Pillola abortiva (RU 486): un delitto in solitudine

del prof. Giuseppe Noia*

ROMA, domenica, 4 luglio 2010 (ZENIT.org).- Uno dei teoremi più diffusi e radicati nel mondo medico e nella cultura popolare è quello di pensare che l’aborto volontario sia meno traumatico se effettuato nelle epoche precoci della gravidanza, consegnando così la pratica abortiva (e tra queste la RU486, detta anche la “pillola di Erode”) al criterio della “proporzionalità traumatica”: più piccolo è l’embrione, più sicuro e più accettabile è l’aborto, con minori conseguenze per la donna.

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La sicurezza della pratica abortiva, da togliere alla clandestinità e al privato per consegnarla al mondo della Sanità pubblica, è stato uno dei capisaldi della legge 194.

Abbiamo assistito negli ultimi vent’anni, anche nel campo del prenatale, a una corsa vertiginosa all’anticipazione della diagnosi: il prelievo dei villi coriali (10-12 settimane) al posto dell’amniocentesi, il bi-test al posto del tri-test, la valutazione del liquido retronucale, fatta precocemente fra nove e quattordici settimane di gestazione, esprimono il diffuso atteggiamento dell’anticipazione temporale che insegue la “sindrome del feto perfetto”.

Tale sindrome non è scritta in alcun libro, ma oggi la respiriamo profondamente tutti ed è caratterizzata da un iter compulsivo di esami diagnostici sempre più precoci e sempre più ansiogeni: è il teorema della “proporzionalità traumatica”, l’idea, cioè, che la diagnosi precoce di un’anomalia corrisponda a una scelta più precoce e, in caso di malformazione, a una scelta abortiva meno traumatica sul piano fisico e psichico.

E’ ovvio che sul piano fisico-biologico la precocità dell’interruzione possa essere gravata da minori complicazioni. Ma quando parliamo della persona umana la sicurezza non può essere valutata solo sotto l’aspetto della tecnica abortiva e degli aspetti fisico-biologici: la salute psichica delle donne è un fatto riconosciuto da tutti come estremamente importante, e per la sua salvaguardia viene invocato il diritto all’interruzione di gravidanza dopo i 90 giorni.

Mi chiedo allora: come si può continuare ad accettare, nella prassi medica soprattutto, il criterio di proporzionalità traumatica quando tutta la letteratura scientifica evidenzia la devastante conflittualità psicologica post-abortiva, quando l’elaborazione del lutto (anche di aborti precoci e spontanei) è la causa di depressioni profonde, di perdita di libido, di infertilità e di perdita di capacità gestazionale successiva, quando nei nostri studi le donne ci gridano che la perdita di un figlio non è proporzionale al suo peso in grammi o alla sua lunghezza?

Il tasso di sofferenza che evidenziano le donne dopo un aborto, in effetti, non è altro che la dimostrazione esperienziale di una evidenza profonda che il mondo medico si rifiuta di vedere o di cui non valuta la reale gravità: che, cioè, si può interrompere una percezione biologica, ma non è possibile eliminare quella psichica né anticiparla. In definitiva, il vissuto relazionale col proprio figlio non viene eliminato con l’eliminazione dell’embrione.

La RU486 riconduce la pratica abortiva volontaria sotto l’apparente finalità della precocità e della sicurezza (il 13% richiede un’evacuazione chirurgica, si veda Ojidu JI et all., J. Obstet. Gynacol. 2001) nel tunnel dell’aborto fai-da-te (Faucher P. et all., Gynecol. Onstet Fertil. 2005), invertendo e contraddicendo le motivazioni storiche e psico-sociali che hanno motivato fortemente la legge 194: un aborto privato, per quanto precoce e sicuro sia, aggiunge solitudine a solitudine. Inoltre, mentre nell’aborto chirurgico l’interruzione di gravidanza viene delegata tecnicamente a una terza persona, nell’aborto chimico da RU486 è la stessa madre che si autosomministra il veleno che ucciderà il proprio figlio.

Gli effetti fisici sono gli stessi di un aborto chirurgico eseguito in anestesia: contrazioni, espulsione, emorragia, ma con la RU486 la donna vive tutto questo in diretta, senza neanche l’assistenza medica. E’ il massimo della responsabilizzazione psicologica!!

Colgo queste profonde contraddizioni di tipo scientifico, etico e umano nel momento in cui si vorrebbe un uso estensivo dell’aborto farmacologico alla società italiana, già pesantemente colpita da un malessere diffuso che ci fa assistere, sempre più frequentemente, a malattie dell’anima e della psiche, e in cui, purtroppo, i protagonisti sono spesso una madre e un figlio, la diade preziosa che la cultura pseudo-scientifica sembra voler sempre più separare e dividere.

*Giuseppe Noia è professore di Ginecologia e Ostetricia e Chirurgia Fetale Invasiva all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, Responsabile del Centro Diagnosi e Terapia Fetale – Day Hospital di Ginecologia del Policlinico Agostino Gemelli di Roma. Vicepresidente de “La Quercia Millenaria”, è autore di decine di libri e saggi, tra cui “Le terapie fetali invasive” e “Terapie fetali”, e co-autore del libro “Il figlio terminale”.

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ZENIT Staff

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