di Rosario Sitari*
ROMA, giovedì, 29 luglio 2010 (ZENIT.org).- Le crisi economiche colpiscono tutti, ma non tutti allo stesso modo. Dietro le statistiche della disoccupazione, dei pensionamenti anticipati e dei fallimenti ci sono persone e famiglie che soffrono per indigenza e per perdita della dignità umana.
Ci sono poi interi paesi che non hanno il minimo per vivere. Per questi Paesi lo sviluppo del reddito viene prima di tutto, anche dell’ambiente.
Che il problema ambientale sia vissuto dai paesi poveri in modo diverso da come lo vivono le società opulente è apparso chiaro già nelle fasi preparatorie della Conferenza di Rio.
I paesi industrializzati non sono disponibili ad accollarsi gli oneri delle misure di risanamento dell’ambiente e dello sviluppo dei paesi poveri; questi, dal canto loro, non intendono sacrificare i propri programmi di sviluppo sull’altare della salvaguardia dell’ambiente; anzi, i paesi poveri sono convinti che devono essere i paesi ricchi a sostenere le spese dei danni provocati da essi stessi per il loro processo di crescita.
Quando perciò è stato definito il concetto di sviluppo sostenibile si è inteso indubbiamente affermare che la crescita socio-economica deve essere compatibile con l’ambiente e garantire la sopravvivenza della specie umana. Tuttavia, anche se dopo la Conferenza di Rio lo sviluppo sostenibile è diventato la versione economica internazionale del solidarismo esteso a tutti i popoli della terra e a quelli delle future generazioni, per gran parte degli abitanti del Globo lo sviluppo oggi non è sostenibile.
Vediamo perché.
In primo luogo, se in astratto il valore della solidarietà sembra acquisito, la politica ambientale, in concreto, risponde a interessi molto precisi che riguardano tre gruppi di pressione.
Un primo gruppo si preoccupa unicamente della salvaguardia della natura, ne fa un valore assoluto, una divinità da adorare con risvolti ideologici che sfociano spesso nell’intolleranza e nella violenza. Il mito dell’intangibilità assoluta della terra porta costoro indietro nella storia quando fruitori dei beni della terra erano élite piuttosto ristrette. Questa concezione
radical-chic ignora completamente il diritto allo sviluppo delle persone e dei popoli: la qualità della vita di pochi diventa ostacolo alla vita di molti.
Un secondo gruppo è costituito dai policy makers dell’Unione Europea. A fronte della globalizzazione dell’economia si assiste all’erosione continua della sovranità degli Stati senza che a questa si sostituisca una sovranità politica più ampia: l’Europa degli affari è nata e l’Europa politica è ancora lontana.
L’UE, pertanto, non affronta il problema all’interno di un quadro di riferimento di politica industriale, si limita invece ad affrontarlo al solo scopo, esplicito, di evitare che il tema ambiente provochi distorsioni nel libero scambio ignorando completamente che la situazione reale del mercato è assai lontana dai canoni della concorrenza.
Ecco allora un terzo gruppo di grosse formazioni oligopolistiche che costituiscono la struttura portante del mercato reale. Sviluppa tecnologie e poi influenza i governi per renderle obbligatorie; fruisce dapprima dei vantaggi delle asimmetrie delle normative ambientali, poi riesce ad affermare le proprie tecnologie sull’intero pianeta.
In secondo luogo, la situazione presenta aspetti contraddittori. Da un lato, l’ulteriore sviluppo del PIL dei Paesi avanzati si realizza con un apporto sempre minore di risorse materiali, per cui ha senso affermare che in questo processo di generale dematerializzazione si va definendo un nuovo modello di crescita compatibile con l’ambiente. [1] Dall’altro, però, va osservato “che tra Pil … ed emissioni pro capite v’è una relazione a forma di U rovesciata: l’inquinamento cresce sino ad una certa fase dello sviluppo per poi diminuire.”[2] Dove si collochi questo punto di svolta è difficile dire perché le varie emissioni hanno effetti inquinanti molto diversi.[3] Ciò che comunque sembra certo è che è ben vero che la lotta alla povertà è anche lotta all’inquinamento, ma, collocandosi “la maggior parte della popolazione mondiale…lungo il segmento crescente della curva”[4], le sue esigenze di crescita non potranno essere sostenibili se essa utilizzerà lo stesso modello di sviluppo già adottato dai Paesi avanzati. E poiché nell’ecosfera non esistono confini, lo sviluppo dei Paesi emergenti riguarda tutti giacché questi paesi lasciati a se stessi provocherebbero costi esorbitanti in termini di distruzione delle risorse naturali e in termini di degrado ambientale.[5]
Si può quindi concludere che le interconnessioni esistenti fra le tre sostenibilità – economica, ecologica e sociale – impongono all’uomo “obblighi immediati verso se stesso e gli altri” suoi simili e solo “mediati verso l’ambiente”, ma deve farsi carico di tre problemi fondamentali: il primo è il dovere di affrontare responsabilità di lungo periodo valutando la natura e la portata dei rischi socialmente accettabili; il secondo è il dovere di approfondire i rapporti tra sviluppo e ambiente, nel senso che nella scelta delle opzioni deve valutare gli oneri e i vantaggi di ciascuna e come distribuire gli uni e gli altri; il terzo è il dovere di promuovere le virtù sociali per sostenere comportamenti e politiche ecologicamente responsabili.[6] A questo proposito è ineludibile il problema delle contraddizioni dell’etica attuale che i cattolici sono chiamati a superare. Tra queste contraddizioni – richiamate da Mario Toso nella meditazione Caritas in veritate: per un discernimento spirituale ed etico – [7] occorre riflettere, per quanto ci riguarda, su quelle “tra etica ecologia ed etica ambientale”. Proprio in questo campo si registra una clamorosa incoerenza logica perché, da una parte, emerge chiara la necessità che le nuove generazioni rispettino l’ambiente naturale, ma, dall’altra, l’educazione e le leggi vigenti, ignorando l’ecologia umana, non aiutano i giovani a rispettare se stessi. Solo nell’ecologia umana, infatti, “i doveri che abbiamo verso l’ambiente si collegano con i nostri doveri verso la persona considerata in se stessa e in relazione con gli altri.”[8]
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*Il prof. Rosario Sitari è docente di Politica dell’ambiente all’Università LUMSA di Roma e Segretario nazionale AIDU (Associazione Italiana Docenti Universitari). Autore di pubblicazioni in materia di politica economica e di politica industriale, di economia e politica dell’energia e dell’ambiente. Già dirigente ENI, ha insegnato nelle Università statali di Roma, Cagliari e Parma, nella Scuola di Management della LUISS, nella Scuola Superiore E. Mattei e nell’Istituto di Formazione dell’Association For European Training of Workers on the impact of New Technology.
[1] Cfr. Rosario SITARI, Trasformazioni strutturali e prospettive di decentramento per lo sviluppo nel settore dell’energia, in Studi & Informazioni, rivista trimestrale sul governo dell’economia, n. I/1995, Banca Toscana. [2] Cfr. Emilio GERELLI, Società post-industriale e ambiente, pag. 53, Laterza 1995; [3] Le emissioni di anidride solforosa e di particelle raggiungono un massimo in corrispondenza di un reddito medio compreso in un intervallo di variabilità molto ampio (5-9.000 dollari); quelle di monossido di carbonio assumono un valore di picco in corrispondenza di un reddito medio di 11.000 dollari; per quelle di anidride carbonica il punto di svolta si colloca addirittura al livello di 35.000 dollari. Cfr. Emilio Gerelli, op. cit., pag. 54. [4] Cfr. Emilio Gerelli, op. cit., pag. 55. [5] Cfr. Rosario Sitari, Lo sviluppo delle biotecnologie tra etica, scienza e politica, Supplemento a “Lumsa News” mensile, n. 11-12, novembre – dicembre 2007, pagg. 22, 23 e 24. [6] Cfr. Alberto Bonandi, Sulla collocazione dell’etica ambientale, in Questione ecologica e coscienza cristiana, Adriano Caprioli e Luciano Vaccaro, (a cura di), pag. 197, Editrice Morcelliana,1988. [7] Cfr. S. Ecc. Mario Toso, segretario del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, Meditazione-riflessione dettata a docenti universitari, ricercatori, dottorandi, specializzandi di Roma alla luce della «Caritas in veritate», Roma, Casa «Bonus Pastor», 21 marzo 2010. [8] Caritas in veritate, 51.