di Mariaelena Finessi
ROMA, domenica, 18 luglio 2010 (ZENIT.org).- Con un inatteso guizzo di democrazia la Libia ha rilasciato, il 16 luglio, i 205 profughi eritrei da 16 giorni rinchiusi nel carcere di Al Biraq, nel Sahara, come immigrati clandestini che avevano tentato di arrivare in Italia. Di altri detenuti non si sa invece più nulla.
Nell’attesa di una sperata protezione internazionale, la destinazione per questi disgraziati è Sebah, nel deserto. Lasciati senza denaro e senza documenti, in tasca hanno un permesso di permanenza nel territorio libico valido 3 mesi, allo scadere del quale potranno andare a chiedere il passaporto alla loro ambasciata. Un modo più o meno raffinato per consegnarli al Paese di provenienza, l’Eritrea, in cui – è noto – i cittadini sono vittime di persecuzioni.
Probabilmente le testimonianze del sacerdote eritreo don Mussie Zerai, a capo della ong Habesha che si occupa di accoglienza dei migranti africani e unico contatto avuto da questi uomini e queste donne con il mondo esterno, nonché quelle rese alla commissione d’inchiesta voluta dal leader Muammar Gheddafi sono bastate a convincere molti sulle pessime condizioni di vita all’interno del campo.
Pestaggi, privazioni di cibo, di acqua e modi spicci a cui avrebbero fatto ricorso nelle due ultime settimane i rangers, i reparti dell’esercito libico alla guida di questo speciale campo punitivo. Respinti dall’Italia, condotti quindi in Libia, i profughi hanno spiegato che non volevano essere identificati dall’ambasciata del loro Paese e che perciò si erano rifiutati di firmare dei formulari in tigrino, forse forniti dagli stessi diplomatici di Asmara. E nemmeno vogliono restare in Libia (stato che non ha firmato la Convenzione di Ginevra) quanto piuttosto vedere riconosciuto il loro status di rifugiati perché scampati alle atrocità del regime eritreo.
Dunque non immigrati clandestini ma richiedenti asilo e, va da sé, alla ricerca di una protezione giuridica internazionale. Ora che sembrerebbero concluse le operazioni di rilascio da Al Biraq – da molti definiti lager, tanta è la violenza che vi verrebbe praticata (si parla di gambe e braccia spezzate) – ci si chiede però quale sarà la sorte di questi uomini anche perché non è chiaro il loro status. Dura la reazione, all’estero più che in Italia a dire il vero.
Pressioni per evitare il peggio, compreso un ambiguo impiego degli eritrei in “lavori socialmente utili”, sempre all’interno dei campi predisposti dalle autorità libiche (da qui il paragone anche con i “campi di rieducazione” cinesi, dove in realtà si è costretti ai lavori forzati) sono arrivate soprattutto dale associazioni sorte in difesa dei migranti.
E così, ad esempio, «il Centro Astalli – ribadisce il presidente, il gesuita padre Giovanni La Manna – si unisce al coro delle organizzazioni umanitarie che stanno interpellando le autorità italiane competenti perché si assumano le proprie responsabilità e facciano quanto possibile per evitare il rimpatrio in Eritrea di quei richiedenti asilo di cui è in gioco la vita stessa».
Perplessità politiche ma, prima ancora, sul piano del diritto: «Gli eventi che si stanno consumando non sono solo eventi interni alla politica libica – spiegano gli esperti dell’ASGI, Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione – , ma sono conseguenza di accordi internazionali». In una risoluzione adottata il 17 giugno 2010 il Parlamento Europeo ricorda che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione sancisce il divieto assoluto di espulsioni e respingimenti verso un paese nel quale esiste un serio rischio che i migranti che vi vengono ricondotti possano subire torture o trattamenti disumani e degradanti.
«L’attuazione di accordi di collaborazione con la Libia che ignorano totalmente il problema del rispetto dei diritti umani dei migranti – conclude l’ASGI – si pone quindi in insanabile contrasto con i principi fondamentali dell’Unione sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali».