ROMA, giovedì, 19 agosto 2010 (ZENIT.org).- La Chiesa in Italia sta oramai procedendo spedita verso la celebrazione della 46a Settimana Sociale del Cattolici Italiani, che si terrà a Reggio Calabria dal 14 al 17 ottobre 2010. La scelta della Città dello Stretto non è casuale e alla sua opzione hanno confluito diverse motivazioni tra cui quella di commemorare i cinquant’anni della 33a Settimana tenutasi negli stessi luoghi dal 25  settembre al 1 ottobre 1960.

I lavori dell’Assise s’inseriranno, come richiesto dall’apposito Comitato Scientifico, all’interno del percorso di riflessione comunitaria dei cattolici italiani che sta accompagnando e favorendo il discernimento della Chiesa sulle res novae del nostro Paese.

I contributi, dunque, non possono non tenere conto della grande eredità ricevuta dalla Settimana Sociale del centenario, celebrata a Pistoia e Pisa, che ha richiamato la forza e la piena attualità della nozione di bene comune maturata nell’esperienza storica dei cattolici e nel Magistero della Chiesa. Allo stesso modo, essi dovranno inserirsi nel solco della grande riflessione maturata all’interno della Chiesa Italiana grazie alla celebrazione del IV Convegno Ecclesiale Nazionale di Verona che si è soffermato sul valore della speranza cristiana.

Il documento preparatorio per la 46a Settimana Sociale, dunque, non intendendo assolutamente essere «di sintesi o riepilogare l’insegnamento della Chiesa e l’esperienza sociale dei cattolici», desidera, offrire e condividere «solo alcune buone ragioni perché proceda l’opera di discernimento necessaria alla declinazione oggi, in Italia, della nozione di bene comune» (1).

Ecco allora spiegato il titolo del testo, che intende chiarire il desiderio di coniugare il principio di bene comune nella situazione attuale del nostro Paese. Cosa significa essere cattolici nell’Italia di oggi, e, soprattutto, a cosa siamo chiamati in quanto discepoli di Cristo e membri della Chiesa per contribuire all’impegno comunitario in favore del nostro Paese?

Il testo coniuga, quindi, in modo attento e puntuale l’hic et nunch storico in cui viviamo, con la tensione verso un futuro migliore, cosciente che questa debba trasformarsi in impegno concreto, organicamente determinato, capace di riaccendere nei cuori una fiducia operosa e realistica. Un impegno che, pertanto, va opportunamente programmato mediante un’adeguata agenda di speranza.

Il documento invita, dunque, a intraprendere l’operazione di discernimento sulla situazione in cui versa la nostra comunità nazionale mediante un’analisi elaborata dalla carità nella verità; intende così contribuire alla generazione di un processo virtuoso capace di formare «le coscienze» e insieme formare «alla coscienza», per consentire la maturazione di una nuova generazione di uomini e donne idonei ad assumere in modo rinnovato le responsabilità pubbliche.

Il testo (composto di trentasette numeri), dunque, pone all’attenzione alcune emergenze del nostro Paese per illuminarne la ricerca di possibili soluzioni, nella consapevolezza che l’Italia si trova oggi ad affrontare da «media potenza declinante» (5) le prove della globalizzazione che mettono seriamente in discussione equilibri del passato ma che, se bene affrontate, possono offrire «nuovi orizzonti e nuove possibilità all’amore» (3).

Si sottolinea, infatti, la convinzione che la responsabilità per il bene comune non ci deve porre «fuori o contro la globalizzazione», al contrario essa ci spinge a «ricollocarci al suo interno, e dentro questo processo ci propone un orientamento» (4). Ancora una volta abbiamo di fronte nuove cose nuove che siamo invitati a riconoscere per inserirci pienamente in esse e, partendo da esse, cercare le vie della verità e dell’amore con realismo, coraggio e generosità.

Certamente, sono diverse le criticità che, a livello sociale, stanno emergendo nell’attuale congiuntura di crisi che il nostro Paese sta attraversando e che contribuiscono ad aumentare la frammentarietà della realtà nazionale: al divario mai ricucito, anzi sempre più importante, tra Nord e Sud del Paese, si sta aggiungendo il sensibile declino dell’Italia Centrale e dell’area tirrenica rispetto a quella adriatica, così come sono in aumento tensioni tra aree urbane di diversa qualità civile (cfr. 5).

A ciò si aggiunge il fatto che la globalizzazione, da parte sua, «alza il velo sul peso del debito pubblico, sullo stato dei processi d’istruzione e della ricerca scientifica e tecnologica, sulla bassa produttività del sistema economico, sull’attacco continuo ai diritti della persona e della vita, sulle dinamiche demografiche spesso drammatiche, sul divario tra le opportunità offerte alle donne e quelle di cui godono gli uomini, sulla minaccia portata di continuo all’istituto familiare, sulla rarefazione dei soggetti educativi, sulla crisi da mancato aggiornamento delle istituzioni politiche, sul dilagare della povertà e delle povertà, sull’incapacità di debellare – e a volte anche solo di fronteggiare con efficacia – la criminalità organizzata, sull’abbandono quando non la devastazione del patrimonio ambientale, artistico e culturale» (5).

Di fronte a questa molteplicità di urgenze sociali, bisogna evitare di disperdere forze ed energie e, molto più sapientemente, occorre concentrare l’attenzione su un numero limitato di problemi ritenuti nodali, dalla cui soluzione o mancata soluzione dipenderà l’esito del cammino futuro del Paese.

La Settimana Sociale, da parte sua, contribuirà a questo compito «individuando una breve lista di problemi con alcune precise caratteristiche» (12), stando attenta a che rappresentino urgenze nel contempo «realisticamente affrontabili» e «previe» rispetto ad altre (cfr. 14).

Il documento invita, allora, a individuare un’agenda verso cui far convergere opinione pubblica e attori sociali, non con l’intento di stipulare un programma economico, politico, o di altro genere, ma allo scopo di identificare linee di riferimento per l’elaborazione e la valutazione di programmi e azioni, perché le esigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente realizzabili.

Un’agenda, dunque, per «riprendere a crescere» (questo il titolo del IV Capitolo), dal momento che, come ha sottolineato il card. Angelo Bagnasco nella prolusione alla 60a Assemblea Generale della CEI, è proprio «la crescita la condizione fondamentale per una giustizia sociale che migliori le condizioni generali» del nostro Meridione e dell’Italia tutta.

Nel cammino di preparazione alla Settimana Sociale, l’indagine riguardo i punti essenziali da cui muovere per incentivare la crescita del Paese si è trasformata in ricerca di soggetti sociali vitali in grado di cooperare alla rigenerazione della pòlis. Sono, così, emerse cinque risorse principali a partire dalle quali affrontare la sfida del progresso secondo il bene comune: la famiglia, le imprese, gli immigrati, i giovani e la realtà politica e amministrativa.

Il documento, dunque, prendendo come riferimento queste cinque risorse, dopo una breve analisi delle stesse, elabora alcune domande (dodici in tutto) che possano contribuire alla realizzazione di quell’agenda che aiuti a uscire dalla situazione attuale e illumini il cammino del Paese verso un autentico sviluppo.

La famiglia è protagonista in ogni indicazione, con la sottolineatura della necessità di mettere in atto politiche fiscali e sociali per riconoscerla e sostenerla anche come generatrice di valori economicamente rilevanti. Riguardo il mercato del lavoro, si augura la riduzione di precarietà e privilegi, con l’aumento di partecipazione, flessibilità ed eterogeneità. Sulla mobilità sociale, si invita a ridurre le barriere per l’accesso alle professioni e al loro esercizio e a incrementare la libera concorrenza. Anche per il sistema univer sitario s’impone l’esigenza di un finanziamento diverso, aumentando l’autonomia degli atenei, senza precludere l’accesso a nessuno che sia capace e meritevole. Si auspica poi una pressione fiscale al limite della sostenibilità, che va ridistribuita orizzontalmente, indirizzandola non solo verso il lavoro e gli investimenti, ma anche verso le rendite. Per quanto riguarda il voto, il testo propone una legge elettorale coerente per completare la transizione istituzionale secondo criteri di sussidiarietà e responsabilità imputabile.  

Che cosa è una chiesa sui iuris?

di padre Hani Bakhoum Kiroulos

ROMA, mercoledì, 18 agosto 2010 (ZENIT.org).- La Chiesa è comunione: “Magna illa communio quam efficit Ecclesia” diceva il Papa Paolo VI[1]. Infatti la comunione è essenziale alla natura della Chiesa. La medesima comunione della Chiesa ha due aspetti: la comunione dei Santi che unisce la Chiesa pellegrina sulla terra con la Chiesa celeste e le dona il suo carattere escatologico, mentre il secondo aspetto è la comunione ecclesiastica.

La comunione ecclesiastica unisce tutti i battezzati nella Chiesa Cattolica o in essa accolti, che sono congiunti con Cristo dai vincoli della professione della medesima fede, dei sacramenti, del regime ecclesiastico e della comunione. Tale comunione ecclesiastica costituisce la piena comunione cattolica.

I fedeli cattolici, di una chiesa particolare, quindi anche di una chiesa orientale sui iuris, sono nella piena comunione ecclesiastica con la Chiesa Cattolica, quando i loro vescovi conservano la comunione gerarchica con il Vescovo di Roma e il Collegio dei Vescovi.

La “Ecclesia Universa” è costituita dalla comunione delle varie Chiese d’Oriente e d’Occidente e in modo particolare da quelle matrici della fede fondate dagli Apostoli e dai loro successori.

Tale comunione tra le Chiese Orientali sui iuris e la Sede Apostolica di Roma viene espressa e manifestata, in maniera concreta, nel Codice dei Canoni delle Chiese Orientali. Infatti, uno dei ruoli fondamentali del Codice, secondo il Papa Giovanni Paolo II[2], è indicare la Chiesa come comunione e, come conseguenza, determina le relazioni che devono esistere tra le chiese orientali sui iuris e la Chiesa Universale.

Prima di analizzare la manifestazione concreta di tale comunione gerarchica, è necessario presentare il senso del termine chiesa sui iuris.

Nel Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium la nozione di “chiesa sui iuris” è una nozione tecnica. Essa è una novità nella storia del diritto canonico orientale e occidentale[3]. La nozione è data per indicare la chiesa orientale che è in comunione con Roma.

La Pontificia Commissio Codex Iuris Canonici Orientalis Recognoscendo non ha voluto adottare il termine “chiesa particolare” per indicare la chiesa orientale in quanto questo termine indicava nel Codex Iuris Canonici solo la diocesi e nient’altro. La medesima commissione ha preferito la proposta di “chiesa sui iuris. Interessante il fatto che questa proposta ha avuto la maggioranza con un solo voto; ha ricevuto infatti sei voti favorevoli contro i cinque che volevano mantenere il termine del Concilio Vaticano II “chiesa particolare” e con due astensioni[4].

La definizione della nozione di “chiesa sui iuris” si trova al can. 27[5].

Si chiama, in questo Codice, Chiesa sui iuris, un raggruppamento di fedeli cristiani congiunto dalla gerarchia, a norma del diritto, che la Suprema Autorità della Chiesa riconosce espressamente o tacitamente come sui iuris.

Da questo canone si rivelano due particolarità:

La prima cosa da notare è che la definizione della chiesa sui iuris è una definizione tecnica; cioè non è avulsa dal codice, ma è relativa ad esso. Il codice non definisce la chiesa sui iuris in sé, ma dice cosa intende quando menziona la nozione “chiesa sui iuris”. Facendo così il codice sostituisce la nozione “chiesa particolare sui ritus” usata nel Concilio Vaticano II.

La seconda è che la suddetta definizione evidenzia i quattro criteri essenziali per definire una chiesa come chiesa sui iuris:

– Un raggruppamento di fedeli cristiani “coetus christifidelium”: il suddetto termine indica “l’unità interna e l’omogeneità culturale, sociale, e spirituale”[6] di una comunità di fedeli. Indica in fondo una assemblea del popolo di Dio[7] unita nella cultura, nella vita sociale e nella vita spirituale.

– Questo coetus christifidelium è unito ed è governato dalla propria gerarchia. Questa gerarchia “unisce questo raggruppamento in una determinata comunità ecclesiale compatta e gerarchicamente organizzata come una chiesa. Questo gruppo di fedeli ha una gerarchia come elemento organico di coesione”[8]. Il ruolo fondamentale, dunque, di detta gerarchia è governare il raggruppamento dei fedeli e garantire la sua unità secondo il diritto[9].

– Detto coetus christifidelium con la propria gerarchia è costituito secondo il diritto. Un tale criterio garantisce la legittimità della chiesa sui iuris.

– Il riconoscimento della Suprema Autorità della Chiesa in modo espresso o tacito è il quarto criterio per definire un raggruppamento dei fedeli, uniti dalla propria gerarchia secondo il diritto, come chiesa sui iuris. Detto atto di riconoscimento da parte della Suprema Autorità costituisce la comunione gerarchica tra una tale chiesa e la Chiesa Universale. Da notare che “la comunione gerarchica con il Romano Pontefice, intesa come unità e realtà organica, è, di conseguenza, un elemento costitutivo dello status canonico di Ecclesia sui iuris[10].

I primi tre criteri sono criteri interni e spiegano la natura della chiesa sui iuris dal suo interno. Mentre, il quarto – il riconoscimento – è un criterio esterno e formale che garantisce la comunione della chiesa sui iuris con tutta la Chiesa di Cristo[11].

Con questo riconoscimento si attribuisce alla chiesa sui iuris una autonomia relativa. Infatti la Suprema Autorità non si limita, semplicemente, a riconoscere una chiesa sui iuris, ma definisce, soprattutto, la sua autonomia e dipendenza e inoltre, il suo rapporto con la Sede Apostolica tramite i canoni del Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium.

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