ROMA, giovedì, 2 dicembre 2010 (ZENIT.org).- La messa in pratica di politiche di tutela dell’ambiente ha a che fare anche con la nostra responsabilità nei confronti delle future generazioni. Anche questo aspetto qualifica il problema in senso morale. C’è un principio nella dottrina sociale della Chiesa che si chiama “destinazione universale dei beni” secondo il quale tutti i beni del creato sono destinati a tutti, compresi i nostri figli e nipoti. C’è quindi un dovere di lasciare loro in eredità un ambiente abitabile e che essi possano a loro volta umanizzare e adoperare per il loro sviluppo. Bisogna però intendere correttamente la questione. Non dobbiamo pensare di lasciare ai nostri figli la natura così come l’abbiamo trovata noi, né dobbiamo pensare di lasciarla completamente devastata ed inquinata in modo irrimediabile. Si tratta di due estremi entrambi scorretti.
Noi dobbiamo adeguatamente gestire la natura, per renderla atta a soddisfare i bisogni di uno sviluppo autenticamente umano, e lasciarla in modo tale che anche i nostri successori lo possano fare. Una natura intatta non serve a nessuno. Non è questa la sua vocazione. Molte teorie odierne sono contrarie allo sviluppo in quanto tale, parlano di decrescita e vorrebbero interrompere non solo un certo modello di sviluppo per sostituirlo con un altro ma lo sviluppo stesso. Vorrebbero far ritornare l’umanità indietro, in una società naturale, fondata sulla sobrietà, l’autoconsumo, lo scambio in natura. Queste ideologie vorrebbero lasciare la natura così come è e rivelano quindi una sfiducia nell’uomo, nella sua creatività ed intelligenza. Molti altri denunciano la sovrappopolazione come principale fonte di danno ambientale, vorrebbero limitare le nascite soprattutto dei paesi poveri perché pensano che la natura, per sopportare una tale massa di abitanti sulla terra, dovrebbe accettare un degrado irreversibile. Ci sono state e ci sono anche molte previsioni catastrofiche sulle sorti del pianeta a causa della sovrappopolazione, che hanno animato molte politiche neomalthusiane di contenimento delle nascite, sia tramite gli anticoncezionali distribuiti in massa, sia tramite l’aborto. Ecco alcuni esempi di ideologie ambientaliste molto negative, che finiscono per danneggiare l’uomo anziché promuoverne lo sviluppo.
La nostra responsabilità verso le future generazioni non implica l’attuazione di politiche di questo genere. Ci sono sulla terra risorse per sfamare molti miliardi di persone, solo se volessimo coltivare il creato con sapienza. Queste ideologie assolutizzano la natura, dimenticano che essa è per l’uomo e non credono che l’uomo la debba gestire e saggiamente amministrare ma solo conservare, come se si trattasse di un museo. In questo modo però non sono veramente responsabili verso le generazioni future, le quali, prima di tutto, hanno interesse ad esserci, senza essere preventivamente annullate per la salvaguardia di presunti equilibri naturali. La politica ambientale ha bisogno di informazioni per poter procedere e la fonte delle informazioni in questo settore è la scienza. Solo che la scienza non sempre dà informazioni esaustive e complete; talvolta gli scienziati sono dipendenti dalle ideologie e dagli interessi politici, per cui ogni politico, e il politico cattolico in particolare in quanto la sua fede lo difende più di altri dalla ideologia, deve saper gestire con oculatezza e sapienza le informazioni delle scienze.
I dati sull’inquinamento atmosferico motivano politiche del traffico; quelli sul buco dell’ozono richiedono interventi sull’emissione di ossidi di carbonio; i dati sul riscaldamento climatico richiedono investimenti per la riconversione industriale; i dati sull’aumento della popolazione richiedono politiche demografiche e così via. La politica sembra dipendere dalla scienza, ma la scienza è spesso inattendibile e orientata ideologicamente. L’IPCC dell’ONU sta facendo marcia indietro sulle previsioni circa il riscaldamento globale; molte previsioni di insostenibile sovrappopolazione sono risultate sbagliate: casi di errore e di incertezza della scienza se ne sono avuti tanti. Ecco allora che la politica deve sì tenere conto della scienza, ma anche non ne deve dipendere in modo cieco. Serve la consapevolezza che in questa società del rischio anche gli esperti non sono sempre affidabili e che è possibile creare nuovo rischio proprio mediante interventi scorretti. Certe politiche ambientali sbagliate creano nuovo rischio ambientale. di fronte ai possibili rischi ambientali è stato elaborato il cosiddetto principio di precauzione. I progressi delle scienze e delle tecniche della natura, la straordinaria potenza di cui l’uomo dispone nel campo delle biotecnologie, la presenza di molti ecologismi ideologici e le carenze nel campo dell’ecologia naturale hanno dato vita “ad una pericolosa aggressività nei confronti della natura, persona umana inclusa”, con la conseguente acuta sperimentazione di molteplici situazioni di rischio. Tale rischio è percepito tanto più acutamente dall’opinione pubblica in quanto la scienza, nel mentre procede e permette di risolvere situazioni critiche come malattie finora inguaribili, svela anche l’incertezza dei propri percorsi e l’ambivalenza delle proprie scoperte. Nel mentre illumina, spiega e permette di dominare, anche oscura, inquieta e ci lascia smarriti.
La natura si complessifica, così come la società, il sapere si frammenta e quasi si polverizza in tanti piccoli segmenti, natura e società si integrano progressivamente e spesso inestricabilmente: tutto ciò non permette di fare chiarezza sui rischi incombenti. L’intervento sul DNA apre nuove possibilità di guarigione da malattie genetiche, ma nel contempo spalanca orizzonti inquietanti sulla possibilità di selezionare in laboratorio l’umanità futura. Le previsioni diventano impossibili e la scienza, che nel progetto moderno avrebbe dovuto fornire sicurezza dalla violenza e imprevedibilità della natura, diventa essa stessa fonte di incertezza ed ansia per il nostro futuro. di fronte a questa nuova percezione del rischio il pensiero contemporaneo ha creato il “principio di precauzione“, secondo il quale prima di intraprendere una operazione sulla natura ad alto rischio e in situazione di incertezza per la carenza di informazioni scientifiche e/o di monitoraggi delle conseguenze, occorre assumersi l’onere della prova. Se finora l’onere della prova spettava a chi diceva di non agire sulla natura, con il principio di precauzione tale onere spetta a chi decide di agire. Chi agisce sulla natura dovrebbe preventivamente fornire la prova a tutela del rischio. Il principio di precauzione è qualcosa di diverso dalla “prudenza” ed anche dal “principio di responsabilità”. In un certo senso l’agire umano avviene sempre in situazioni complesse ed incerte. Proprio la contingenza e la complessità della concreta realtà in cui siamo chiamati ad agire chiamano in causa la virtù della prudenza.
Cosa differenzia il principio di precauzione dal giudizio prudenziale? Il fatto che chi agisce non solo si assuma la responsabilità delle conseguenze, ma anche che dimostri l’impossibilità di conseguenze dannose. Ora, questo è impossibile per due motivi, uno legato alle caratteristiche dell’azione umana in quanto tale e l’altro legato all’azione umana nell’attuale contesto di complessità. È impossibile prevedere tutte le conseguenze di un’azione, qualsiasi essa sia. E se qualcuno volesse esaminare tutte le conseguenze non agirebbe mai. Oggi, poi, tale impossibilità è resa ancora maggiormente impossibile dalla complessità degli interventi umani sulla natura e dal fatto che ad ogni intervento si aprono infiniti altri motivi di rischio in una rete impossibile da con
trollare, con la possibilità che eventuali conseguenze negative riemergano a distanza di tempo e con modalità imprevedibili dopo un lungo percorso sotterraneo.Il giudizio prudenziale si fondava sull’assunzione di responsabilità da parte del soggetto agente. Assunzione di responsabilità di due tipi: circa la conformità dell’azione con la legge morale universale e circa le conseguenze di bene che ne deriveranno. Il principio di precauzione, invece, non si fonda sull’assunzione di responsabilità, ma sulla dimostrazione che le conseguenze non saranno dannose. Oltre a rischiare di bloccare l’azione, il principio di precauzione potrebbe trasformare l’azione umana in una dimostrazione consequenzialista. Chi agisce avrebbe, infatti, nientemeno che l’obbligo di dimostrare la bontà delle sue azioni in base alla non dannosità delle conseguenze.
Per evitare questi aspetti poco convincenti del principio di precauzione, il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, accettandolo, anche ne precisa le caratteristiche. Il principio di precauzione, dice il Compendio, non è “una regola da applicare, bensì un orientamento volto a gestire situazioni di incertezza”. Se non è una regola da applicare, vuol dire che non va utilizzato in modo rigido, ma assunto come attenzione ad un bisogno generale di sicurezza data la grande potenza degli strumenti nelle nostre mani. Una specie di “maneggiare con cura”. Ciò che conta, in ogni caso, è che il Compendio non lo considera una regola morale cui doverosamente attenersi. Esso, inoltre, “manifesta l’esigenza di una decisione provvisoria e modificabile in base a nuove conoscenze che vengano eventualmente raggiunte”. Si tratta, in altre parole, di una specie di metodo per prova ed errore. Un metodo, appunto, non una norma morale vincolante.
Tra i rischi, poi, che il principio di precauzione proporzionalmente deve tenere in conto, c’è anche il rischio derivante dalla non decisione: “ivi compresa la decisione di non intervenire”. Questo per evitare che il principio di precauzione venga assunto come alibi per il non intervento o caricato di motivazioni ideologiche astensionistiche. Il principio di precauzione, infatti, può venire strumentalizzato da alcune delle ideologie ecologistiche che ho descritto più sopra, soprattutto quelle animate dal pessimismo antropologico. Queste osservazioni sul principio di precauzione sono molto importanti per il cattolico impegnato in politica. Egli deve fare delle scelte improntate al principio di responsabilità morale, mentre spesso il principio di precauzione è un modo per non agire e quindi per togliersi la responsabilità morale. Il fatto che il principio di precauzione abbia molti aspetti ideologici è anche provato dal fatto che i suoi sostenitori non lo applicano però nel campo della bioetica e di fronte alla semplice possibilità che l’embrione sia umano essi non ricorrono al principio di precauzione.
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*Mons. Giampaolo Crepaldi è Arcivescovo di Trieste, Presidente della Commissione “Caritas in veritate” del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE) e Presidente dell’Osservatorio Internazionale “Cardinale Van Thuan” sulla Dottrina Sociale della Chiesa.