.

I trasferimenti non devono essere solo economici o di beni materiali ma anche di competenze, di professionalità, di istruzione e cultura e, come si dice, di know how. Una visione materialista dello sviluppo lo intende invece solo come trasferimento di risorse che però spesso cadono nelle mani di aguzzini che tengono quei popoli sotto il loro tallone, vengono dirottati verso l’acquisto di armi, distruggono i mercati locali impoverendo i produttori. Se invece si pone attenzione ai problemi qualitativi si metterà in primo piano forme di aiuto culturale, educativo, formativo, di educazione alla legalità e al buon funzionamento delle istituzioni democratiche. Anche lo stesso problema dell’alimentazi
one, che appare nella sua essenza come una mancanza di cibo, ossia di beni materiali, è in fondo dipendente da cause strutturali di tipo immateriale e culturale.

Un aspetto molto importante di questa visione qualitativa dello sviluppo riguarda gli stretti collegamenti tra i grandi principi del rispetto della vita, della difesa della famiglia e della libertà di religione e lo sviluppo dei popoli, messi in evidenza soprattutto nella Caritas in veritate.

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*Mons. Giampaolo Crepaldi è Arcivescovo di Trieste, Presidente della Commissione “Caritas in veritate” del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE) e Presidente dell’Osservatorio Internazionale “Cardinale Van Thuan” sulla Dottrina Sociale della Chiesa.

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ZENIT Staff

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