MACAO, martedì, 7 dicembre 2010 (ZENIT.org).- Estatica. Quando dico che la musica per la liturgia deve essere “estatica”, credo che devo essere cauto nello spiegare il senso che voglio dare a questa affermazione. In effetti, questa parola assume diversi significati a seconda dei contesti in cui la si usa (con questo nome è anche chiamata una droga). La parola in questione viene dal greco ek-stasis che significa “fuori di sé”. Ora, dire che si è fuori di sé non ha una valenza positiva nella nostra cultura, sembra quasi un insulto. Ma spero di dimostrare che per me questa parola deve essere inclusa nelle caratteristiche della musica liturgica per la sua profonda valenza spirituale.

In uno studio pubblicato sulla rivista “Science”, l’estasi (insieme a creatività e stato psicotico) è così definita:“Questi stati sono contrassegnati da un graduale volgersi interiormente verso una dimensione mentale a spese di quella fisica” (Roland Fischer 1971. A Cartography of the Ecstatic and Meditative States. Science, 174, 4012. Mia traduzione dall’inglese). Non deve sorprendere che l’estasi viene avvicinata con questa definizione a creatività e stato psicotico. Tutte queste dimensioni sono un’uscita da ciò che percepiamo come noi stessi, anche se il modo di uscita (e di rientrata, come vedremo) variano fra i diversi stati. In effetti già i greci avevano affrontato questo problema, la dimensione estatica della musica. Questo già accadeva nel periodo che oggi gli storici definiscono come “mitologico”. Sappiamo che in questo periodo, diverse storie e leggende venivano usate per dare un senso alla realtà e alla vita dei nostri greci e una di queste era quella riferita ad Apollo e Dioniso. Chi erano costoro? Erano due fratelli, per lo meno da parte di padre, il quale era nientedimeno che Zeus, il padre e dominatore della vasta pletora di divinità che abitavano il Monte Olimpo. Questi due fratelli, a loro volta divinità, erano considerati come ispiratori e “patroni” della musica. La parte interessante è che loro rappresentavano due aspetti in un certo senso contrastanti della musica: Apollo era ordine, razionalità, luminosità; Dioniso era caos, irrequietezza, tenebrosità ed estasi. Già, la nostra estasi era associata con il lato dionisiaco della musica ma questo non ci dovrebbe ingannare, in quanto la questione non si ferma di certo qui.

In effetti questi due stili si possono veramente separare, in quanto tutti e due sono necessari per la produzione di opere d’arte. Questa riflessione ci porta ad un pensatore che solitamente non viene associato al cristianesimo, Friedrich Nietzsche (1844-1900). Nella sua opera “La nascita della Tragedia” egli rivela come questi due aspetti dell’apollineo e del dionisiaco siano in contraddizione solo in apparenza, poiché essi sono parte di un paradosso: entrambi sono necessari per un’opera d’arte. In effetti il rischio è la separazione dell’elemento apollineo da quello dionisiaco. Il tema dell’estasi è un tema che naturalmente ha implicazioni profonde in campo cristiano. In che modo possiamo collegare questo stato (attraverso anche la apparente dicotomia apollineo-dionisiaca) alla musica per la liturgia? Io credo che qui dobbiamo ascoltare il pensiero di sant’Agostino, che per me è il punto di snodo per la riflessione che andiamo facendo:

Cos’è che ti attrae nel mondo? Cosa vorresti lodare? Cosa amare? Da qualunque parte ti volgi con i sensi del corpo, ti si parano dinnanzi il cielo e la terra; ma qualunque cosa ami sulla terra è terreno, qualunque cosa ami nello stesso cielo è corporeo. Eppure tu queste cose, sparse ovunque nel creato, le ami e le elogi; ma come non lodare l’autore di queste cose che lodi? Effettivamente fino ad ora sei vissuta troppo ingolfata [nelle cose materiali]; frustrata dalla molteplicità dei tuoi desideri, ne porti le ferite. Sei piagata, divisa in una quantità di amori, sempre inquieta, mai serena. Raccogliti in te stessa! Se fuori di te c’è qualcosa che ti piace, cerca chi ne sia l’autore. Sulla terra non c’è nulla che, ad esempio, valga più di questa o quella cosa: dell’oro, dell’argento, degli animali, degli alberi, di tutte le cose belle. Pensa a tutta la terra! E nel cielo cosa c’è che sia piu’ meraviglioso del sole, della luna e delle stelle? Pensa all’immensità del cielo. Tutte queste creature nel loro insieme sono perfette in bontà perché Dio fece tutte le cose perfettamente buone. Ovunque risalta la bellezza dell’opera la quale a sua volta ti indirizza all’artefice” (Esposizione sul Salmo 145,5).

La bellezza del mondo creato ci rimanda ad un’altra bellezza. E questo possiamo anche sperimentarlo, come detto in precedenza, ascoltando un brano di musica che ci mette dentro una nostalgia per qualcosa che non riusciamo a fare nostro. Raccogliti in te stessa! Ecco la frase che credo possa anche connotare la funzione della musica liturgica. Essa, è estatica proprio perché ci raccoglie in noi stessi. Ma non dicevamo che estasi vuol dire andare fuori? Certo, ma anche qui è un paradosso. Estasi vuol dire andare fuori dall’essere materiale per ritrovarsi nell’essere interiore.

Nel libro decimo delle Confessioni, al capitolo sesto, il nostro santo ci apre una porta piena di luce che ci porta a vedere tutto quello che si è detto sopra in una prospettiva interessante: “Ma che amo, quando amo te? Non una bellezza corporea, né una grazia temporale; non lo splendore della luce, così chiaro a questi miei occhi, non le dolci melodie delle cantilene d’ogni tono, non la fragranza dei fiori, degli unguenti e degli aromi, non la manna e il miele, non le membra accette agli amplessi della carne. Nulla di tutto ciò amo, quando amo il mio Dio. Eppure amo una sorta di luce e voce e odore e cibo e amplesso nell’amare il mio Dio: la luce, la voce, l’odore, il cibo, l’amplesso dell’uomo interiore che è in me, ove splende alla mia anima una luce non avvolta dallo spazio, ove risuona una voce non travolta dal tempo, ove olezza un profumo non disperso dal vento, ov’è colto un sapore non attenuato dalla voracità, ove si annoda una stretta non interrotta dalla sazietà. Ciò amo, quando amo il mio Dio”.

Quello a cui ci richiama il grande santo è una educazione al guardare, non solo intesa come vedere con gli occhi, ma intesa anche come educazione dei sensi per indirizzarli al loro giusto fine e calibrarli alle esigenze dell’essere interiore. Dobbiamo riscoprire in noi la capacità di avere sensi puri. Se non erro Confucio ha detto che gli occhi sono la custodia della nostra pace interiore. E’ ovviamente vero. La capacità di dominare i nostri pensieri generati da quello che ci tenta nella bellezza esteriore (che non ha colpa del modo in cui la guardiamo) è centrale nel controllo delle passioni. La musica liturgica deve essere questo momento di passaggio tra l’essere esteriore, materiale e l’essere interiore. Questo passaggio avviene attraverso l’estasi, un'estasi che non è perdersi nell’indefinito caos (che era un po' il tipo estatico dei riti dionisiaci), ma un perdersi in un ordine che ancora non capiamo ma a cui ci avviciniamo giorno dopo giorno. Ecco perché non ogni musica può essere definita liturgica, essa non è semplicemente un testo con alcune note per cantare. Essa è un momento in cui l’anima deve avere la capacità di raccogliersi in se stessa, ma non nell’essere materiale ma in quello interiore.

Qualche giorno fa ascoltavo un brano di musica intesa per la liturgia con accompagnamento di strumenti tipici della musica di consumo. Mi rendevo conto come il brano, che da un punto di vista puramente sensuale poteva anche essere piacevole, non facesse altro che confermare coloro che lo eseguivano e ascoltavano nella loro materialità, non c’era la possibilità di fare il salto perché tutto era inscritto nell’orizzonte di senso quotidiano. Altri generi hanno invece la capacità di farci fare un salto di tipo estatico (attraverso l’estetico che vedremo meglio più in là). Questo salto è al di fuori di noi ma per ritornare in noi, il noi vero e immutabile.

Di passaggio vorrei fare riferimento a Paul Tillich (1886-1978) uno dei filosofi più noti in campo protestante. In un suo articolo del 1960 (Art and Ultimate Reality) egli ci offre cinque tipi di esperienza religiosa: sacramentale, mistica, profetico-contestatrice, religiosa, estatico-spirituale. Soffermiamoci su quella estatico-spirituale. Nell’esperienza religiosa di tipo estatico-spirituale, le persone e le individualità sono accettate ma la forma in un certo senso tenta di forzare i limiti, tende a qualcosa che meglio esprima la forza del messaggio che contiene, si placa in forme stabilite che però tendono ad aprirsi a qualcos’altro. Possiamo trovare l’esempio di questo in un famoso dipinto di Emil Nolde del 1909 chiamato “Pentecoste”. Anche molta musica del XX secolo può essere iscritta in questa categoria, con il suo continuo tentativo di forzare le prigioni della forma per raggiungere una maggiore perfezione espressiva. L’espressionismo, sarà l’incarnazione più riuscita di questo tipo di esperienza religiosa. Per Tillich, quest’ultimo stile è il più adeguato per l’espressione dell’esperienza religiosa anche se nell’articolo che andiamo esponendo il nostro mette in guardia dal pericolo del soggettivismo, che in questo caso è fortemente in agguato. In effetti, questo rischio è veramente presente. Fino a che punto si può forzare la forma per meglio esprimere un contenuto? E quando la forma è forzata veramente il contenuto ne viene fuori in modo migliore? Come dirò di seguito con Giovanni Paolo II, certamente l’artista si affaccia su un abisso di luce e deve cercare di ridonare agli altri questo Splendor Paternae Gloriae che per alcuni istanti gli è dato di contemplare. Il compito del musicista liturgico è compito altissimo.

Non posso dimenticare qui Divo Barsotti, uno dei miei autori prediletti a cui ho dedicato un libro che esplora le implicanze del suo pensiero per la liturgia. Per Barsotti la realtà unica e vera è Gesù, ma una realtà che a noi sembra assente, anche se è l’unica vera. Come ricongiungersi a questa vera realtà se non uscendo dalla realta’ materiale che a noi sembra vera anche se non è la verità essenziale?“Alla Messa pontificale di Sua Eminenza. – Ho visto per visione intellettuale Gesù come una luce che sorgendo si dilatasse così da assorbire in sé Firenze, il mondo, le cose, gli uomini -– tutto. Non era più alcuna cosa, né uomo – Lui solo” (24 Dicembre 1945, pag. 163 in “La fuga immobile”).

E’interessante questa “visione intellettuale” che accade proprio nella notte di Natale. Cristo incarnato è la vera e sola realtà. Attraverso la sua Incarnazione siamo partecipi della vera realtà della nostra esistenza. Egli è la vera presenza che abita in noi (Agostino...), quella presenza da cui noi fuggiamo e a cui solo dobbiamo tornare. Così ritrovare Lui significa anche ritrovare noi stessi (ecco la fuga immobile). Vorrei chiarire che questo non è disprezzo della realtà materiale, non è docetismo, che insegnava che il corpo di Gesù era solo apparenza. Questo è semplicemente ordine di grandezza, per cui la realtà suprema infinitamente supera la realtà particolare e quindi è più vera di essa in quanto vera per essenza e non semplicemente per partecipazione. La musica liturgica è contatto con la realtà essenziale, non con la realtà particolare. Quindi non può derivare pedissequamente dalla realtà particolare. La musica liturgica è un ponte sull’eternità. Giovanni Paolo II, nella sua Lettera agli Artisti, faceva presente questo concetto in maniera estremamente efficace:

Un’esperienza condivisa da tutti gli artisti è quella del divario incolmabile che esiste tra l’opera delle loro mani, per quanto riuscita essa sia, e la perfezione folgorante della bellezza percepita nel fervore del processo creativo; quanto essi riescono ad esprimere in ciò che dipingono, scolpiscono, creano non è che un barlume di quello splendore che è balenato per qualche istante davanti agli occhi del loro spirito. Di questo il credente non si meraviglia: egli sa di essersi affacciato per un attimo su quell’abisso di luce che ha in Dio la sua sorgente originaria”.

Certamente di questo attimo di illuminazione era partecipe Divo Barsotti. In quella notte di cui sopra, il padre si sarà sicuramente soffermato a contemplare la bellezza del Prefazio: “Quia per incarnati Verbi mysterium nova mentis nostrae lux tuae claritatis infulsit: ut dum visibiliter Deum cognoscimus, per hunc in invisibilium amorem rapiamur”. “perché, attraverso il mistero della Parola incarnata, una nuova luce del tuo splendore ha riempito gli occhi della nostra mente: così che quando vediamo Dio visibilmente, attraverso Lui possiamo essere rapiti all’amore delle cose invisibili”.

Questa riflessione di Barsotti, ci porterà alla riflessione sul ruolo dell’estetica nella musica liturgica, che sarà oggetto del prossimo contributo. Quale bellezza ci salverà? Domanda ancora migliore: quale Bellezza ci ha salvato? La musica per la liturgia è una espressione di questa Bellezza, se essa adempie alla sua funzione.

[Il prossimo articolo della serie le “Dieci parole per la musica liturgica” uscirà il 14 dicembre prossimo]



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*Aurelio Porfiri vive a Macao ed è sposato, con un figlio. E' professore associato di musica liturgica e direzione di coro e coordinatore per l’intero programma musicale presso la University of Saint Joseph a Macao (Cina). Sempre a Macao collabora con il Polytechnic Institute, la Santa Rosa de Lima e il Fatima School; insegna inoltre allo Shanghai Conservatory of Music (Cina). Da anni scrive per varie riviste tra cui: L'Emanuele, la Nuova Alleanza, Liturgia, La Vita in Cristo e nella Chiesa. E' socio del Centro Azione Liturgica (CAL) e dell'Associazione Professori di Liturgia (APL). Sta completando un Dottorato in Storia. Come compositore ha al suo attivo Oratori, Messe, Mottetti e canti liturgici in latino, italiano ed inglese. Ha pubblicato al momento quattro libri, l'ultimo edito dalle edizioni san Paolo intitolato “Abisso di Luce”.