L’intellettuale europeo non può rifiutare la persona di Gesù Cristo

ROMA, sabato, 28 agosto 2010 (ZENIT.org).- Di seguito pubblichiamo l’intervento pronunciato il 23 agosto scorso dal Cardinale Péter Erdő, Arcivescovo di Esztergom-Budapest e Presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE), in occasione della tavola rotonda su “Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni, può credere, credere proprio, alla divinità del Figlio di Dio Gesù Cristo” tenutasi al Meeting di Rimini.

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1) Prima di parlare della divinità di Gesù Cristo, bisogna domandare se gli intellettuali europei, nostri contemporanei abbiano grande difficoltà, o piuttosto una speciale facilità nel credere dell’esistenza di Dio. E qui sembra delinearsi già un quadro contraddittorio:

a) La fede religiosa come atteggiamento umano, sicuramente non è giustificabile per un atteggiamento ateo piatto, per esempio per il famoso materialismo storico e dialettico del marxismo tradizionale. Ma negli anni dei miei studi, l’ateismo ufficiale è stato spiegato attraverso il concetto di materia. E già in questo punto, persino l’ideologia ufficiale era costretta a prendere distanza dalle “visioni volgari” come quella che diceva: ciò che non vediamo, non esiste. Dopo il primo viaggio nel cosmo di Jurij Gagarin, si diceva scherzosamente che egli è stato “lì sopra”, ma non ha incontrato Dio. Certamente gli ideologi sapevano che la visibilità per i nostri occhi non è l’unico criterio di vera esistenza, neppure nel mondo degli esseri “materiali”. Ma allora, quale è il criterio? La risposta ideologica è stata poi più o meno un sofisma. Si diceva infatti, che “materia è tutto ciò che realmente esiste”. Se questo ragionamento apparentemente logico, ma in realtà capzioso, fosse stato vero, tutti saremmo materialisti in quanto non neghiamo l’esistenza di tutte le cose. Altri ancora, o gli stessi ideologi, hanno ammesso – e ciò sembrava già un tratto hegeliano – che lo spirito sì che può esistere, ma esiste solo in modo secondario come prodotto della materia, e non viceversa.

b) Tale visione, tale atteggiamento però oggi non sembra più attraente per la grande maggioranza degli intellettuali del nostro continente. Alcuni sono stanchi e non fiduciosi nella filosofia come tale. E così sono inclini ad un certo – chiamiamolo così! – agnosticismo volgare che direbbe: cose così sottili e sofisticate come la nozione della materia e dello spirito, o persino quella della totalità dell’universo, malgrado le conoscenze scientifiche, o proprio per il progresso scientifico, non sono riconoscibili per il pensiero umano. Quindi, non vale la pena passare troppo tempo con tali ragionamenti.

c) Bisogna riconoscere che il concetto di materia è diventato sempre più incerto. Dicono che tra la materia e l’energia non c’è una netta differenza, ma ci sono delle trasformazioni dinamiche tra questi due modi d’esistenza. Anche la ricerca nucleare rende sempre più difficile immaginarci la materia. Proprio l’atomo non è atomo cioè non è indivisibile, non è un’unità fissa con estensione misurabile ecc. Si parla recentemente anche di energia oscura, e di antimateria, per spiegare certi fenomeni già osservati a livello astronomico. Tutto ciò non sembra tanto negativo per la fede religiosa, o per la prontezza di credere in altre più magnifiche dimensioni della realtà. Anche la ricerca sul cervello, sulle funzioni psicologiche, sui fenomeni non ancora spiegati dello spirito umano o delle dimensioni della capacità dell’essere umano nel comunicare o sentire malgrado grandi distanze, trascendendo anche il momento della morte – ma poi quale momento concretamente della morte?! Nel mondo degli intellettuali osserviamo quindi, una certa sensibilità verso l’aldilà, verso l’esistenza del mondo spirituale. Ma se la nozione di materia non è chiara, non può neanche esserlo il concetto di spirito. E soprattutto: come possiamo tracciare il confine tra il mondo materiale e quello spirituale? E ancora: come possiamo distinguere questo mondo che noi, cristiani possiamo chiamare anche mondo creato, dalla realtà di Dio stesso, dalla trascendenza? È grande, quindi, la tentazione del panteismo. Diverse forme di un atteggiamento più o meno panteistico sembrano essere di moda.

2) Da questo sfondo emerge il problema della divinità di Cristo. Non sembra quindi, troppo difficile per alcuni accettare “una certa divinità” di Gesù, ma anche di tutti noi, anche di tutte le cose che esistono. Con belle emozioni pensano non pochi “alla scintilla divina” nascosta in tutti noi. Per alcuni, non è soltanto una frase storico-poetica che si canta oggi nell’inno dell’Unione Europea con le parole di Friedrich Schiller: “Freude, schöner Götterfunken” – O gioia, bella scintilla divina. Come spiegare quindi, la differenza essenziale tra Dio creatore e il mondo creato? É solo in base a questa distinzione che possiamo formarci un’idea sulla vera, piena e specifica divinità di Gesù Cristo.

3) Tra gli argomenti addotti nella storia della filosofia per l’esistenza di Dio e per definire la vera nozione di Dio, il concetto di materia non era fondamentale. Già Platone ribadisce che degli dèi e dei divini si può parlare in diversi modi. Ma il compito del filosofo è di spiegare com’è il dio. E la sua risposta è che dio è „il migliore sotto tutti i punti di vista” (Res Publica 381b), e per questo immutabile: „un dio al quale non si potesse attribuire ciò che c’è di meglio in tutte le cose, non meriterebbe il predicato divino; un dio che mutasse, potrebbe mutare soltanto per il peggio”[1]. Cioè tale visione filosofica non si occupa della nozione della materia e dello spirito, ma tiene presente altre categorie come la bontà e l’immutabilità. La perfezione e l’immutabilità certamente sono connesse fra di loro. È qui che si sente un tratto di trascendenza, perché l’immutabile e il perfetto può essere in qualche modo fondamento delle cose mutabili ed imperfette. Indirettamente emerge quindi, anche la grande domanda sulle le basi dell’esistenza. La filosofia prima – o come diciamo oggi – la metafisica di Aristotele si autodefinisce come „il sapere relativo all’origine e alla causa prima di ogni essente e il sapere relativo all’essere in quanto essere e ai suoi attributi più universali. Presa nella sua prima accezione, la filosofia prima è ’teologica’, in quanto si occupa del divino (Metaphysica, 1046a)”[2].

La trascendenza divina, la cercavano di esprimere molti filosofi, sin dall’antichità, come Plotino, Porfirio, Proclo, l’autore cristiano chiamato Dionigi l’Areopagita, ma sotto il suo influsso anche pensatori cristiani medievali e rinascimentali come Nicola Cusano, attraverso una teologia negativa di carattere mistico, consapevole della profonda differenza tra la completezza e fondamentalità dell’esistenza di Dio e il modo limitato dell’esistenza di tutti gli altri esseri. Nel senso mistico o spirituale tuttavia, bisognava e bisogna poter anche parlare di Lui, pur nella consapevolezza che le nostre parole sono deboli e poco adeguate ad esprimere la pienezza e l’assolutezza della sua realtà. Noialtri, assieme alle nostre lingue e ai nostri concetti, apparteniamo a questo mondo. Anche se il mondo creato rispecchia la faccia del Creatore, anche se l’uomo è stato creato a immagine di Dio (Gen 1,27), la nostra fede non accetta la preesistenza, o persino la coeternità dell’anima umana con Dio. La nostra anima infatti, non è una emanazione della sostanza divina, non fa parte di Dio[3], ma è stata creata da Lui. Incontriamo quindi, sempre di nuovo l’enorme difficoltà di come parlare sull’unico vero Dio.

4) Questa difficoltà però, si riferisce già al problema di esprimere la nostra esperienza naturale, il nostro ragionamento in base al mondo creato, le nostre conclusioni riguardo al Creatore. Esiste però, anche un altro aspetto della stessa difficoltà: quello della comunicazione tra l’uomo e Dio. Già creando l’universo, Dio ha espresso qualcosa di sé, ha manifestato la sua volontà. Ma siamo convinti tutti noi che crediamo nella rivelazione divina, che il Dio personale, consapevole, libero nella sua volontà, ha cercato il contatto con noi, esseri umani ? È qui, che possono cominciare per i nostri contemporanei da una parte le difficoltà, dall’altra parte i tratti più
affascinanti della nostra fede in Cristo.

I mass media sono pieni di speculazioni, di visioni poetiche, di ragionamenti più o meno scientifici sull’ipotesi dell’esistenza di altre culture, di altri esseri intellettuali nel cosmo. Come può presentarsi, quale può essere un’altra civiltà extraterrestre? E soprattutto: come possiamo metterci in contatto con questi esseri intelligenti? Oppure: siamo già in contatto con loro? Che cosa potrebbe portarci un tale incontro? Un arricchimento, oppure un grandissimo pericolo? In modo quasi disperato, l’umanità sta mandando dei segnali radiofonici nel cosmo, per cercare il contatto con altri esseri intellettuali. Ma che cosa devono contenere questi messaggi? In quale linguaggio devono essere formulati per essere compresi? I punti interrogativi sono tanti. E parliamo ancora soltanto di possibile contatto tra diverse creature intelligenti all’interno di questo mondo, non parliamo ancora degli angeli, e non parliamo ancora della possibilità di un nostro contatto personale con Dio.

È Lui, incomparabilmente più intelligente di noi, che trova, che deve trovare il modo di entrare in dialogo con noi. Dio può e vuole parlare all’uomo. Ma la possibilità più grande e completa di arrivare a un tale contatto con i nostri sensi e con la nostra ragione, è di parlare a noi in modo umano, presentarsi a noi come vero uomo e vero Dio. Per questo, che nel Prologo del Vangelo di S. Giovanni si parla del Verbo, della Parola di Dio che esisteva da sempre, che era Dio, e che si è fatto carne, perché quelli che lo accolgono, abbiano “potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,12). Se l’uomo di oggi pone seriamente la questione dell’esistenza di Dio assoluto, trascendente e personale, deve indagare anche sulla possibilità della comunicazione fra Dio e l’uomo. Da una parte, il dogma cristologico di Calcedonia ha gettato per sempre le basi del ragionamento cristiano sulla persona di Gesù Cristo. Nella definizione del simbolo di fede di Calcedonia infatti, si dice: “Seguendo i Santi Padri, all’unanimità noi insegniamo a confessare un solo e medesimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, vero Dio e vero uomo, di anima razionale e di corpo, consostanziale al Padre per la divinità, e consostanziale a noi per l’umanità”[4]. Dall’altra parte, proprio la teologia nella seconda metà del XX secolo ribadisce la ricerca sulla persona di Gesù storico[5]. È stato Benedetto XVI che nella sua grande sintesi su Gesù di Nazaret ha dimostrato con forza convincente che il Cristo della fede e il Gesù storico sono la stessa persona e che il motivo della fede in Cristo come Figlio di Dio, come vero uomo e vero Dio proviene storicamente dal comportamento, dall’insegnamento, in fin dei conti dall’autocomprensione di Gesù stesso. Quindi, non c’è differenza, non c’è scollamento tra il Cristo della fede e il Gesù storico[6]. A livello di ricerche storiche dello sviluppo dottrinale che ha guidato alla cristallizzazione del dogma di Calcedonia, Alois Grillmeier ha potuto documentare – presentando pure le correnti eterodosse -, l’iter storico tra la Bibbia, attraverso i Padri della Chiesa fino all’epoca dei grandi concili. E quindi, la ricerca della storia delle idee cattoliche, ossia ortodosse su Cristo, ci offre lo stesso quadro[7] che l’indagine diretta della persona e dell’autocomprensione di Gesù di Nazaret. Forse non è per caso quindi, che il Grillmeier ha dedicato, nel 1979, la sua opera proprio a Joseph Ratzinger, allora Arcivescovo di Monaco.

Così è proprio Cristo in cui possiamo vedere la gloria del Padre, è Lui il luogo dell’incontro tra Dio e l’umanità, come canta S. Gregorio Nazianzeno:

O luce gioiosa,

Eterno splendore del Padre santo e beato,

Cristo Gesù.

L’universo proclama la tua gloria”.

5) Che cosa dice però tutto ciò al “famoso intellettuale europeo di oggi” di cui stiamo parlando? Finora non abbiamo riflettuto sul significato di essere intellettuale, e sulla specificità di un pensatore europeo. L’intellettuale sicuramente non è soltanto una persona provvista di un diploma universitario. Non è l’abito che fa il monaco! E sopratutto oggi, quando circa la metà della gioventù del nostro continente frequenta qualche istituto di studi superiori. Nei paesi comunisti infatti, nel quadro dell’economia pianificata, lo stato ha determinato il numero dei giovani che potevano essere assunti ai singoli corsi di laurea di ciascuna università. E questi numeri erano relativamente bassi, perché calcolati in base ai bisogni previsti dell’economia socialista. Quindi, gli esami di ammissione alle università erano difficili. Molti dei candidati venivano rifiutati. Inoltre, era determinata la percentuale dei giovani da assumere anche secondo la loro provenienza sociale. Per esempio, una certa percentuale doveva provenire da famiglie operaie, altri da famiglie contadine, pochi da famiglie di intellettuali. Esistevano però anche dei privilegi stabiliti persino nelle leggi, secondo le quali i figli o i nipoti di portatori di certe onorificenze statali o di determinate funzioni dovevano essere comunque assunti da qualsiasi università. Appartenere al ceto degli intellettuali significava molto fino al 1989. Pure nelle piccole pubblicità matrimoniali dei giornali si cercavano con preferenza dei partner “con diploma universitario”. Oggi, in una società borghese non è tanto il diploma che conta, ma piuttosto le condizioni patrimoniali ecc., oltre – naturalmente – alle doti personali. In un senso più profondo tuttavia, l’intellettuale è una persona che riflette sulle grandi questioni della vita, e che conosce diversi settori della cultura, anche oltre i limiti della propria professione. Malgrado l’aumento del numero della gente con formazione universitaria, i veri intellettuali sembrano essere in Europa non più, ma forse meno numerosi, di quanto erano un mezzo secolo fa. Questo dipende naturalmente anche dal calo del livello dei licei, dall’atmosfera instabile sia della formazione sia del mondo del lavoro sia dei valori trasmessi nell’educazione.

E che cosa significa essere europeo per un intellettuale? Se siamo soliti dire che l’Europa non è un concetto puramente geografico o politico, ma piuttosto culturale, allora dobbiamo cercare anche la specificità dell’identità culturale europea. Ed è in questo punto che emerge sicuramente l’eredità giudeo-cristiana, ma anche quella greco-romana con influssi significativi egiziani, persiani, babilonesi. Certo che non mancano neppure le tradizioni dei popoli celtici, germanici, slavi, ugro-finnici, tracce di influssi turchi, arabi, ecc. L’elemento più connesso con la visione del mondo è comunque il cristianesimo. È vero che in molte parti del continente, in vari ceti della società la presenza intellettuale cristiana si è indebolita fortemente. Eppure non c’è altro fondamento comune che fosse tipico per il continente. L’ideologia illuminista, da una parte non ha ovunque penetrato tutta la società, dall’altra parte essa stessa era pure connessa in qualche modo con l’eredità cristiana. Questo lo vediamo oggi quando alcune legislazioni cominciano a cercare di staccarsi dal senso classico dei diritti umani, e dalla visione di un certo diritto naturale, dando più spazio a degli elementi soggettivistici. Ma il soggettivismo non è europeo. Esso può presentarsi anche in altri contesti, e non ha, proprio per sua natura, un contenuto tipico, ma è diverso secondo i singoli individui. Così non può essere base comune positiva di una cultura specifica.

Allora, l’intellettuale europeo di oggi è una persona interessata per le grandi questioni della vita e del mondo, una persona che cerca senso e valori per i singoli e per la società, uno che conosce contenuti notevoli dell’eredità cristiana e greco-romana, e che tiene presente tutto ci
ò almeno come elementi possibili della risposta alle sue questioni fondamentali.

6) L’intellettuale europeo di oggi può quindi, porre la domanda sull’esistenza e sulla nozione di Dio, può trovare una risposta positiva nel riconoscimento della sua esistenza. E una volta riconosciuto Dio come trascendente e assoluto, può e deve riflettere anche sulla possibilità della comunicazione con Dio. E in questo punto, risulta che l’intellettuale europeo non può rifiutare sin dall’inizio l’idea poco immaginabile per la nostra fantasia umana che è proprio la persona di Gesù Cristo, in cui possiamo incontrare Dio nel modo più adatto alle capacità stesse dell’essere umano.

Tutto sommato, l’intellettuale europeo non è necessariamente un credente. Ma non lo è necessariamente nessuno! La fede in Cristo, cioè la pienezza della fede cristiana, infatti, non è una semplice conclusione di un ragionamento umano, ma è un regalo di Dio, è una grazia. Questa grazia però viene offerta da Dio, “il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio, e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù” (1Tim 2,4-5). Di questo fatto dobbiamo rendere testimonianza. Di questo dobbiamo essere messaggeri e missionari nella nuova evangelizzazione dell’Europa. In questa convinzione dobbiamo essere uniti con i nostri altri fratelli cristiani, perché l’unità possa rinforzare la nostra testimonianza.

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1) V. Melchiorre, Dio, in Enciclopedia Filosofica, Milano 2006, III, 2883.

2) Ibid.

3) H. Denzinger– P. Hünermann, Enchiridion symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum. Edizione bilingue, Bologna 1996, nr. 201; 285; 455; 685

4) H. Denzinger– P. Hünermann, nr. 301, ed. cit. 169.

5) Cf. A. Schilson, Christologie, III. 3, in Lexikon für Theologie und Kirche, 3ed, Kasper et alii, Freiburg-Basel-Wien 1993-2001 [2006], II, 1171.

6) J. Ratzinger / Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, ed. italiana a cura di I. Stampa – E. Guerriero, Città del Vaticano–Milano 2007.

7) A. Grillmeier, Jesus der Christus im Glauben der Kirche, I, 3Freiburg im Breisgau 1990 [2004], 14-184; 222-345; 403-413; ecc.

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ZENIT Staff

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