Dieci anni orsono veniva approvata la legge 10 marzo 2000, n. 62, intesa a dare attuazione – dopo oltre mezzo secolo – al dettato costituzionale sulla parità scolastica.
Siamo grati al Centro Studi per la Scuola Cattolica, che ha opportunamente dedicato il suo Rapporto annuale a questo tema, offrendoci spunti e documentazione per una riflessione ampia e approfondita.
Il cammino verso la parità è stato lungo e contrastato, e tanta strada resta ancora da percorrere perché le enunciazioni di principio si esprimano adeguatamente nella prassi.
Infatti il principio della libertà di scelta educativa, che solo in un sistema integrato di scuole statali e paritarie può trovare piena realizzazione, fatica ancora ad affermarsi. Si avverte spesso la mancanza di una cultura della parità, intesa come la possibilità di offrire alle famiglie una effettiva possibilità di scelta tra scuole di diversa impostazione ideale, sebbene accomunate dall’identica finalità di rispondere alla domanda sociale di istruzione e di formazione. La cultura della parità è il fattore costitutivo di un concetto di educazione fondato sulla corresponsabilità di tutti gli attori del processo educativo, a partire da coloro che ne detengono il diritto primario, cioè gli educandi e i loro genitori.
Si tratta di un valore che non interessa solo la scuola cattolica, come dimostrano i dati raccolti nel Rapporto del Centro Studi. Anche se talvolta l’opinione pubblica è indotta a confondere il tutto con la parte, riconducendo la rivendicazione della parità a un affare della Chiesa, in realtà la parità scolastica interessa l’intera collettività. È patrimonio di tutti i cittadini, perché il diritto a una educazione libera appartiene a ogni persona, indipendentemente dalle sue appartenenze religiose o dai suoi orientamenti culturali. La libertà di educazione non è una prerogativa confessionale, né il diritto di un gruppo sociale, ma è una libertà fondamentale di tutti e di ciascuno.
1. Le ragioni del fondamentale diritto alla libertà di educazione
Le ragioni che possono essere addotte a sostegno della libertà di educazione sono molteplici. Intesa come libertà di scelta della scuola da frequentare, la libertà di educazione si fonda sul diritto di ogni persona a educarsi e a essere educata secondo le proprie convinzioni, e sul correlativo diritto dei genitori di decidere dell’educazione e del genere d’istruzione da dare ai figli minori.
È scritto giustamente nel Rapporto che: «La libertà è […] l’espressione della coscienza che dà voce alla parte più intima e profonda della nostra vita, a ciò che l’“io” è in se stesso, per esso e per sé solo. Riconoscere la libertà dell’uomo è la condizione necessaria dell’agire educativo. In mancanza di tale riconoscimento, vengono meno non solo le fondamentali premesse antropologiche della pedagogia, ma si nega anche il principio della libertà di educazione»[1].
La libertà effettiva di educazione, come libertà di scelta della scuola da frequentare in base ai propri convincimenti personali, è anche sancita a livello internazionale da testi che godono di un consenso generalizzato. A titolo esemplificativo si può ricordare che la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, all’art. 26, afferma sia il diritto all’educazione di ogni persona come diritto al pieno sviluppo della personalità umana, sia il diritto prioritario dei genitori nella scelta del genere d’istruzione da impartire ai loro figli. A sua volta, la risoluzione del Parlamento Europeo del 14 marzo 1984 stabilisce l’obbligo per gli Stati membri di rendere effettivo l’esercizio della libertà di educazione anche a livello finanziario, assicurando alle scuole non statali i sussidi necessari allo svolgimento dei loro compiti e al loro adempimento in condizioni uguali a quelle degli istituti pubblici, senza discriminazioni.
La dimensione pedagogica della libertà di educazione trova un fondamento adeguato nel modello dell’apprendimento per tutta la vita. In proposito vanno ricordati almeno due principi, e cioè che l’educando occupa il centro del sistema formativo e che l’autoformazione è la strategia principe del suo apprendimento. Da ciò consegue che a ogni persona va assicurato il diritto a educarsi scegliendo liberamente il proprio percorso tra una molteplicità di vie, strutture, contenuti, metodi e tempi. Inoltre, l’apprendimento è un compito talmente ampio e complesso che la società non può affidarlo a una sola agenzia educativa – la scuola – o a una sola istituzione – lo Stato. Accanto allo Stato, le comunità locali e i corpi intermedi devono assumere e realizzare la responsabilità educativa che loro compete.
Due sono stati i capisaldi su cui si è fatto leva in questi anni per chiarire i fondamenti della nostra posizione, in piena continuità con gli insegnamenti della dichiarazione conciliare Gravissimum educationis: anzitutto, il principio dell’educazione come compito originario della famiglia, che deve godere dell’opportunità reale di formare i propri figli in base alla concezione della vita e del mondo che considera vera. Ciò fonda il diritto della famiglia alla libertà di scelta educativa nel contesto di una relazione positiva tra Stato e società civile. Affinché l’esercizio di questa libertà sia reso effettivo, è richiesta una piena attuazione della parità scolastica, poiché l’educazione deve potersi realizzare non solo nelle scuole dello Stato ma anche in quelle istituite da altri soggetti.
L’altro principio è il diritto di libertà religiosa, che non ha solo una dimensione individuale, riguardante la singola persona, ma anche una valenza sociale e pubblica, che deve essere anch’essa garantita da parte dello Stato. I fedeli laici che come cittadini realizzano attività ispirate alla prospettiva religiosa e trascendente della vita, comprese le attività scolastiche, forniscono un apporto prezioso al bene comune. Una concezione antropologica aperta al trascendente non è in contraddizione con la laicità dello Stato. Una scuola che mira nel suo progetto educativo a educare gli studenti a un umanesimo aperto e rispettoso della vocazione trascendente della persona, contribuisce in maniera importante allo sviluppo del bene comune della società. Il passaggio dallo Stato gestore allo Stato garante-promotore è espressione di quella cultura della sussidiarietà che appare ormai sempre più condivisa.
Questi importanti sviluppi implicano l’abbandono dell’alternativa rigida Stato/mercato, pubblico/privato e il riconoscimento delle dinamiche sociali che evidenziano la presenza di una terza dimensione, cioè quella del terzo settore o privato sociale. Esso si definisce come il complesso delle attività di produzione di beni e servizi, create dall’iniziativa dei privati e condotte senza scopo di lucro, ma con finalità di servizio sociale. Nei suoi confronti il potere statale non può limitarsi ad ammetterne il contributo nell’ambito dei servizi sociali, ma deve perseguire una politica di concreta promozione.
Il riconoscimento effettivo della libertà di educazione non solo assicura l’attuazione di un diritto della persona, ma contribuisce positivamente a un più efficace ed efficiente funzionamento del sistema educativo. Come è stato osservato correttamente nel Rapporto, tale libertà «attiva i dinamismi organizzativi e funzionali [del sistema educativo]; ne stimola i processi di ricerca, innovazione e sperimentazione; innalza gli standard di qualità dei servizi erogati; offre un ventaglio di scelte più ampio e personalizzato rispetto ai bisogni dei singoli; induce, per le classiche regole dell’economia, ad una riduzione dei costi a fronte di risultati eguali se non addirittura migliori; offre effettivamente a tutti, senza alcuna preclusione di tipo economico, sociale, ideologico, etnico e religioso, la possibilità di accedere alla scuola più gradita e
conforme alle proprie aspirazioni; è più garantista dei diritti di ciascuno, compreso quello di un servizio di qualità»[2].
In Italia la presenza delle scuole paritarie fa risparmiare ogni anno allo Stato cinque miliardi e mezzo di euro a fronte di un contributo dell’amministrazione pubblica di poco più di cinquecento milioni.
Vale la pena ricordare che in Europa la libertà effettiva di educazione costituisce sostanzialmente la regola comune. Infatti, nella grande maggioranza dei Paesi europei l’insegnamento privato è sovvenzionato e funziona rispettando più o meno le stesse condizioni dell’insegnamento statale.
2. Un diritto che attende ancora piena attuazione
Dopo l’entrata in vigore della nostra Carta costituzionale, per lungo tempo è prevalsa un’organizzazione dell’istruzione di impianto statalistico e la parità scolastica è rimasta lettera morta, anche in conseguenza di una lettura restrittiva dell’art. 33 della Costituzione.
L’approvazione della legge sulla parità è stata preparata, alla fine degli Anni ’90, dall’introduzione dell’autonomia scolastica. Tale riforma ha permesso di superare una concezione del sistema pubblico di istruzione come sistema statale di natura verticale, in quanto implica l’adozione di un modello orizzontale di organizzazione, composto da istituzioni scolastiche collegate in rete che realizzano obiettivi di istruzione, formazione e ricerca in base a parametri di qualità definiti da un centro, impegnato in funzioni strategiche e liberato dalla gestione, mentre la valutazione del perseguimento delle finalità è affidata a un sistema indipendente. In questo contesto, una porzione notevole delle decisioni gestionali passa dallo Stato alle regioni, agli enti locali e alle scuole stesse.
L’idea che il sistema nazionale di istruzione non si identifichi con la scuola statale rovescia l’ottica tradizionale: la natura pubblica di una scuola non deriva più dalla caratterizzazione giuridica dell’ente gestore (statale o privato), ma dal tipo di servizio che esso fornisce. La scuola paritaria entra così a far parte del sistema nazionale su un piede di uguaglianza effettiva, perché viene riconosciuta a tutti gli effetti come parte del servizio pubblico. Da ciò deriva che il sistema nazionale pubblico non può considerarsi tale se mancano le scuole paritarie, perché a queste va attribuito un valore costitutivo e non solo di completamento del sistema.
Non mancano tuttavia gli aspetti problematici, che riguardano soprattutto l’applicazione concreta della legge n. 62/2000. Va rilevata in primo luogo la realizzazione del tutto inadeguata della libertà di educazione della famiglia: sono stati stabiliti interventi a favore dei genitori, degli studenti e delle scuole, ma non si tratta ancora di una parità piena, quale delineata dal comma 4 dell’art. 33 della Costituzione. In particolare, non è garantita l’attuazione del diritto costituzionale di uguale trattamento degli studenti delle scuole paritarie e il finanziamento viene rimesso alla discrezionalità del momento politico, così che resta incerta la definizione annuale della quantità e della modalità delle sovvenzioni. Si ha così l’impressione che la parità sia offerta più per condividere gli oneri che per riconoscere i diritti; paradigmatica è la disposizione che stabilisce l’applicazione delle norme vigenti in materia di inserimento di studenti con handicap o in condizione di svantaggio senza fornire i mezzi adeguati per abbattere le barriere architettoniche e per pagare il sostegno per i ragazzi. Sul piano applicativo, infine, rimane l’incertezza della pur ridotta disponibilità finanziaria, dovuta anche ai ritardi spropositati nell’erogazione dei fondi; si deve lamentare l’ingiustificato eccesso di controlli burocratici, mentre si avverte la mancanza a livello nazionale e periferico di uffici referenti con specifiche competenze sulle scuole paritarie. Particolarmente fastidiosa è l’esclusione sistematica dalle iniziative promosse a sostegno della professionalità del personale direttivo e docente delle scuole statali.
Al momento dell’entrata in vigore della nuova legge, ci si augurava essa costituisse non un punto di arrivo, ma una tappa: tale auspicio mantiene tutta la sua validità anche oggi, a dieci anni di distanza.
3. Un processo da completare
La legge n. 62/2000, come noto, è stata oggetto di una richiesta di referendum abrogativo dichiarata inammissibile dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 43 del 2003: si tratta di una sentenza di grande importanza poiché in essa la Corte assume che il sistema nazionale di istruzione (comprensivo delle scuole statali, degli enti locali e delle scuole private paritarie) costituisce uno dei significati costituzionalmente ammissibili e possibili che discendono dall’interpretazione del quarto comma dell’art. 33 della Costituzione.
A quanto appena ricordato va aggiunta la significativa mole degli interventi della legislazione regionale che ha preceduto e seguito la legge n. 62/2000. Oltre la metà delle Regioni hanno introdotto, per quanto riguarda le scuole dell’infanzia, leggi che erogano contributi di gestione, conseguendo un regime di parità, totale in Trentino e Valle D’Aosta, o rilevante in Sardegna e Molise e, comunque, di un certo rilievo in altre sette, unitamente al crescente impegno normativo per l’erogazione di contributi alle famiglie, in coerenza con quanto indicato al comma 9, art.1 della medesima legge.
Come la giurisprudenza costituzionale ha significativamente sottolineato, la realizzazione della parità non consiste soltanto in un intervento legislativo puntuale e circoscritto, quale appunto è la legge n. 62/2000, ma esige di attuarsi mediante altri provvedimenti di varia natura. Il suo compimento non è determinante unicamente per le scuole paritarie, ma contribuisce al progresso di tutto il sistema pubblico di istruzione per lo stretto legame esistente tra la legge di parità e la realizzazione del sistema delle autonomie.
Sul piano del finanziamento pubblico delle scuole paritarie, se è vero che la legge n. 62/2000 ha accolto alcuni principi giuridici di particolare rilevanza per l’attuazione dei diritti della persona, va anche osservato che essa ha previsto sovvenzioni irrilevanti per i costi di gestione. Tali sovvenzioni, in leggera crescita dal 1996 al 2002, appaiono da tempo in costante diminuzione: ciò fa sì che in Italia la libertà di educazione continui a essere priva di un riconoscimento effettivo.
Più in dettaglio, le risorse destinate al sistema paritario ammontavano nel 2006 a € 566.810.844. Come ho già ricordato, a fronte di questa spesa, lo Stato risparmia ben cinque miliardi e mezzo di euro, perché non deve provvedere in proprio all’istruzione di quel milione e più di alunni che beneficiano dell’offerta educativa delle paritarie. Chi potrebbe ritenere ragionevole un’ulteriore decurtazione del modestissimo contributo dello Stato alla scuola paritaria? È del tutto evidente, infatti, che esso andrebbe contro gli interessi dello Stato stesso.
La normativa successiva alla legge n. 62/2000 ha precisato quali sono le scuole paritarie senza fini di lucro. Si tratta della grande maggioranza delle istituzioni paritarie (l’85,7% nell’anno scolastico 2007-08) e in questa categoria rientrano tutte le scuole cattoliche.
Merita una parola il cosiddetto ‘buono scuola’: nonostante il modesto rilievo economico, tale provvedimento ha un’importante valenza giuridica, in quanto per la prima volta sancisce in maniera esplicita il diritto dei genitori, anche a livello economico, alla libertà effettiva di scegliere la scuola corrispondente alle proprie convinzioni.
Finanziamento alla scuola, buono scuola e detrazioni fiscali costituiscono nel breve termine strategie ugualmente adottabili dalla legislazione statale per garantire, attraverso un’adeguata modulazione, le risorse necessari
e alle scuole paritarie.
Nel medio periodo, è necessario impegnarsi per diffondere la cultura della parità nel nostro Paese: essa corrisponde a un modello organizzativo secondo il quale sono i genitori e gli educandi i titolari della libertà di scelta della scuola da frequentare nel quadro di un sistema educativo integrato e policentrico, dove ogni scuola anche statale è tenuta a definire le caratteristiche della propria offerta formativa. Ciò rappresenta la fase intermedia di una strategia di lungo termine, tesa al passaggio da una scuola sostanzialmente dello Stato a una scuola della società civile, con un perdurante e irrinunciabile ruolo dello Stato, ma nella linea della sussidiarietà.
Sul piano pedagogico, la soluzione del problema del riconoscimento effettivo della libertà di educazione potrebbe trovare un consenso più ampio e convinto se collegata con tre questioni che attualmente occupano un posto centrale nel dibattito sull’educazione. La prima si riallaccia al depotenziamento del concetto di educazione e consiste nella critica che le viene rivolta di voler definire il “dover essere” della persona in un contesto post-moderno senza verità né certezze, di eclissi delle grandi narrazioni metafisiche e delle ideologie. La seconda questione nodale si pone riguardo all’affermarsi di un modello di scuola che si costruisce fondamentalmente sulla rispondenza a criteri di razionalità strumentale, sulla preoccupazione di assicurare l’efficienza dei mezzi rispetto ai fini. In terzo luogo, di fronte alle istanze di democratizzazione e alla necessità e urgenza di risolvere i molti problemi che affliggono la gioventù dei nostri Paesi, si fa sempre più forte la domanda di trasformare la scuola in una generica agenzia di socializzazione giovanile, il cui accoglimento comporta il rischio sia di un indebolimento, e perfino di una graduale scomparsa, delle sue note specifiche di luogo di elaborazione e di trasmissione critica della cultura, sia di una conseguente perdita di qualità.
All’interno di un orizzonte così ampio, ci si deve impegnare nella realizzazione piena del diritto all’educazione (non limitato alla formazione), inteso come diritto fondamentale della persona ad acquisire le conoscenze e le competenze necessarie per elaborare e realizzare il proprio progetto di vita (e non soltanto le conoscenze e le competenze funzionali al sistema produttivo), all’interno di una scuola vista non solo come servizio sociale, ma anche e soprattutto come luogo privilegiato di apprendimento e di insegnamento della cultura.
In altre parole, al di là delle problematiche giuridiche ed economiche che ho richiamato sopra e la cui soluzione è condizione necessaria di sopravvivenza e di funzionamento efficace delle scuole paritarie, va anche affrontata e vinta un’altra sfida sul significato pedagogico della libertà di educazione, per evitare che tale diritto sia immiserito alla sola formazione, a semplice strumento di sviluppo economico o a una forma di assistenzialismo.
Faccio mie in proposito la raccomandazione che il Rapporto rivolge alle scuole cattoliche paritarie di muoversi in tre direzioni. Anzitutto, si tratta di confermare e potenziare il principio della centralità della persona in tutte le sue dimensioni, compresa quella spirituale, puntando ad assicurare la presa in carico dello studente mediante un’azione di accompagnamento-orientamento che vada oltre i confini del tempo-scuola. In secondo luogo, la ricerca della qualità deve diventare prioritaria e questa meta può unire scuola statale e scuola paritaria in un unico grande sforzo comune, perché solo la qualità legittima l’esistenza di una scuola, la rende credibile e giustifica il suo finanziamento con denaro pubblico. In terzo luogo, la costruzione della comunità educativa trasforma la scuola da luogo di espletamento di formalità burocratiche o di sviluppo personale avulso dal contesto in un ambiente in cui il processo di apprendimento-insegnamento diviene tessuto connettivo dei rapporti tra le componenti che assurgono a co-attori di una progettualità educativa aperta e inclusiva secondo principi di collaborazione, accoglienza e condivisione.
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1) G. Chiosso, La libertà di educazione oggi. Da “problema confessionale” a diritto della persona, in CSSC-Centro Studi per la Scuola Cattolica, A dieci anni dalla legge sulla parità. Scuola Cattolica in Italia. Dodicesimo Rapporto, La Scuola, Brescia 2010, 51.
2) F. Macrì, La parità sospesa fra successi, ritardi, pregiudizi e resistenze, in CSSC-Centro Studi per la Scuola Cattolica, A dieci anni dalla legge sulla parità, 309.