Nei 150 anni dell'unità d'Italia: tradizione e progetto

ROMA, sabato, 4 dicembre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’intervento conclusivo tenuto questo sabato dal Card. Camillo Ruini al X Forum promosso dal Servizio nazionale per il progetto culturale della Conferenza episcopale italiana (Roma, 2-4 dicembre 2010).

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Sono stato molto attento a ciascuno degli interventi o contributi di questo Forum e il mio tentativo di concludere ne ha largamente beneficiato. Non posso però proporre ciò che sto per dire come una sintesi di quel che abbiamo ascoltato: più modestamente mi esprimerò a titolo personale, arrischiando queste parole per dare il mio apporto ad un Forum culturale, che come tale è anzitutto un libero confronto, nel quale ciascuno porta il suo contributo.

Quando, 15 anni fa, nel settembre 1994, avanzavo per la prima volta la proposta di un “progetto culturale… orientato e ispirato in senso cristiano”, sottolineavo che suo scopo fondamentale avrebbe dovuto essere l’inculturazione della fede nel tempo presente, ma aggiungevo subito che “sul piano della cultura… si pongono, in ultima analisi, le questioni decisive per la crescita complessiva del popolo italiano e le necessarie premesse di un efficace impegno sociale e politico dei credenti”. Questo X Forum, che riflette sui 150 anni dell’unità d’Italia in uno dei momenti delicati della vita della nostra nazione, ha rappresentato l’occasione favorevole per far emergere tale valenza civile, sociale e politica del progetto culturale, sempre nel quadro e alla luce della sua primaria finalità di incontro tra fede e cultura. Con questo Forum confidiamo pertanto di aver dato un sia pur modesto contributo alla realizzazione dell’auspicio, formulato dal nostro Cardinale Presidente Angelo Bagnasco, “che possa sorgere una generazione nuova di italiani e di cattolici che sentono la cosa pubblica come fatto importante e decisivo”.

In concreto, l’obiettivo di queste tre giornate di lavoro e di confronto è quello di indicare delle prospettive sia per l’Italia come popolo e nazione, sia per la Chiesa in Italia, sia specificamente per i laici cattolici, nelle loro proprie responsabilità (cfr Lumen gentium, 36; Gaudium et spes, 43 e 76). Si tratta indubbiamente di un compito arduo, anzi un poco temerario, come sembra risultare dalle tante questioni aperte e di difficile soluzione che sono emerse dal nostro dibattito: in quello che sto per dire sono consapevole di tale problematicità.

Non si possono individuare ragionevolmente delle prospettive per l’Italia di oggi prescindendo dal contesto geo-politico globale. E’ un quadro nel quale sono in corso rapidi spostamenti dei centri di gravità: mi basterà accennare al peso che ha ormai assunto la Cina e che sempre più acquisirà l’India, e in una chiave diversa al risveglio islamico, per quanto minaccioso e internamente contraddittorio esso possa apparire. Ma chiaramente l’elenco delle realtà emergenti è molto più ampio. In compenso, l’Europa vede diminuire il proprio ruolo economico e politico e anche, per certi aspetti, la sua influenza culturale. Al tempo stesso, però, non diminuisce, ma piuttosto aumenta, per i paesi che le appartengono, la necessità che l’Europa trovi la strada di una sua interna unità e solidarietà più vera e più realistica: le spinte in contrario possono essere supportate da interessi di breve periodo, ma appaiono miopi in una prospettiva più ampia.

Il Cardinale Ratzinger, e poi anche Papa Benedetto XVI, ha ripetutamente denunciato quello “strano odio” dell’Europa verso se stessa che è la ragione più profonda della sua crisi. Ma questo odio chiama in causa anche il cristianesimo, da un duplice punto di vista: in primo luogo il cristianesimo sembra essere l’oggetto principale dell’odio e del distacco dell’Europa da se stessa e dalle sue radici; a un livello più profondo, l’odio di sé ha in qualche misura intaccato il cristianesimo stesso, gli uomini e le forme in cui esso si incarna, svuotandolo dall’interno del suo vigore e del suo fascino. Perciò, di fronte ai compiti storici che lo attendono, il cristianesimo ha grande bisogno di ritrovare la propria unità, nel senso di andare avanti nel cammino dell’ecumenismo, ma anche di superare quelle fratture e polarizzazioni interne che sono in larga misura trasversali alle diverse Chiese e confessioni cristiane.

Il mio antico maestro di teologia, Bernard Lonergan, a questo proposito parlava già molti anni fa (nel 1965) di una crisi di cultura – o più concretamente di passaggio da una ad un’altra forma di cultura – che si riverbera sulla teologia e sui modi di vivere la fede. Questa crisi, a suo parere, avrebbe fatto sorgere “una destra compatta, decisa a vivere in un mondo che non esiste più” e “una sinistra sparpagliata, affascinata ora da questo ora da quel nuovo sviluppo”. Quello che però davvero conterà “è un centro” che abbia “familiarità tanto col vecchio quanto col nuovo, sufficientemente solerte da elaborare uno per uno i passaggi che vanno eseguiti, sufficientemente forte per rifiutare le mezze misure e puntare su soluzioni complete, anche se occorre aspettare” (Ragione e fede di fronte a Dio, ed. Queriniana 1977, pp. 121-122: l’originale inglese risale al 1965). Sarebbe ridicolo leggere queste parole nella chiave dell’attualità politica italiana. Sul piano teologico, culturale e spirituale esse esprimono invece qualcosa di profondo, che a mio parere manifesta la sua validità oggi assai più chiaramente di quando, non ancora terminato il Vaticano II, queste parole furono pronunciate. Il recentissimo libro-intervista di Benedetto XVI Luce del Mondo mostra, secondo me, che il nostro Papa, a partire dalla sua prospettiva indubbiamente diversa da quella di Lonergan, vede in maniera non troppo dissimile il presente e il futuro del cristianesimo.

Ritornando alla situazione dell’Europa, e anche dell’Italia, il contributo che le Chiese cristiane, e da noi in primo luogo la Chiesa cattolica, potranno dare al superamento della crisi che travaglia dal di dentro i popoli europei sembra dunque dipendere anzitutto dalla piena riconciliazione del cristianesimo e del cattolicesimo con se stessi. E’ questa la strada per ridare all’Europa un’identità forte e al contempo tutt’altro che chiusa e antagonistica, e così anche per consentire all’Europa stessa di trovare il proprio spazio, ruolo e vocazione nel contesto dei nuovi equilibri che si vanno costituendo e che, a loro volta, stanno dentro a quella dimensione di universale e accelerato cambiamento che sembra essere la cifra del mondo di oggi e di domani, già individuata dal Concilio (Gaudium et spes, 4-10).

Il nostro Forum, come è giusto, si è concentrato principalmente sulla storia, l’identità, la vocazione, il presente e il futuro dell’Italia. Al riguardo vorrei anzitutto sottoscrivere le valutazioni del Prof. Scarpati a proposito dell’identificazione culturale, letteraria e artistica dell’Italia, che ha preceduto di molti secoli lo Stato unitario, dando forma, sia pure incompiuta, all’unità della nostra nazione. Del resto, come ha osservato il Prof. Ornaghi, anche oggi l’itinerario verso l’unità sembra in qualche modo inconcluso e non esente da rischi. Nelle circostanze attuali è facile identificare le fonti di questi rischi da una parte nelle difficoltà del momento politico e dall’altra nella crisi economico-finanziaria internazionale, che pesa naturalmente anche sull’Italia. Si tratterrebbe però di una valutazione troppo sbrigativa, che non risale alle cause più vere e profonde non solo dei pericoli per l’unità nazionale ma più ampiamente degli ostacoli al bene-essere (preso in un senso non solo materiale) e allo sviluppo dell’Italia.

Alcune di queste cause possono essere individuate sul versante politico e istituzionale. Il Prof. Ornaghi ha richiamato la nostra attenzione sulla difficile riformabilità del nostro sistema e la sua analisi mi sembra pienamente condivisibile. Una delle ragioni della scarsa riformabilità è l’altrettanto difficile governabilità. Mi limiterò a considerare questo problema nel suo aspetto apicale, cioè al vertice del sistema-paese. Avendo seguito in maniera costante e partecipe le vicende
della politica italiana dall’ormai lontano 1948, posso dire che mai, nemmeno nelle situazioni che avrebbero dovuto essere più favorevoli, come ad esempio quelle dei governi De Gasperi dopo le elezioni del ’48, l’esecutivo ha goduto nell’Italia repubblicana di una vera e sicura stabilità: è questo un elemento di debolezza relativa dell’Italia in confronto agli altri grandi paesi europei. Perciò, pur tenendo ben presente il chiaro monito della Centesimus annus (n. 47) che “La Chiesa rispetta la legittima autonomia dell’ordine democratico e non ha titolo per esprimere preferenze per l’una o l’altra soluzione istituzionale o costituzionale”, ritengo, come opinione puramente personale, che un contributo al funzionamento del nostro sistema politico potrebbe venire da un rafforzamento istituzionale dell’esecutivo, naturalmente nel pieno rispetto della distinzione tra i poteri dello Stato. Per la medesima ragione mi sembra importante mantenere, in una forma o nell’altra, un sistema elettorale di tipo maggioritario. Nella stessa direzione sembra spingere l’attuazione del federalismo: da una parte esso corrisponde alla ricchezza pluriforme della realtà storica, sociale e civile italiana e può contribuire a una più forte responsabilizzazione delle classi dirigenti locali; dall’altra parte, per non nuocere all’unità della nazione, il federalismo non solo deve essere solidale, ma va bilanciato con una più sicura funzionalità del governo centrale.

Una debolezza di più vasta portata e più difficile da correggere, perché non limitata all’ambito politico ma radicata nel senso della vita, nella cultura e nell’organizzazione sociale, l’Italia la condivide con la maggior parte delle altre nazioni europee. Mi riferisco alla denatalità, agli effetti che essa ha già prodotto e a quelli, più gravi, che nel medio periodo è destinata a produrre. Oggi, finalmente, anche le classi dirigenti italiane incominciano a prendere coscienza di questa debolezza, mentre – a livello non solo europeo ma ormai mondiale – la tanto paventata “bomba demografica” sembra destinata a un anticipato disinnesco, che nel lungo periodo dovrebbe por fine a quello che attualmente si presenta come il principale motivo di inferiorità dell’Europa nel quadro geo-economico e geo-politico. Siamo lontani però dalla realizzazione – sia pure inevitabilmente lenta e progressiva, oltre che faticosa – di quei cambiamenti che possono mettere fine, con il volgere del tempo, al nostro declino demografico. Sono cambiamenti che riguardano, come è noto, le politiche pubbliche, della cui efficacia troviamo esempi eloquenti in paesi a noi vicini, ma riguardano non meno la fiducia nel futuro (un bene oggi scarso e perciò ancora più prezioso, in un tempo di attese per vari aspetti decrescenti) e il superamento di un diffuso narcisismo, per far posto a una capacità di relazionarsi con gli altri improntata alla generosità e alla stabilità. Su queste frontiere potranno misurarsi le nostre attitudini ad incidere, sia come Chiesa sia come laici cattolici, sugli effettivi orientamenti dell’Italia, in riferimento ai modi di sentire e alle scelte di vita della gente, e non solo alle decisioni politiche e legislative. Aggiungerei che, a differenza di quanto si sta verificando in altri paesi europei che pure hanno posto in essere provvedimenti efficaci a sostegno della natalità, l’Italia dovrebbe valorizzare ben di più quello che rimane un suo grande punto di forza, e cioè la profondità e la tenacia dei legami familiari, che spesso vengono invece considerati come un nostro motivo di arretratezza: ma simili valutazioni hanno ricevuto una smentita concreta dalle capacità di resistere all’attuale crisi economica, capacità che per l’Italia dipendono in larga misura dal ruolo e dal risparmio delle famiglie.

Nel corso di questo Forum sono state individuate varie altre fragilità e zone d’ombra del nostro paese, ma si è anche messo l’accento sulle sue potenzialità e specifiche risorse. Soprattutto, si è tentato di configurare un progetto e una “missione” che indichino un cammino per l’Italia, e in essa per la Chiesa e per i cattolici. Cercherò ora di portare un contributo in questa direzione. Faccio riferimento a tal fine anzitutto agli interventi di Giovanni Paolo II agli inizi del 1994, in un momento di gravi difficoltà per l’Italia e per i cattolici: su questi interventi il Prof. Riccardi ha già fortemente richiamato la nostra attenzione. “Sono convinto che l’Italia come Nazione ha moltissimo da offrire a tutta l’Europa. Le tendenze che oggi mirano a indebolire l’Italia sono negative per l’Europa stessa e nascono sullo sfondo della negazione del cristianesimo… All’Italia, in conformità alla sua storia, è affidato in modo speciale il compito di difendere per tutta l’Europa il patrimonio religioso e culturale innestato a Roma dagli apostoli Pietro e Paolo”: queste parole di Giovanni Paolo II (Lettera ai Vescovi italiani sulle responsabilità dei cattolici del 6 gennaio 1994, n. 4) mostrano un senso davvero alto della missione storica dell’Italia – senso di cui spesso manchiamo noi italiani – e legano questa missione all’anima cattolica del nostro paese e alla speciale presenza anche istituzionale che in essa ha la Chiesa. Di fatto rappresentano un autentico rovesciamento, come ha detto il Prof. Giovagnoli, di quella tesi di Machiavelli che ha avuto e continua ad avere tanto corso nella cultura italiana.

Il problema vero però, dal nostro punto di vista di cattolici italiani, riguarda l’esistenza, oggi, delle condizioni effettive per corrispondere a una simile missione. E’ chiaro, anzitutto, che tali condizioni non possono essere un dato acquisito una volta per tutte, ma vanno invece sempre di nuovo realizzate. Convinzione di Giovanni Paolo II era comunque che non si trattasse di mera utopia: “la Chiesa in Italia – egli scrive (ivi, n. 8) – è una grande forza sociale che unisce gli abitanti dell’Italia, dal Nord al Sud. Una forza che ha superato la prova della storia”. Nell’ottobre 2006, parlando al Convegno di Verona, Benedetto XVI ha detto, a sua volta, che “L’Italia… costituisce… un terreno assai favorevole per la testimonianza cristiana. La Chiesa, infatti, qui è una realtà molto viva, che conserva una presenza capillare in mezzo alla gente di ogni età e condizione”. Anche nel libro-intervista Luce del Mondo (p. 199) Benedetto XVI, sia pure incidentalmente, ha confermato questa valutazione.

Personalmente ritengo anch’io che, nella sostanza, si tratti di una realtà, e non di una semplice nostalgia del passato, o della proiezione di un nostro desiderio. La grande domanda, però, riguarda il futuro, anche prossimo, e in concreto gli atteggiamenti delle nuove generazioni di italiani che stanno crescendo. Al riguardo l’analisi di Don Armando Matteo, nel libro La prima generazione incredula. Il difficile rapporto tra i giovani e la fede (ed. Rubettino 2010), va presa molto sul serio. Già una decina d’anni fa un’indagine che fu fatta sui giovani romani aveva dato esiti non molto diversi. Questa è, a mio parere, la principale frontiera dell’impegno di evangelizzazione e inculturazione della fede e su questa frontiera anche il Progetto culturale dovrà muoversi con nuova attenzione e dedizione.

Qualche ulteriore riflessione sulle condizioni della missione dell’Italia, come Giovanni Paolo II l’ha delineata, la propongo in dialogo con Lorenzo Ornaghi, nella sua relazione a questo Forum e in quella precedente alla Settimana Sociale di Reggio Calabria. Il Prof. Ornaghi ha parlato della necessità, per i cattolici italiani, di essere, nel loro impegno per il paese, anzitutto genuinamente e concretamente “cattolici”, o anche decisamente “guelfi”, ciò che comporta “affermare l’idea e la realtà di ‘italianità’ quale dato storico (insieme culturale e popolare) di cui gli essenziali e più duraturi elementi sono religiosi, cattolici”, con l’avvertenza che la
“perennità” e l’“esemplarità” dell’Italia cattolica dipendono dall’energia e dal successo dell’azione dei cattolici di oggi.

Al di là del ricorso al termine guelfi, che può dar luogo a diverse interpretazioni, non posso non condividere la convinzione che essere veramente, e vorrei dire semplicemente, cattolici è la premessa ineludibile per un impegno che sia storicamente efficace e al contempo davvero orientato in senso cristiano e cattolico. A questo fine, nella situazione attuale, bisogna saper reagire a quella “secolarizzazione interna” che insidia i cattolici e la stessa Chiesa, in maniera molto comprensibile data l’osmosi reciproca che non può non esistere tra la Chiesa e la società (cfr Gaudium et spes, 40-44).

E’ importante, in particolare, riguardo al concetto di laicità, non cadere in equivoci che possano essere frutto delle istanze della secolarizzazione. Emerge così in tutto il suo rilievo il concetto di “laicità positiva” che Benedetto XVI ha ripetutamente proposto e che congiunge all’autonomia delle attività umane e all’indipendenza dello Stato dalla Chiesa non già la preclusione ma l’apertura nei confronti delle fondamentali istanze etiche e del senso religioso che portiamo dentro di noi. Alla laicità così intesa si collega il rapporto con quei laici – nel senso che questa parola ha oggi nel dibattito pubblico – che condividono tale apertura: Benedetto XVI nel discorso al Convegno di Verona e in altre occasioni, tra cui vari scritti pubblicati quando era Cardinale, ha apprezzato e valorizzato con decisione questo rapporto, che non si limita a un corretto dialogo ma diventa concreta collaborazione per il perseguimento di finalità comuni. Penso che tra le condizioni per attuare oggi la missione dei cattolici italiani rientri anche una simile attenzione.

Il Prof. Ornaghi si è riferito alla nota tesi di Ernst-Wolfgang Böckenförde, secondo la quale “lo Stato liberale, secolarizzato, vive di presupposti che esso di per sé non può garantire”, ed ha aggiunto che anche la democrazia vive di ragioni e di valori politici che essa, senza ancoramento antropologico, garantisce con sempre maggiore difficoltà. Nella tavola rotonda di ieri vi è stata, a questo riguardo, un’ampia convergenza, particolarmente in rapporto alla situazione dell’Italia. Aggiungo a mia volta, rifacendomi a una pagina di Rémi Brague (Fede e democrazia, pubblicato in Aspenia 2008, pp. 206-208), che nel nostro tempo l’uomo, e non solo lo Stato, ha bisogno di un sostegno che non riesce a garantire da se stesso, perché pesantemente condizionato, nella coscienza di sé, da quel naturalismo che vuole ridurlo al resto della natura, oltre che da un totale relativismo. Oggi inoltre, osserva Brague, prima che di assicurare dei limiti e degli argini, si tratta di trovare delle ragioni di vita, e questa è, fin dall’inizio, la missione più propria del cristianesimo. Nella misura in cui sapremo muoverci in questa direzione, oso sperare che l’Italia possa essere un proficuo laboratorio, in vista di superare quell’odio di se stessa che affligge l’Europa e che tende anche ad alienare il cristianesimo dalle proprie – certo semper reformandae – realizzazioni storiche.

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ZENIT Staff

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