di Paolo Pegoraro*

ROMA, martedì, 17 agosto 2010 (ZENIT.org).- Saadat Hasan Manto viene considerato un maestro dai più grandi scrittori angloindiani. Per Salman Rushdie è un «indiscusso maestro». Anita Desai lo paragona a Gogol. Vikram Chandra, autore del bestseller Giochi sacri, non ha dubbi: «Pubblicare Manto in Italia è necessario». A tradurlo per la prima volta nel nostro Paese dall’originale urdu è la nuova e intraprendente casa editrice Fuorilinea (www.fuorileanea.it), che nel volume Il prezzo della libertà ci propone quindici dei suoi racconti.

Traduttore, giornalista e sceneggiatore per Bollywood, Saadat Hasan Manto (1912 – 1955) nacque indiano, morì pakistano, ma fu ripudiato da entrambi i Paesi. La sua colpa? Aver raccontato la sanguinosa divisione tra le due neonazioni senza parteggiare per l’una o per l’altra. Ostracizzato dalla cultura ufficiale dei due stati, precipitò nell’alcolismo e morì di cirrosi epatica a soli 43 anni.

Ma qual è la particolarità di questi racconti? In primo luogo, l’ambientazione. Siamo nel 1947, all’indomani dell’indipendenza dall’Impero Britannico, guadagnata con il contributo fondamentale del Bapu Gandhi, il Padre della nazione. Eppure la sua lezione sembra definitivamente smarrita. Il Partito del Congresso e la Lega Musulmana cedono all’illusione di due Stati confessionali proposta dal governo britannico: è la Partizione tra India e Pakistan, che provocherà l’esodo di circa 17 milioni di persone. Intanto gli scontri tra indù, musulmani e sikh riempiono le città di morti sgozzati. Fanatici appiccano incendi e irrompono nelle case. Saccheggi, rivolte, stupri di vivi e di morti. L’India, culla della civiltà, tracima di sangue. Si stimano circa 500mila vittime; e lo stesso Gandhi viene assassinato, il 30 gennaio 1948.

Intanto, però, la vita continua: si nasce e si muore, ci si ama e ci si odia, si affittano case e si girano film. Sul confine si combatte. Ci si spara tra vecchi amici, tra indù e musulmani che fino a pochi giorni prima convivevano pacificamente nello stesso villaggio. Capita allora di interrompere una sparatoria per prendere un thè insieme. Poi però lo scontro riprende e ci si uccide senza capire bene perché. Chi è nato dalla parte sbagliata della frontiera deve lasciare tutto e avventurarsi verso l’ignoto. Perfino i cani devono decidere per chi parteggiare. Perfino i matti. Proprio così, capita di assistere niente meno che allo scambio di malati tra manicomi: pazzi indù da una parte, pazzi musulmani dall’altra. Una scena che riassume in sé un intero mondo ormai al confine con la follia, o meglio, un mondo diventato folle per questioni di confine. Un mondo talmente diviso in se stesso da non poter tollerare neppure l’incosciente neutralità degli animali e dei dementi.

Eppure Manto non perde la forza di ridere. Di ridere dei nazionalismi travestiti da religione e dell’assurda retorica del martirio, invocata da entrambe le parti… realtà non estranee ai due Paesi neppure sessant’anni dopo. Disilluso dal cinismo senza speranza della politica, Manto aguzza il suo sguardo su religioni disumanizzanti che hanno tradito se stesse, religioni tramutate in idoli che si nutrono parassitariamente della vita dei propri fedeli, invece che dar loro vita.

Faide sanguinarie e rituali decaduti a superstizione, abusi di credulità e farabutti che si spacciano per santoni: Manto prende le distanze da tutto ciò che è contro la vita, che non la fa assaporare a fondo oppure l’amareggia al punto di renderla odiosa. Non a caso il racconto che dà il titolo alla raccolta – Il prezzo della libertà – muove una critica radicale alle comunità ashram che fondevano insegnamenti ascetici e indottrinamento politico, tramutando gli adepti in «macchine da preghiera» private di ogni gusto per la semplicità e la bellezza.

«Non c’è merito – conclude il protagonista del racconto – nello scavare una fossa e seppellircisi dentro per giorni e giorni, o nel dormire per mesi su un letto di chiodi appuntiti o nel tenere per anni un braccio sollevato finché non si atrofizza al punto di mutarsi in un pezzo di legno. Questo è il mondo dello spettacolo. Non puoi trovare Dio o guadagnare la libertà con gli spettacoli. Penso anche che il motivo per cui l’India non ha conquistato la libertà è perché ha più uomini di spettacolo che veri leader. E i pochi leader che ha stanno andando contro le leggi della natura. Hanno inventato una politica che impedisce alla fede e alla schiettezza di nascere». Fede e schiettezza, senso religioso e senso comune, ragione soprannaturale e ragione naturale: è questo binomio a fecondare il «ventre della libertà». E rinunciare a uno dei due significa renderlo sterile.

Ma c’è qualcosa in più. Questi racconti non sono reportage. Manto guarda sempre agli uomini con timore e affetto. Con benevola reverenza. Anche quando meritano soltanto disprezzo per le loro azioni atroci o infinitamente ipocrite, negli occhi dell’autore sopravvive lo stupore per l’imprevedibilità della vita umana. Nella varietà di toni in cui si declina la scrittura di Manto – dall’ironia surreale a un realismo fenogliano, dall’autobiografismo sornione e ammiccante alla più cupa cronaca di nera – mai si assopisce in lui l’attenzione per il “mistero uomo”. Niente è automatico, nulla scontato. E giunti al finale di un racconto, basta una sola parola – o la sua omissione – per rivoltare come un guanto il significato dell’intera vicenda. Lasciandoci senza parole, oppure con troppe.

Un assaggio dell’opera

«Dove hai trascorso la notte, amore mio, mia luna?

Dove hai trascorso la notte?».


Divertito, cominciò a cantare a voce più alta, gustandosi le parole. A un tratto udì caporal Himmat Khan gridare: «E tu, dove l’hai trascorsa la notte?». La domanda non era stata rivolta a Bashir, ma a un cane. Era sbucato dal nulla qualche giorno prima. Era felicemente rimasto nell’accampamento e poi la notte precedente era scomparso. Adesso, però, era riapparso, come una moneta falsa.

Bashir sorrise e iniziò a cantare rivolgendosi al cane. «Dove hai trascorso la notte, dove hai trascorso la notte?» Ma la bestia non faceva altro che scodinzolare. Caporal Himmat Khan gli tirò un sassetto. «Tutto quello che riesce a fare è scodinzolare, lo scemo».

«Che ha intorno al collo?», chiese Bashir. Uno dei soldati afferrò il cane e slacciò il collare improvvisato. C’era un pezzo di cartone attaccato. «Che dice?», chiese il soldato, che non sapeva leggere.

Bashir si fece avanti e con qualche difficoltà riuscì a decifrare la scrittura. «Dice: “Tesoruccio”».

Il caporale Himmat Khan arricciò un’altra volta le punte dei suoi celebri baffi e disse: «Forse è in codice. Che altro dice, Bashir?».

«Sì signore, dice che è un cane indiano».

[…] Caporal Himmat Khan studiò la cartina un’altra volta. Dopo di che strappò un pacchetto di sigarette, ne ritagliò un pezzettino e lo diede a Bashir. «Adesso scrivi in gurmukhi, la lingua di quei sikh...»

«Cosa dovrei scrivere?»

«Beh...»

Bashir ebbe un’ispirazione. «“Tesoruccino”, sì, giusto. A “Tesoruccio” ribattiamo “Tesoruccino”».

«Bravo», approvò caporal Himmat Khan. «E aggiungici: “Questo è un cane pakistano”».

Caporal Himmat Khan infilò personalmente il pezzo di carta nel collare del cane e disse: «Ora va’ dai tuoi simili».

Gli diede qualcosa da mangiare e poi disse: «Sta’ attento, amico mio, non tradire. La punizione per chi tradisce è la morte».

Il cane continuò a mangiare e a scodinzolare. Poi caporal Himmat Khan lo voltò verso le postazioni indiane e disse: «Vai, porta questo messaggio al nemico e poi torna. E ricorda che questi sono gl i ordini del tuo comandante».

Il cane scese scodinzolando lungo il tortuoso sentiero di montagna che portava nella valle che divideva le due colline. Caporal Himmat Khan impugnò il fucile e sparò un colpo in aria.

Gli indiani erano sorpresi poiché era ancora piuttosto presto per la sparatoria di rito. Caporal Harnam Singh, che si stava annoiando, urlò: «Suoniamogliele!».

Le due parti si spararono per mezz’ ora e come al solito non successe assolutamente nulla: un assoluto spreco di tempo. Infine caporal Harnam Singh decise che poteva bastare. Si pettinò i lunghi capelli, si guardò allo specchio e chiese a Banta Singh: «Dove s’è cacciato quel cane, “Tesoruccio”?».

«“Dal burro i cani scappano”, insegna il famoso proverbio!», osservò filosoficamente Banta Singh.

A un tratto la sentinella urlò: «Eccolo, arriva».

«Chi?», domandò caporal Harnam Singh.

«Com’ è che si chiama? Tesoruccio», rispose la vedetta.

«Che sta facendo?», chiese caporal Harnam Singh.

«Sta semplicemente venendo verso di noi», rispose il soldato guardando nel binocolo.

Caporal Harnam Singh glielo strappò dalle mani. «Già, è proprio lui e ha qualcosa intorno al collo... Ma aspetta un po’... Quello viene dalla collina dei pakistani... Ma che grandissimo figlio di puttana!»

Impugnò il fucile, prese la mira e sparò. La pallottola colpì alcune rocce vicino al cane. Il cane si immobilizzò.

Caporal Himmat Khan sentì il colpo e guardò nel binocolo. Il cane si era voltato e stava tornando di corsa indietro. «I prodi non voltano le spalle al nemico. Vai avanti, porta a termine la tua missione!», gridò. Per fargli cambiare idea fece partire un colpo. Anche Harnam Singh sparò nello stesso istante. La pallottola sibilò a pochi centimetri dal cane che fece un balzo, sbattendo le orecchie. Himmat Khan sparò di nuovo e ben presto la faccenda si trasformò in un gioco fra i due soldati.

Il cane intanto correva su e giù in uno stato di inesprimibile terrore. Himmat Khan e Harnam Singh ridevano a crepapelle. Il cane scattò verso Harnam Singh, che gli scaricò addosso una raffica di invettive prima di sparagli, colpendolo alla zampa. Il cane guaì, si girò e corse nell’altra direzione verso Himmat Khan, che però aveva continuato a sparare pallottole d’incoraggiamento. «Sii coraggioso. Anche se sei ferito non mollare. Vai, vai, vai avanti!», urlava il pakistano.

Il cane si girò trascinando la zampa ferita. Incominciò a spingersi penosamente verso Harnam Singh. Questi impugnò un’altra volta il fucile, prese attentamente la mira e lo colpì a morte.

Caporal Himmat Khan sospirò: «Povero scemo, è stato martirizzato».

Caporal Harnam Singh toccò la canna ancora calda del suo fucile e mormorò: «Poveraccio, è crepato come un cane».

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*Paolo Pegoraro (Vicenza, 1977) si è laureato in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana e in Letterature comparate presso l'Università "La Sapienza" di Roma. Collabora da anni alle pagine culturali di numerose riviste, tra cui L'Osservatore Romano, La Civiltà Cattolica e Famiglia Cristiana.