di padre John Flynn, L.C.


ROMA, domenica, 21 novembre 2010 (ZENIT.org).- La Corte Suprema degli Stati Uniti ha recentemente trattato il tema dell’opportunità o meno di consentire ai minori l’acquisto o il noleggio di videogiochi di natura violenta.

Secondo le notizie della stampa, i giudici non hanno reagito in modo univoco, né secondo i consueti schieramenti che assumono sulle questioni sottoposte al loro esame.

Il caso riguarda una legge della California del 2005 che vieta la vendita ai minori di videogiochi eccessivamente violenti. La legge è stata firmata, come taluni hanno ironicamente osservato, da un ex attore noto per i suoi film violenti, il governatore Arnold Schwarzenegger. Dopo essere stata bocciata dai tribunali inferiori, la normativa è ora arrivata all’attenzione della Corte Suprema.

Le questioni emerse dal dibattimento variano dal perché si dovrebbero stigmatizzare i videogiochi e non considerare anche la violenza nei fumetti o nella musica rap alla possibilità di considerarli come una forma di espressione artistica, secondo quanto riferito dal Wall Street Journal il 3 novembre.

“Il nostro Paese non ha una tradizione che insegna ai bambini a guardare persone che picchiano le ragazze sulla testa con una pala finché non chiedono pietà, che si mostrano malvagie al punto da decapitarle o che sparano la gente alle gambe per farla cadere”, ha detto il presidente della Corte John Roberts, secondo quanto riferito dall'Associated Press il 2 novembre.

Per contro, il giudice Antonin Scalia si è detto preoccupato per il rispetto del Primo Emendamento, secondo cui “il Congresso non emana leggi che limitino la libertà di espressione”. E ha aggiunto: “La libertà di espressione non è mai stata intesa nel senso di escludere la raffigurazione della violenza. Lei ci sta chiedendo di creare una proibizione totalmente nuova che il popolo americano non ha mai considerato quando ha ratificato il Primo Emendamento”.

Secondo la notizia dell'Associated Press, i tribunali di altri sei Stati hanno bocciato divieti simili.

Libertà di espressione

“I videogiochi, anche quelli violenti, consentono la libera espressione da parte dei giocatori, così come gli strumenti musicali consentono la libera espressione dei musicisti”, ha scritto Daniel Greenberg, grafico e autore di videogiochi, in un articolo d’opinione apparso sul Washington Post del 31 ottobre.

“Nessuno nel Governo ha titolo di decidere quali giochi non consentono la libera espressione, anche se l’espressione è quella di un quindicenne”, ha sostenuto. Greenberg ha anche osservato che le autorità della California non hanno prodotto prove convincenti del fatto che i videogiochi provochino danni psicologici ai minori.

Sulla stessa linea delle argomentazioni emerse nella Corte, si è espresso anche un collaboratore della rivista PC World, JR Raphael, che in un articolo non datato apparso sul loro sito Internet ha condannato la legge.

Andando anche oltre le questioni di principio, egli ha evidenziato alcuni problemi pratici derivanti dalla normativa. Secondo il testo della legge, il videogioco violento è quello “in cui la varietà delle opzioni disponibili per il giocatore comprende l’uccisione, la menomazione, lo smembramento o l’aggressione sessuale nei confronti dell’immagine di un essere umano”, in un modo “evidentemente offensivo”, che faccia leva sulle tendenze “devianti o morbose” e manchi di “sostanziale valore letterario, artistico, politico o scientifico”.

“Allora, chi sarà a dire quali videogiochi sono ‘evidentemente offensivi’ e quali non lo sono?”, ha chiesto. Ha poi citato una domanda formulata dal giudice Antonin Scalia: “Quand'è che un videogioco violento diventa ‘deviante’, rispetto ai videogiochi violenti ‘normali’?”.

Gregory K. Laughlin, direttore della biblioteca giuridica della Cumberland School of Law, presso la Samford University, in Alabama, si è espresso a favore della legge in un articolo del 2 novembre pubblicato online sul sito Internet della rivista First Things.

Ha ammesso che gli esperti sono divisi sulla questione se vi sia un nesso tra i videogiochi e il comportamento violento, e ha anche riconosciuto che la questione riguarda proprio la libertà di espressione. In passato, tuttavia, la Corte suprema ha sostenuto l’opportunità di prevedere restrizioni per i minori nel campo della libertà di espressione, ha ricordato.

Più di 40 anni fa, infatti, la Corte suprema aveva sostenuto una legge dello Stato di New York che imponeva restrizioni all’accesso dei minori alle riviste pornografiche. In questa decisione la Corte spiegava che lo Stato aveva titolo di fare questo non sulla base di certezze scientifiche sugli eventuali danni provocati, ma perché “i genitori hanno un interesse allo sviluppo etico e morale dei loro figli e hanno il diritto di essere sostenuti dallo Stato nel portare i figli a diventare eticamente e moralmente adulti”, ha ricordato.

Laughlin ha richiamato anche altre decisioni e ha concluso citando un parere di più di 60 anni fa, formulato dal giudice Robert Jackson, secondo cui “il pericolo è che, se la Corte non tempera la sua logica dottrinaria con un po’ di saggezza pratica, trasformerà il Bill of Rights costituzionale in un patto suicida”.

Consultazione

Un dibattito analogo si è svolto qualche mese fa in Australia, quando al Dipartimento della Giustizia è stato chiesto se potesse essere messo in commercio un videogioco della categoria R18+ (divieto per i minori di 18 anni).

Ancora non è stata emanata una decisione, ma a maggio il Governo ha pubblicato un rapporto sul materiale ricevuto dai cittadini e dalle organizzazioni. Vi sono stati 34 pareri avanzati dal mondo associazionistico, ecclesiastico e industriale. Di questi, 18 erano a favore della classificazione come R18+, mentre 16 erano contrari.

L’industria è favorevole alla categoria per adulti, perché ciò le consentirebbe di vendere i giochi che attualmente non sono ammessi in Australia. Nei pareri presentati, si è sostenuto che non esiste una dimostrazione scientifica definitiva che i media violenti provochino o inneschino comportamenti violenti. Si è anche affermato che non vi è prova del fatto che la violenza nei videogiochi sia più dannosa di quella nei film o in altri media.

Vari gruppi, espressione del mondo cristiano e delle famiglie, si sono detti contrari alla categoria dei videogiochi per adulti. Nel parere dell’Australian Christian Lobby si ricorda che esiste già una diffusa preoccupazione nella comunità sulla violenza presenta nei media.

Mantenere il divieto sui videogiochi non adatti ai minori è, a loro avviso, un approccio “fondato sulla considerazione, dettata dal buon senso e dalla ricerca, che la natura interattiva dei giochi computerizzati porta i contenuti ad avere maggiore incidenza sui giocatori, rispetto ad analoghe rappresentazioni di violenza o di sesso veicolate dai film”.

L’Australian Council on Children and the Media ha osservato che i materiali classificati R18+, presenti in strumenti portatili come i DVD e i videogiochi, comportano un rischio molto maggiore che i minori possano non essere protetti dalla loro esposizione; cosa che non accade con le proiezioni cinematografiche, in cui è più facile proteggere i bambini.

Mentre alcuni genitori possono ben essere informati dei rischi ed essere vigili sulla prevenzione nelle proprie case, inoltre, non tutti effettivamente lo sono, hanno affermato.

Non è un mondo ideale

La Chiesa cattolica ha invece assunto una posizione diversa sulla questione. Il parere presentato dalla Conferenza Episcopale Australiana ha affermato anzitutto che sarebbe preferibile che i materiali classificabili come R18+ non fossero proprio disponibili in Australia.

Tuttavia, dato che questi sono già presenti, ancorché illegalmente, sarebbe allora preferibile int rodurre la classificazione R18+ per questi videogiochi, così da poter restringerne l’accesso da parte dei minori.

I Vescovi cattolici hanno detto chiaramente di non approvare questi videogiochi. “In un mondo ideale, i contenuti dei film e giochi computerizzati classificati R18+ o superiori non esisterebbero in una civile democrazia”, hanno sostenuto.

Tuttavia, non vivendo in un mondo ideale, dobbiamo operare al meglio per gestire la situazione. Il divieto non è una misura utile, secondo il parere della Conferenza, poiché gran parte di questo materiale è disponibile su Internet o attraverso copie.

Come aveva osservato il giudice Jackson diversi decenni fa, i genitori hanno un legittimo interesse allo sviluppo etico e morale dei loro figli. Un compito che genitori e legislatori fanno fatica ad adempiere, in un contesto di rapidi sviluppi tecnologici dei media.

In cammino verso la parità

ROMA, sabato, 20 novembre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’intervento pronunciato da mons. Mariano Crociata, Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana, in occasione della presentazione, il 18 novembre a Roma, del XII Rapporto sulla scuola cattolica edito da La Scuola (Brescia).

* * *

 

La Sacra Scrittura anima della teologia

GERUSALEMME, sabato, 20 novembre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo integrale della prolusione pronunciata l’8 novembre da mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto, per l’inaugurazione dell’anno accademico 2010-2011 della Facoltà di Scienze Bibliche e Archeologiche dei Francescani a Gerusalemme.

* * *

Il rapporto fra teologia e Sacra Scrittura è così decisivo per il pensiero della fede, che non a caso il Novecento teologico conobbe presto un’appassionata polemica proprio riguardo ad esso: ne furono protagonisti il giovane Karl Barth – che aveva da poco pubblicato la seconda, radicalmente innovativa edizione del suo commento a La lettera ai Romani di Paolo (1922) – e il suo maestro berlinese, ultimo grande corifeo della teologia liberale, Adolf von Harnack. Questi aveva rivolto pubblicamente Quindici domande a quei teologi che disprezzano la teologia scientifica, indirizzandosi di fatto all’antico allievo. Barth aveva replicato con Quindici risposte al Professor von Harnack, che a sua volta gli rispose con una lettera aperta, cui seguirono un’ulteriore replica di Barth e un intervento conclusivo di Harnack[1]. Il Maestro berlinese rimproverara ai “detrattori della teologia scientifica fra i teologi” (“Verächter der wissenschaftliche Theologie unter den Theologen”) l’aver abdicato al metodo storico-critico, il solo in grado di evitare il rischio di confondere “un Cristo immaginario con quello reale”, oltre che di procurare alla teologia dignità e rispetto fra le scienze. Era convinzione del Professore di Berlino che chi trasforma “la cattedra teologica in pulpito”, compromette anche la continuità fra l’umano nei suoi gradi più elevati e il divino, aprendo la strada alla barbarie e all’ateismo. Una teologia dipendente dalla Scrittura sarebbe forse pure edificante, ma di certo poco scientifica e del tutto incapace di parlare a intelligenze libere e adulte.

Nelle sue risposte – non prive della veemenza del neofita – Barth punta l’indice contro quel mondo teologico “cui è diventato estraneo e inaudito il concetto di un oggetto normativo, davanti all’unica normativa del metodo”. Dove si riconosce correttamente il primato dell’Oggetto puro, della Parola divina nelle parole con cui si comunica agli uomini, lì ogni soggettivismo è fugato e la teologia si incontra al livello più alto e fecondo con la predicazione, perché entrambe si riconoscono al servizio della rivelazione di Dio. Arbitrio e soggettività si insinuano, al contrario, lì dove il primato è dato alle parole degli uomini piuttosto che all’auto-comunicazione divina. Ogni continuità fra al-di-qua e al-di-là va rifiutata: fra i due mondi ci sarà sempre “una relazione dialettica, che rimanda ad un’identità che non può essere compiuta, e perciò neanche affermata”. Il contingente resta solo un pallido rimando all’eterno: una teologia che non dipendesse dalla Parola di Dio non sarebbe neanche teologia. E poiché il Dio vivente sta e resta oltre ogni cattura umana, vera teologia sarà sempre luminosa tenebra, oscurità rischiarata dalla sola luce della fede, generata dalla Parola della rivelazione.

L’abisso fra i due teologi è quello fra due epoche: l’Ottocento liberale e borghese, ormai sulla via del tramonto, e la rampante “teologia dialettica” novecentesca, che Barth inaugura mettendosi in ascolto dell’apostolo Paolo nella lettera ai Romani. Rispetto all’appello finale di Harnack al suo interlocutore perché ammetta che “mentre suona il proprio strumento, Dio ne ha anche altri”, la posizione del giovane Teologo resta tranciante: “tutto è terribilmente relativo”, solo Dio merita ascolto e obbedienza. Qualche anno più tardi Barth ribadirà la medesima tesi nel suo importante saggio su Anselmo d’Aosta, interpretato come il testimone dell’assoluto primato di Dio sull’intelligenza indagante: “Una scienza della fede che negasse o mettesse in dubbio la fede… smetterebbe non soltanto ipso facto di essere credente, ma pure di essere scientifica. Le sue negazioni fin da principio non sarebbero affatto migliori di una disputa di pipistrelli e civette con le aquile sulla realtà dei raggi del sole a mezzogiorno”[2]. La teologia, insomma, sta o cade con l’ascolto obbediente della Parola di Dio, e perciò la questione del suo rapporto con la Sacra Scrittura è per essa veramente decisiva.

Se ne occuperà in tutta la sua rilevanza il Concilio Vaticano II: recependo i risultati del “ressourcement” biblico, patristico e liturgico dei decenni che lo avevano preceduto, il Concilio produce come frutto maturo la Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei Verbum. In essa, al n. 24 – nell’ambito del capitolo finale, dedicato a La Sacra Scrittura nella vita della Chiesa si afferma: “La sacra teologia si basa come su un fondamento perenne sulla parola di Dio scritta, inseparabile dalla sacra Tradizione; in essa vigorosamente si consolida e si ringiovanisce sempre, scrutando alla luce della fede ogni verità racchiusa nel mistero di Cristo. Le sacre Scritture contengono la parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente parola di Dio; sia dunque lo studio delle sacre pagine come l’anima della sacra teologia”[3]. La portata di questo testo è immediatamente percepibile se si pensa alla polemica nata a partire dalla Riforma contro l’aridità della teologia delle Scuole, che riduceva l’uso della Sacra Scrittura ai cosiddetti “dicta probantia”, asserviti al primato dell’argomentazione concettuale. Così, il giovane Lutero, nelle tesi 19 e 20 della Disputatio di Heidelberg (1518), non aveva esitato a contrapporre il vero teologo, che dipende totalmente dalla rivelazione contenuta nella Scrittura, al falso teologo, che specula in termini solo umani: “Non può dirsi veramente teologo chi scruta le profondità invisibili di Dio pensando di conoscerle attraverso ciò che è stato creato, ma solo chi di Dio conosce ciò che è si è reso visibile e rivolto a noi come di spalle attraverso la passione e la croce”[4].

Nel testo citato della Dei Verbum il Vaticano II afferma con chiarezza l’assoluto primato della Parola rivelata su ogni conoscenza della fede: come osservava già Joseph Ratzinger in un celebre commento al testo conciliare[5], se l’uso della metafora del “fondamento” mostra la solida continuità che il riferimento normativo alla Scrittura dà al pensiero della fede, il carattere statico di questa immagine è arricchito e dinamicizzato dai due verbi “roboratur” (”si consolida”) e “iuvenescit” (“si ringiovanisce”), che mostrano come la teologia non sia un edificio costruito una volta per sempre, ma richieda continuo impegno di approfondimento e di crescita sulla base del fondamento scritturistico. La terza immagine adoperata dal Concilio, poi, quella dello studio delle Scritture come “anima Sacrae Theologiae”, che il Decreto Optatam Totius dello stesso Vaticano espliciterà al n. 16[6], trae dalle premesse poste le conseguenze decisive di un metodo teologico dove non si muova dal presente per giustificare più o meno forzatamente tesi attuali ricorrendo al passato fontale, ma – esattamente al contrario – si parta dalla Bibbia, letta nel suo contesto, per lasciarsi provocare a nuove questioni e farsi illuminare sui percorsi appropriati per rispondervi, solo così cogliendo la vera ricchezza della Tradizione ecclesiale e dello sviluppo del dogma. Come si vede il testo di Dei Verbum 24 evoca una complessità di riflessioni ben più ampia di quella che la densa brevità delle espressioni usate potrebbe far pensare. È questa ricchezza che vorrei esplorare, evocandone la portata in alcuni punti essenziali. Raccoglierò quanto vorrei offrire alla riflessione comune e al dibattito critico in dieci tesi, dal carattere necessariamente evocativo e bisognoso di approfondimento.

1. “In principio erat Verbum” (Gv 1,1): il primato della Parola di Dio. Il presupposto necessario della conoscenza della fede è la Parola del Dio vivente, risuonata nella storia. La fede nasce dall’ascolto (cf. Rm 10,17), prestato all’auto-comunicazione divina, compiutasi in eventi e parole. Deus dixit – Dio ha parlato: sta qui l’inizio di ogni possibile assenso credente, come pure di ogni conoscenza riflessa dell’esperienza di fede, e perciò il “fondamento” di ogni teologia, quale intelligenza del suo contenuto noetico, teoria critica della prassi cristiana ed ecclesiale. L’obbedienza della fede alla rivelazione non è facile possesso, ma ascolto profondo (oboedientia da ob audio = yp-akoé), accoglienza di ciò che sta sotto e oltre (ob , ypó-) le parole dell’auto-comunicazione divina. Si obbedisce veramente alla Parola soltanto quando la si ascolta “oltre-passandola”, ascoltando, cioè, quanto sta al di là di essa e da cui essa proviene. Nella Chiesa delle origini questo al di là della Parola fu designato spesso col nome di Silenzio[7]: ricorrendo a questa terminologia, si potrebbe affermare che vera accoglienza della Parola è l’ascolto del Silenzio che la supera e da cui essa è originata. Credere è assentire al Verbo uscito dal divino Silenzio! Il Figlio rimanda al Padre, la Parola al Silenzio, il Rivelato nel nascondimento al Nascosto nella rivelazione. Se, dunque, “la sacra teologia si basa come su un fondamento perenne sulla parola di Dio scritta” (Dei Verbum 24), attingere a questa fonte è compito proprio e originario della conoscenza della fede, che dovrà scrutarne l’abissale profondità, rimanendo non di meno letteralmente “appesa” alla Parola di Dio ed insieme aperta al Silenzio da cui essa proviene ed a cui schiude. Così facendo la teologia “vigorosamente si consolida e ringiovanisce sempre”, scrutando “ogni verità racchiusa nel mistero di Cristo” (ib.). Obbedire alla Parola è per la conoscenza della fede un sempre nuovo entrare attraverso di essa negli abissi del divino Silenzio. Questo itinerario nel Silenzio, scrutato grazie alla Parola e in obbedienza ad essa, caratterizza la “cognitio fidei” tanto nel suo aspetto teologico, quanto in quello mistico. All’origine del pensiero della fede sta sempre la Parola, che Dio ha rivolto agli uomini come ad amici! Anche così, “in principio erat Verbum”!

2. La dialettica della rivelazione: in ascolto della Parola e del Silenzio di Dio. Il doppio significato della parola “re velatio” emerge qui in tutta la sua densità: nel togliere il velo (“re-velare”, dove il “re-” dice l’abolizione) c’è un infittirsi del medesimo velo (“re-velare”, dove il “re-” dice la ripetizione dell’atto); nel rivelarsi un ostendersi e un velarsi. L’ascolto credente raggiunge il Rivelato per andare grazie ad esso e attraverso di esso verso il Nascosto: l’ypakoé, l’obbedienza della fede, tende a ciò che sta al di là della Parola (ypό = sotto, oltre, dietro); l’“oboedientia” è ascolto proteso all’al di là del versetto (ob = verso, indicativo del moto a luogo, oltre che dello scopo, del fine ultimo). La Parola è la mediazione, il Silenzio è la profondità nascosta al di là di essa, la meta ultima dell’obbedienza della fede prestata al Verbo. Senza la Parola non si darebbe accesso al Silenzio; senza il Silenzio la Parola non rinvierebbe a un altro mondo e a un’altra patria, e tutto sarebbe risolto nello svelamento pienamente compiuto. Solo in quanto rinvia all’eterno Silenzio la Parola esige l’obbedienza della fede; solo comunicandosi nella Parola l’al di là del detto si fa accessibile e provoca la risposta dell’intenzionalità credente, come apertura del cuore verso le insondabili profondità di Dio. In questo senso si comprende come le parole scritte della “revelatio Dei” possano contenere la Parola eterna rivolta agli uomini per la salvezza di chiunque creda: “Le sacre Scritture contengono la parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente parola di Dio” (Dei Verbum 24). L’ispirazione è la provenienza dall’eterno Silenzio della Parola, detta nelle parole della rivelazione. Proprio così queste parole sono “norma normans” di ogni conoscenza della fede, che sarà sempre “norma normata” dal Verbo venuto dal divino Silenzio ad abitare le parole della rivelazione: si comprende allora l’esortazione del Vaticano II, per cui “lo studio delle sacre pagine” deve essere “come l’anima della sacra teologia” (Dei Verbum 24), chiamata a percorrere incessantemente la dialettica della Parola e del Silenzio, propria dell’auto-comunicarsi del Dio vivo, obbedendo così tanto al contenuto, quanto alla forma della rivelazione.

3. La triplice via della conoscenza teologica “sub Verbo Dei”. Il rapporto fra la Parola della rivelazione e l’al di là di essa, sua origine e destino, è dunque decisivo per l’intelligenza della fede, che è la teologia: come concepirlo? La forma in cui pensarlo deve tener conto della continuità ed insieme della differenza fra i due termini da correlare, la Parola e il Silenzio: dove non si affermasse la continuità, il Silenzio resterebbe inaccessibile e la Parola vuota; dove non si tenesse conto della differenza il Silenzio sarebbe risolto nella Parola. Occorre, pertanto, che il modo di pensare il rapporto neghi ed affermi nello stesso tempo, ed insieme neghi ed affermi la negazione e l’affermazione ad un più alto livello. È la triplice via del pensiero della fede in ascolto della rivelazione, divenuta classica a partire da Dionigi l’Areopagita: via negationis, via affirmationis, via eminentiae[8]. Se la prima via attraverso la negazione intende affermare la differenza, la seconda attraverso l’affermazione intende evidenziare la continuità: la terza via rappresenta un superamento delle prime due, perché congiunge i poli nell’indissolubile continuità e nell’irriducibile distinzione del rapporto di causalità e di proporzione. La teologia, in quanto esercizio consapevole della triplice via che muove dalla Parola verso l’abissale Silenzio della sua ulteriorità e della sua provenienza, dice tacendo e tace affermando: è perché Dio si è rivelato velandosi, che il teologo osa parlare del Suo Silenzio; è perché c’è la Parola, che è possibile accedere con cautela e modestia al silenzioso Inizio. Già queste idee liberano la teologia da ogni presunzione razionalistica e “logocentrica” e mostrano la necessità del suo radicamento nella contemplazione orante della Parola rivelata. Lungi dall’essere esercizio di dominio e di forzatura sulle “sacre pagine”, la teologia sarà tanto più fedele al suo compito quanto più si porrà in ascolto di esse e della divina profondità che vi è celata. Una teologia dalla Scrittura Sacra è per sua natura “teo-logica”, “mistica” e “spirituale”, in quanto si lascia “toccare” dall’auto-comunicazione della Trinità Santa ed in particolare dall’azione dello Spirito che introduce alla verità tutta intera, trascendendo ogni umana cattura.

4. La “via negationis”: dalla Parola al Silenzio. Il rapporto fra la Parola, che abita le parole della rivelazione, e il Silenzio, cui essa rimanda, è percorso anzitutto dalla via negativa: il Silenzio, cui la Parola schiude, si offre come la Non Parola, la differenza rispetto a ciò che specifica il Verbo in quanto tale. Come la Parola ha il carattere di “venuta” e quindi di prossimità immediata al nostro mondo, di dicibilità nell’orizzonte del nostro linguaggio e perciò di comunicazione che rende possibile agli uomini di divenire “figli nel Figlio”, così il Silenzio al di là del Verbo ha il carattere di “pro venienza” nascosta, di profondità lontana, eppur congiunta, di tenebra irriducibile, presente in ogni comunicazione della luce divina. È qui che
si comprende la preferenza che il linguaggio della fede ha spesso dato ai termini “apofatici” per parlare di Dio, quasi ad evocare l’ulteriorità irriducibile del Dio che viene nelle Sue parole. Questo linguaggio negativo ha radice già nel Nuovo Testamento, dove rispetto al Figlio, che si è fatto visibile, il Padre è qualificato come il Dio invisibile: “Egli è immagine del Dio invisibile” (Col 1,15). Se la Parola è presenza e comunicazione dell’infinito e dell’eterno nelle coordinate dello spazio e del tempo, il Silenzio è tenebra, l’invisibile al di là del visibile, da cui l’immagine viene ed a cui rimanda. La via negativa della teologia conduce così alla tenebra intesa sia come assenza, sia come eccesso di luce[9]. La negazione, cioè, afferma la distinzione fra i termini a partire da quello che si è reso accessibile a noi: con ciò essa non svuota la consistenza dell’Altro, ma vi si approssima con la cautela e la modestia di un superamento della Parola vissuto in obbedienza alla Parola stessa: “Chi vede me, vede il Padre” (Gv 14,9; cf. 12,45). Il negare appare così come un più alto affermare: la via negativa si rivela complementare a quella positiva. Il Silenzio non si sposa al mutismo del non dire, ma al tacere eloquente del celebrare, all’adorante stare nell’apertura verso la Trascendenza. Il tacere responsabile di ciò di cui si è consapevoli di non poter parlare è già un affermare silenzioso e raccolto, un rinvio, nutrito di meraviglia, al Mistero santo. La teologia dalla Scrittura sa di dire tacendo e di tacere dicendo: essa evoca, non cattura; schiude, non imprigiona; si avvicina al “fuoco divorante” che non si consuma, senza pretendere di appropriarsene. Proprio così, la teologia “sub Verbo Dei” risulta libera da ogni pretesa assoluta e motiva l’attitudine critica della fede pensata nei confronti di ogni razionalità che voglia essere totalizzante e quindi di ogni cattura ideologica. La teologia nutrita di Scrittura è anti-ideologia: essa alimenta la resistenza critica ad ogni forma di totalitarismo prodotto dalle pretese ideologiche.

5. La “via affirmationis”: le parole del divino Silenzio. Se la via negativa della teologia si eleva verso l’al di là del versetto per negazione, la via positiva procede verso il Silenzio elevando al massimo grado le perfezioni della Parola: essa afferma la continuità nella distinzione, l’indissolubile unità della Parola e della sua Origine eterna. Suo fondamento è la certezza che l’insondabile profondità del Silenzio al di là del Rivelato si è resa accessibile, sia pur se nel nascondimento: “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18). Il Figlio eterno rimanda all’eterno Padre, il divino Generato al divino Generante, Dio al Dio, la Luce alla Luce. Il Silenzio oltre la Parola della rivelazione è l’eterno Silenzio, il divino Silenzio, la Persona divina consostanziale al Figlio. La Parola fatta carne rimanda al Dio presso cui sta da sempre (cf. Gv 1,1). Il Silenzio al di là del Verbo è divino e rivelatore, pur rimanendo nascosto come silente Inizio. Come qualifica la “via affirmationis” questo divino Silenzio? Partendo dalla consegna del Figlio per amore nostro (cf. Gal 2,20 e Rm 8,32), è la perfezione dell’amore a caratterizzare Colui che pronuncia la Parola nell’eterno e la invia nel tempo (cf. 1 Gv 4,8s). Perciò, la conoscenza di questo Dio nascosto, che si rivela nel gesto del supremo amore che è la consegna del Figlio, si compie nell’amore: “Chi non ama non ha conosciuto Dio, perchè Dio è amore… Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell’amore, dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1 Gv 4,8.16). La continuità fra Parola e Silenzio, affermata dalla via positiva, è dunque tutt’altro che estrinseca: essa è necessaria della libera necessità dell’amore. La via positiva eleva dalle parole della Scrittura alla Parola detta per purissimo dono, e da essa al Silenzio del gratuito inizio dell’amore, alla sorgiva pienezza che si irradia per gratuità assoluta. La “via affirmationis” sfocia allora nella constatazione del primato dell’avvento divino: l’ascendere umano è frutto del divino discendere; la fede accoglie la Parola ed in essa ascolta il Silenzio, perché il Silenzio si è detto nella Parola, pur restando in essa celato. Mentre la via negativa mostra l’inesorabile incompiutezza di ogni esodo umano che sfocia nella tenebra al di là di ogni luce e nel silenzio al di là di ogni parola, la via affermativa mostra l’infinita benignità dell’Amore, che gratuitamente si offre come sorgente della luce al di là di ogni tenebra e fonte della parola al di là di ogni silenzio, come pura e sorgiva auto-comunicazione divina, che supera l’abisso e raggiunge la notte e il silenzio del mondo come Tenebra luminosa e Inizio di ogni vita. La conoscenza della fede, nutrita dalla Parola “trasgredita” lungo i sentieri del Silenzio in continuità obbediente con essa, mostra qui tutta la sua carica “performativa”: chi conosce la divina Bellezza nell’umile suo offrirsi nel frammento è da questa Bellezza redento e trasfigurato. La teologia così intesa si offre come cammino di santità e servizio di santificazione per l’intero popolo di Dio.

6. La “via eminentiae”: nel Silenzio di Dio. È la via dialettica a riassumere e superare le altre due, perché riconosce fra la Parola e il Silenzio un rapporto che è insieme di continuità e di distinzione, una sorta di “eminenza” del Silenzio sulla Parola, in quanto Origine e Destino, e della Parola sul Silenzio, in quanto Verbo della comunicazione e della partecipazione della vita divina agli uomini. La continuità fra il Generante e il Generato mostra la reciproca immanenza della Parola e del Silenzio: “Io sono nel Padre e il Padre è in me” (Gv 14,11). La Parola dimora nel Silenzio: essa rinvia alla sua origine e alla sua patria, domandando di essere continuamente trascesa nella direzione delle insondabili profondità di Dio, da cui proviene e da cui è avvolta. Perciò accogliere la Parola significa ascoltare il Silenzio in cui essa dimora e dal quale è eternamente generata. Ma anche il Silenzio dimora nella Parola: il Verbo non è solo avvolto dal Silenzio, ma lo porta anche in sé. La Parola presenta le stigmate del Silenzio! Anche per questo c’è un ineliminabile nascondimento nella rivelazione, di cui sono segno supremo l’oscurità e il silenzio della Croce, l’abbandono del Figlio, in cui l’agonia e la morte della Parola si uniscono all’inaudito silenzio di Dio: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34). Il Cristo abbandonato è la Parola fatta silenzio, il luogo in cui nell’infinita lontananza si rivela l’infinita comunione del Verbo col Silenzio divino, il Suo farsi uno col Padre nell’obbedienza di amore. Paradossalmente, perciò, proprio il silenzio di Dio, sperimentato nel dolore senza misura dell’abbandono, rivela la comunione del Padre col Figlio, fattosi silenzio nella morte per amore nostro. L’unità, tuttavia, non elimina la distinzione: il Silenzio dell’origine resta altro rispetto al Verbo pronunciato nell’eternità e mandato nella storia; la Parola non è il Silenzio. La distinzione sta proprio nel loro relazionarsi: senza la sua provenienza eterna la Parola si ridurrebbe ad evento del tempo e non sarebbe avvento dell’Eterno; senza la sua venuta nel Verbo il Silenzio resterebbe muto e inaccessibile. Il Verbo sta dunque fra due Silenzi, quello dell’Origine e quello della Destinazione, il Padre e lo Spirito Santo, gli “altissima Silentia Dei”. La rivelazione è l’avvento della Parola, che procede dal Silenzio e porta in sé il Silenzio, ad esso schiudendo: presenza, che rinvia all’assenza, e assenza che dà profondità e spessore eterno alla presenza. L’obbedienza della fede alla Parola si apre così sui sentieri inesauribili del divino Sil
enzio, ai quali conduce solo Colui che dal Silenzio procede, “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6)[10]. La teologia come teoria critica della Parola rivelata apre in tal modo la ragione umana di cui si serve al Mistero divino che l’avvolge: lungi dall’escludersi reciprocamente o dal confondersi, fede e ragione mostrano la loro complementarità dialettica precisamente nell’esercizio della conoscenza della fede, obbediente alla rivelazione divina. Appesa alla Parola, obbediente ad essa, in ascolto del divino Silenzio, la teologia non è alternativa all’interrogazione della ragione, ma – stimolata da essa – la apre ai sentieri abissali del Mistero, silenzioso e raccolto, davanti a cui sta appunto – aperto e interrogativo – lo “stupore della ragione” (F. Schelling).

7. Ecclesia creatura Verbi: la Parola nella Chiesa. L’ascolto della Parola e del Silenzio di Dio, cui apre la dialettica della rivelazione e l’accoglienza delle fede, non si compie nella solitudine dell’io, ma nella comunione del noi, nell’unità della Chiesa suscitata dalla Parola e continuamente vivificata dallo Spirito: la Chiesa è la casa della Parola, la comunità della sua trasmissione e della sua interpretazione, promossa e garantita dalla guida dei pastori, a cui Dio ha voluto affidare il Suo popolo. La lettura fedele della Scrittura, perciò, non è opera di navigatori solitari, ma va vissuta nella barca di Pietro: accompagnato dalla Chiesa Madre, nessun battezzato deve sentirsi indifferente alla Parola di Dio; ascoltarla, annunciarla, lasciarsene illuminare per illuminare gli altri è compito che riguarda tutti, ciascuno secondo il dono ricevuto e la responsabilità che gli è affidata. Tutti nel popolo di Dio sono chiamati ad essere Chiesa generata dalla Parola – “Ecclesia creatura Verbi” – e Chiesa che annuncia la Parola – “Ecclesia ancilla Verbi”! Colui che attualizzerà la presenza salvifica del Signore Gesù, garantendo attraverso il ministero apostolico della predicazione e la testimonianza dell’intero popolo di Dio la fedele trasmissione ed esegesi della Parola, sarà lo Spirito Santo, memoria potente del Signore, che abilita i discepoli alla testimonianza: “Quando verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future” (Gv 16,13). Questa permanente attualizzazione del Cristo Gesù nel suo popolo, operata dallo Spirito Santo specialmente attraverso il ministero e l’accoglienza della Parola di Dio, è ciò che in senso teologico si definisce “Tradizione”: essa non è la semplice trasmissione materiale di quanto fu donato all’inizio agli Apostoli, ma la presenza attiva del principio fontale – il Signore Gesù, datore di Spirito Santo – all’intera storia della comunità da lui radunata. La Tradizione è la comunione dello Spirito Santo nella sua dimensione temporale, la continuità da lui stabilita fra l’esperienza della fede apostolica, vissuta nell’originaria comunità dei discepoli, e l’esperienza attuale del Cristo proclamato nella Chiesa: si potrebbe dire che la Tradizione è la “storia” dello Spirito nella storia della sua Chiesa. In questo senso, la Chiesa non esiste né mai esisterà senza la Parola di Dio, ma a sua volta la Parola non ci raggiungerà mai veramente senza la Chiesa: “Scriptura sola, numquam sola” (Paul Althaus) – la Scrittura nella sua sovrana autorità di Parola fontale e normativa non vivrà mai da sola, ma nella Chiesa e per la Chiesa. E la Chiesa – creatura della Parola – vivrà a sua volta di essa e al suo servizio. Proprio per questo, il testo di Dei Verbum 24,dopo aver affermato che “la sacra teologia si basa come su un fondamento perenne sulla parola di Dio scritta, inseparabile dalla sacra Tradizione”, aggiunge: “Anche il ministero della parola, cioè la predicazione pastorale, la catechesi e ogni tipo di istruzione cristiana, nella quale l’omelia liturgica deve avere un posto privilegiato, trova in questa stessa parola della Scrittura un sano nutrimento e un santo vigore”. Proviamo a capire come.

8. “Contemplata aliis tradere”: l’ascolto che fruttifica. Il termine ultimo dell’accoglienza della Parola rivelata non è – come si è visto – la Parola stessa, ma attraverso di essa la Persona del Padre, il Dio nascosto nel silenzio, resosi accessibile nell’incarnazione del Figlio. È per questo che l’accoglienza della Parola è dinamismo, che deve continuamente trascendersi: se è ascolto del Silenzio, da cui la Parola procede, in cui riposa ed a cui rinvia, l’insondabile profondità di questo divino Silenzio motiva l’inesauribile ricerca che attraverso il Verbo tende ad andare al di là del Verbo. È su questa via che lo Spirito guida i credenti alla verità tutta intera (cf. Gv 16,13), attualizzando la memoria del Cristo ed insegnando ogni cosa: “Il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14,26). L’accoglienza della Parola, in quanto ascolto del divino Silenzio in essa nascosto, ha come primo frutto l’uscita da sé verso le profondità di Dio, l’esperienza contemplativa del mistero divino. È come se l’amore “estatico” di Dio, per il quale Egli esce dal silenzio e si comunica nella Parola, susciti un amore di risposta, parimenti “estatico”, bisognoso di uscire dal chiuso del proprio mondo, per immergersi nei sentieri senza fine del Silenzio, cui conduce l’evento di rivelazione. È perciò che ascoltare il Silenzio è permanere nel santuario dell’adorazione, lasciandosi amare dal Dio silenzioso ed attrarre a Lui attraverso l’insostituibile e necessaria mediazione del Verbo: “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14,6b). “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato” (Gv 6,44). La comunicazione della Parola di vita, contenuta nelle “sacre pagine”, avviene dunque sotto l’azione dello Spirito e nel dinamismo del suo dono: essa obbedisce alla regola del “contemplata aliis tradere”, dell’agire come frutto di contemplazione amorosa dell’auto-comunicarsi divino. Si comprende qui la profonda corrispondenza fra il metodo della “lectio divina”, così come è attestato nella tradizione spirituale, e la struttura dialettico-trinitaria dell’auto-comunicazione divina: se la “lectio” propriamente detta scandaglia il senso letterale, e dunque le parole in cui la rivelazione si trasmette, la “meditatio” va dalle parole alla Parola che Dio indirizza ai suoi, mentre l’“oratio” muove dalla Parola del Figlio al divino Silenzio del Padre, nella azione incessante dello Spirito che grida “Abba”, invocazione del Figlio tesa verso il Silenzio del Padre, fino a “nascondersi” con Lui in Dio (Col 3,3). La “contemplatio”, infine, è l’atto col quale l’orante si lascia restituire dal Dio vivo alle scelte e ai gesti della storia in cui è chiamato a realizzare la propria vocazione e missione. Così la Parola nutre la fede, la teologia e la vita dei credenti e li rinvigorisce nella comunione della Chiesa Madre.

9. La Parola rende liberi: il ruolo della “decisione”. La libera “auto destinazione” di Dio per l’uomo nel dono della rivelazione non forza mai, però, l’accoglienza della creatura: il segno di credibilità non è mai costrizione alla fede. La Parola di Dio perciò è veramente accolta solo quando l’apertura “implicita” della creatura al Mistero si fa “esplicita” consegna all’Eterno: è qui che si coglie un aspetto decisivo per l’efficacia della predicazione e dell’ascolto, la decisione della libertà che passa all’assenso, senza il quale non potrà compiersi l’incontro fra l’esodo umano e l’avvento di Dio. Se all’iniziativa divina non corrisponde una consapevole e responsabile “auto destinazione” dell’uomo per il Dio che si rivela, la gratuita “auto destinazione” di Dio per l’uomo cui
si rivela resta luce non accolta dalle tenebre, parola cui risponde il silenzio dell’indifferenza o del rifiuto e si fa pietra di scandalo, duro ceppo di condanna. L’ascolto conduce sulla soglia del Mistero, ma è solo con l’audacia della libertà che ci si affida ad esso, per sperimentarne le meraviglie. È qui che, nell’accoglienza della Parola si inseriscono “la grazia di Dio che previene e soccorre e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente, e dia a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità” (Dei Verbum 5). Si realizza così una convergenza di motivi esterni e di aiuti interiori, che rendono la Parola di rivelazione accessibile all’accoglienza della libertà umana, senza togliere ad essa il rischio e l’audacia, perché non manchi la gratuità della risposta. La “donazione” di Dio nella Sua Parola richiede, insomma, che le corrisponda   in una forma sia pur solo analogica e del tutto asimmetrica, e tuttavia piena e vera   la “donazione” del cuore dell’uomo all’Eterno. Attraverso la Parola entrata nella storia la creatura umana si schiude al Mistero, verso il quale sospinge l’originaria “destinazione” degli esseri, e ne sperimenta l’inesauribile profondità e bellezza. Accogliere la Parola è “ripeterla” in se stessi, lasciandosi condurre dall’auto donazione di Dio al dono di sé, che è “dire” e “fare” la Parola del Signore: “Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi. Perché, se uno ascolta soltanto e non mette in pratica la parola, somiglia a un uomo che osserva il proprio volto allo specchio: appena s’è osservato, se ne va, e subito dimentica com’era” (Gc 1,22 24). La “decisione” per il Dio che viene è momento decisivo perché il “ministerium Verbi” dia frutto nella vita personale e nelle relazioni con gli altri. Frutto dell’ascolto è la pratica della vita, il vissuto della fede e della carità: l’uditore della Parola che non l’accolga nel sincero dono di sé, resta prigioniero del proprio mondo, chiuso nell’esodo in cui si rispecchia, non aperto alla novità dell’avvento, che sola compie il miracolo del nuovo inizio della vita e del mondo. “Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la felicità nel praticarla” (Gc 1,25). L’accoglienza operosa della Parola trasforma l’uomo nel profondo, lo libera nella forza della verità, lo fa discepolo del Signore: “Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli, conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8,31s.). La riflessione critica sulla Parola, che è la teologia, non realizza il suo compito se non apre all’agire della vita nuova nella carità: solo accogliendo la Parola nella verità della donazione di sé a Dio e agli uomini, il discepolo si lascia “dire” dal Padre nel Figlio come vivente parola della carità divina rivolta all’umile concretezza delle situazioni della storia.

10. La conoscenza della fede come “cognitio vespertina”. L’accoglienza della Parola prepara e anticipa così nel tempo penultimo l’ultimo tempo, quando le parole scompariranno, accolte nell’unica Parola, abbracciata dal Silenzio della Patria, dove risuonerà infine il cantico nuovo dei redenti dal sangue dell’Agnello: la conoscenza della fede, alimentata da una autentica teologia dalla Scrittura, è e resta “cognitio vespertina”, conoscenza nella penombra della sera e nella provvisorietà del tempo che passa. La “cognitio matutina” apparterrà a un altro tempo e a un’altra patria, quella che non passerà mai. Verso di essa tende come caparra e anticipazione la teologia nutrita dalla Parola venuta nelle parole. Lo esprime bene questo testo di un grande testimone del Novecento teologico, che non poco ispirò il Concilio Vaticano II, Karl Rahner: “Allora Tu sarai l’ultima parola, l’unica che rimane e non si dimentica mai. Allora, quando nella morte tutto tacerà e io avrò finito di imparare e di soffrire, comincerà il grande silenzio, entro il quale risuonerai Tu solo, Verbo di eternità in eternità. Allora saranno ammutolite tutte le parole umane; essere e sapere, conoscere e sperimentare saranno divenuti la stessa cosa. Conoscerò come sono conosciuto, intuirò quanto Tu mi avrai già detto da sempre: Te stesso. Nessuna parola umana e nessun concetto starà tra me e Te. Tu stesso sarai l’unica parola di giubilo dell’amore e della vita, che ricolma tutti gli spazi dell’anima”[11]. La riflessione nutrita dall’ascolto della Parola e del Silenzio di Dio ha come ultimo frutto la tensione propria della speranza, quell’anticipazione dell’“éschaton” nel cuore e nella vita degli uomini che rende il credente testimone del senso della vita e del tempo. La parola della fede obbediente alla Parola della rivelazione è in tal senso profezia e la condizione del teologo – nutrita dall’ascolto della rivelazione – è anche e propriamente quella del testimone del futuro di Dio, colto come orizzonte ultimo di attesa per la vita e per la storia degli uomini. Proprio così, come fa capire un altro, straordinario maestro della fede pensata, Sant’Agostino, la teologia dalla Parola di Dio è al tempo stesso scuola di umiltà ed esercizio di speranza, cammino consapevole e libero dalle parole verso la Parola e per essa e con essa verso l’ultimo Silenzio di Dio: “Quando dunque arriveremo alla Tua presenza, cesseranno queste molte parole, che diciamo senza giungere a Te; Tu resterai, solo, tutto in tutti, e senza fine diremo una sola parola, lodandoTi in un unico slancio, divenuti anche noi una sola cosa in Te”[12]. La teologia fondata sulla Sacra Scrittura si protende al suo ultimo orizzonte ed alla patria della promessa di Dio, quando il “logos” umano costruito in obbedienza al “Logos” divino pronunciato nella storia si tradurrà per sempre nell’“hymnos” della lode e della gioia rivolto senza fine all’Agnello immolato e risorto per noi.