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Eccellenze reverendissime,
Autorità accademiche, religiose e civili,
Professori e studenti,
Amici e amiche,
A Voi tutti che avete conosciuto il carissimo Vescovo Luigi Padovese come professore, come compagno di studi, come collega, come amico o come Pastore; a voi che siete qui per condividere con la nostra realtà accademica il dolore e lo smarrimento per la sua uccisione, diciamo:
Il Signore Vi dia Pace!
Più che mai in questa circostanza il saluto di san Francesco d’Assisi appare appropriato ai nostro cuori, al nostro intimo bisogno di senso, di riconciliazione e di pace, dopo lo sgomento di questi giorni, da quando abbiamo ricevuto la terribile notizia della morte violenta di Luigi. Ma la pace non può sorgere da un discorso consolatorio generico; il nostro cuore oggi chiede di più; il nostro cuore si domanda perché, perché questo sangue versato da un pastore mite su quella terra che egli ha così profondamente amato, la terra di Paolo di Tarso, dei Padri della Chiesa, di Basilio il grande, di Gregorio nazianzeno, di Gregorio di Nissa, di Giovanni Crisostomo.
La pace viene da Dio che ci rivolge la sua parola nel Suo Figlio. L’abbiamo appena ascoltato nelle letture che ci sono state proposte. Il Vangelo di Marco, che ci racconta della passione, morte e risurrezione di Gesù. La lettera ai Romani, che ci parla della grande certezza che deve risplendere nel cuore dei cristiani anche nella tribolazione. Ma soprattutto troviamo in questi testi alcune domande che vengono incontro alle nostre inquietudini di questi giorni. Del resto è proprio del mistero di Dio che la sua risposta assuma in tutta serietà le nostre stesse domande e il nostro stesso grido. La risposta di Dio non sarebbe credibile se non si facesse essa stessa domanda e grido. L’abbiamo ascoltato dal vangelo: Alle tre Gesù gridò con voce forte: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
Il centurione, ci dice il Vangelo, vistolo spirare in quel modo, esclamò: Veramente quest'uomo era Figlio di Dio! Quel sangue versato sulla croce, nella solitudine immensa del figlio di Dio, è la risposta misteriosa che l’amore di Dio ci offre.
Ancora un’altra domanda troviamo nella Scrittura che ci riguarda profondamente: dicono le donne al mattino di pasqua: “Chi ci rotolerà via il masso dall'ingresso del sepolcro?” Non sapevano ancora che di lì a poco avrebbero incontrato l’Amato, che si mostrava in tal modo più forte del male, del peccato e della morte. Questa domanda delle donne, così amorevole, si riferisce al fatto unico e singolare della morte e risurrezione di Cristo, ma dialoga potentemente con ciascuno di noi oggi.
Pensando alla morte cruenta di Mons. Padovese abbiamo sentito anche noi come una pietra posarsi sulle nostre labbra, siamo come ammutoliti, increduli di fronte ad un dolore così grande e inaspettato. Nessuno voleva credere a queste notizie che iniziavano a trapelare nel primo pomeriggio del 3 giugno. Lo avevamo visto in tanti proprio nei giorni precedenti. Era passato da Roma per partecipare come Presidente della Conferenza episcopale turca all’assemblea della Cei; avevamo concordato insieme le ultime cose per il simposio che avrebbe dovuto celebrarsi proprio in Cilicia e in Cappadocia la prossima settimana.
Anche noi nei giorni successivi ci siamo domandati: chi potrà togliere questo masso dalle nostre labbra e dal nostro cuore per una perdita così grave? L’abbiamo conosciuto come fratello, sacerdote, vescovo, docente, così vivo che ci è parsa incredibile la notizia della sua morte. Che senso avrebbe la morte, una morte così violenta e crudele, data ad un uomo che tutti abbiamo conosciuto come mite, un uomo di dialogo, di confronto, di appassionata ricerca? Un uomo di speranza, che sapeva trovare sempre la possibilità di un nuovo inizio.
Davanti a quanto è successo in Turchia possiamo fermarci a piangere una persona cara, la perdita di un uomo di cultura, di un grande appassionato delle origini cristiane. Ma sarebbe troppo poco. Noi non possiamo fermarci all’assurdo di una violenza senza senso.
E’ il mistero pasquale a donarci una luce sul mistero della morte e della uccisione del nostro caro Vescovo Luigi.
Dalla consacrazione battesimale alla consacrazione episcopale Luigi sapeva che la vocazione cristiana chiede tutto perché sa che Cristo è tutto, è colui per il quale vale la pena spendere l’esistenza. Allora la sua morte ultimamente si trova afferrata, attratta e avvolta all’interno di quel dono di sé che Cristo, vero agnello immolato, ha realizzato una volta per tutte per liberare tutti gli uomini dalla paura della morte e dalla menzogna del peccato e della violenza.
Il mistero pasquale, mistero di morte e di risurrezione, è il senso ultimo della esistenza di questo confratello che ha servito Cristo, la servito la Chiesa, ha servito l’umano.
E allora possiamo dire anche noi come san Paolo – quel Paolo di Tarso che Mons. Padovese ha tanto amato e studiato: Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? In tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. lo sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcuna altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore.
In questa certezza che ci viene dall’amore di Cristo, crocifisso e risorto, allora non solo le nostre labbra si aprono, possono tornare a parlare; ma possono arrivare a dire “grazie”, a ringraziare. Eucaristia: rendimento di grazie per la sua vita donata. E’ proprio intorno all’altare del Signore, nel rendimento di grazie che il nostro dolore inizia sciogliersi e il nostro smarrimento trova una parola sicura.
Grazie, Signore, innanzitutto per il dono della sua vita, per fra Luigi, per la sua testimonianza di religioso sulle orme di Francesco d’Assisi nella famiglia cappuccina. Chi lo ha conosciuto come giovane frate ricorda la gioia che trasmetteva per la scelta di consacrazione che aveva compiuto. Erano tempi difficili quella della sua formazione iniziale; erano gli anni del cosiddetto 1968, della contestazione globale. Lo si poteva incontrare frequentemente tra i giovani, soprattutto nella sua parrocchia nel centro di Milano. Parlava senza timore con tutti. Chi lo ha conosciuto fin dall’ora ne apprezzava la capacità di dialogo, la sua profonda onestà intellettuale. Nell’accogliere le discussioni e le critiche, sapeva sempre valorizzare qualche cosa del suo interlocutore.
Noi oggi, giustamente, lo ricordiamo come uomo del dialogo, nelle grandi prospettive dell’incontro tra culture e religioni diverse. Ma questa era una attitudine che aveva già manifestato nella sua gioventù e che nel tempo è cresciuta fino a maturità.
Ringraziamo il Signore anche per il suo ministero sacerdotale che ha vissuto con fedeltà e dedizione. Quanti potrebbero testimoniare la sua delicatezza d’animo, la sua attenta capacità di
ascolto, la sua attitudine ad accompagnare le persone nel loro cammino spirituale, saper trovare una parola di sostegno al momento giusto! Tanti mi hanno testimoniato in questi giorni di come si sono sentiti portati da Luigi nella sua preghiera.
Ringraziamo il Signore per la sua capacità di essere amico fedele nel tempo. Dice il libro della sapienza: “Un amico fedele è rifugio sicuro: chi lo trova, trova un tesoro. Per un amico fedele non c’è prezzo, non c’è misura per il suo valore. Un amico fedele è medicina che dà vita: lo troveranno quelli che temono il Signore”.
Tanti in lui hanno trovato questo tesoro. Mi ha stupito in questi giorni di lutto ricevere messaggi di tante persone che lo hanno conosciuto e che poss ono testimoniare come la loro vita sia stata toccata e cambiata grazie alla sua compagnia. Abbiamo veramente ricevuto messaggi di solidarietà un po’ da tutto il mondo. Persino da un ex studente dell’Orissa che vive in zone di persecuzione. Ha fatto 20 chilometri per poter scrivere una email di condoglianze.
Abbiamo potuto vedere così nel cuore di quante persone la sua amicizia aveva trovato posto.
Ringraziamo il Signore per la sua attività di docenza e di ricercatore. Così a lungo qui all’Antonianum, all’Istituto Francescano di Spiritualità, che ha amato e servito con intelligenza e dedizione. Ringraziamo il Signore anche per l’insegnamento qui a Roma alla Gregoriana e all’Alfonsianum e in altri centri accademici. L’innumerevole schiera dei suoi studenti possono testimoniare come non ci si annoiasse mai durante le sue lezioni. In questo giorni tanti suoi ex studenti, oggi professori, hanno manifestato la stima per lo stile e il contenuto dell suo insegnamento.
Una caratteristica della sua docenza è stata sicuramente quella di coniugare la certezza della fede e lo spirito di costante ricerca. La certezza della fede nei misteri cristiani accendeva ogni volta il desiderio di una nuova ricerca. Non si accontentava mai di quello che aveva già trovato. La costante ricerca non era segno di un dubbio, o di una incertezza: al contrario, lo aveva imparato dai Padri della Chiesa che Dio, proprio in quanto è Colui che si fa trovare è continuamente cercato, poiché è infinto, immenso nel suo amore. E questa costante ricerca diveniva in lui possibilità di coinvolgere altri, studenti, studiosi ricercatori, anche molto diversi tra loro. Proprio perché conosceva la risposta che viene da Dio sapeva proporre a tutti l’itinerario della ricerca, anche a coloro che potevano apparire più scettici.
In questa prospettiva mi sembra bello richiamare gli innumerevoli Simposi da lui ideati, promossi e organizzati in modo instancabile durante il suo periodo di docenza all’Antonianum ed anche successivamente come Pastore in Anatolia, Simposi di carattere ecumenico (i Simposi Intercristiani), di profondo dialogo, soprattutto con il mondo ortodosso greco; i simposi paolini a Tarso e Antiochia e giovannei a Efeso, in cui riusciva a coinvolgere ricercatori religiosi e laici, nel comune desiderio della verità. In questa capacità di dialogo riuscì a coinvolgere anche studiosi appartenenti ad altre religioni, penso in particolare ad alcuni professori delle università della Turchia.
Credo che da qui possiamo dire grazie al Signore per Mons. Luigi Padovese, per il suo episcopato, come vicario apostolico dell’Anatolia. Tutti gli siamo testimoni dell’entusiasmo con cui ha accolto la nomina ad essere pastore nella terra nella quale – come dicono gli atti degli apostoli – per la prima volta i credenti in Cristo furono chiamati cristiani. La Turchia è una terra che ha amato profondamente; lo mostrano le sue pubblicazioni ed il fatto che fin dai primi anni di insegnamento si portava regolarmente in quella terra per lo studio e la ricerca.
Da studioso si è fatto così pastore amorevole, non smettendo tuttavia di essere ricercatore, ma scoprendo la stessa ricerca come risorsa per il lavoro pastorale e per l’animazione spirituale del suo gregge. In tal modo ci ha aiutato a scoprire che il vero orizzonte della teologia è sempre pastorale: proprio i padri della Chiesa ci mostrano come i grandi pastori delle origini cristiane sono stati anche grandi dottori. Infatti, la verità rivelataci in Cristo non è altro che l’amore trinitario, il Quale solo può saziare in nostro desiderio di essere amati ed amare.
Come non ricordare poi l’anno paolino che lo ha visto instancabile animatore dei numerosi pellegrinaggi; quanti gruppi da diocesi, parrocchie e da altre realtà lo hanno trovato pronto nella terra dell’apostolo delle genti a guidare i pellegrini a mettersi sulle orme di Paolo.
Ha amato quella terra, ha difeso il suo gregge, ha sostenuto il diritto delle minoranze, con discrezione e tenacia.
Ringraziamo il Signore dunque anche per gli anni del suo ministero episcopale, durante i quali tuttavia non ha mai tralasciato di offrire la sua presenza di docente qui all’Antonianum. Colpisce vedere i titoli dei suoi ultimi corsi che ha tenuto all’Istituto Francescano di Spiritualità.
In particolare desidero ricordare quello che avrebbe dovuto tenere il prossimo anno accademico: La ricerca di Dio: ponte di dialogo. Esperienze religiose antiche e moderne a confronto. In questo c’è forse in sintesi la sua eredità, di studioso, di frate francescano e di pastore. Per questo credo che possiamo auspicare che la sua eredità venga raccolta e che proprio qui in particolare all’Antonianum si possa fare tesoro della sua ricerca, mediante iniziative atte a sviluppare quanto da lui intuito e vissuto.
La sua morte così violenta ci appare a prima vista certamente una grande sciagura irreparabile, l’aver perso un amico fedele, un maestro profondo, un confratello sincero, un pastore buono. Vorrei pensare in questo momento anche alla Chiesa di cui Luigi è stato pastore in Turchia. Questo sacrificio fino al sangue sia fecondo. Siamo certi che non sarà vano e che Dio nel suo misterioso disegno saprà anche da questa situazione di grande pena e di lutto trarre un nuovo percorso di bene. Ma per questo vogliamo chiedere al Signore di rendere noi sensibili, più sensibili alla situazione dei cristiani nel medio oriente e delle minoranze religiose, e poterle aiutare perché possano vivere in piena libertà la propria fede.
Da tutto ciò impariamo anche noi che il vero senso dell’esistenza è dare la vita per i fratelli, poiché come dice Gesù, non c’è amore più grande di chi dà la vita per i propri amici. Tutti siamo chiamati a riscoprire il valore decisivo della testimonianza della nostra fede che può arrivare fino al martirio; di quella testimonianza che nella relazione con l’altro, chiunque esso sia, espone se stesso offrendogli quello che ha di più caro, Gesù Cristo e la verità dell’amore; in tal modo, il testimone si offre al rischio della libertà dell’altro.
Di questo rischio della libertà, richiesto dalla testimonianza cristiana, il Vescovo Luigi era ben consapevole, fin dall’inizio del suo mandato episcopale. Concludo con un ricordo personale: proprio qualche istante dopo aver ricevuto la notizia della sua uccisione, mi è tornato alla mente un colloqui avuto con lui il giorno stesso della sua nomina episcopale, l’11 ottobre 2004. Parlammo a lungo dell’Istituto Francescano di Spiritualità che egli aveva retto come preside per 16 anni e che ora si trovava a lasciare.
Ad un certo punto iniziammo a parlare del suo nuovo incarico in Anatolia. Ed io avendo letto della situazione nel medio oriente che iniziava a presentare segni preoccupanti per la situazione dei cristiani, ad un certo punto gli dissi, sinceramente preoccupato: “ma Luigi, ti rendi conto che la
situazione in quella terra forse potrebbe un giorno aggravarsi e mettere a repentaglio l’incolumità dei pastori?”. Mi ricordo che la nostra conversazione ebbe un momento interminabile di silenzio, interrotto da una sua serena espressione: “sì, ho messo in conto anche questo, so che potrebbe essermi chiesto tutto”.
Queste parole dal 3 giugno di quest’anno sono diventate per me un insegnamento indelebile. Il Vescovo Luigi nella sua semplicità sapeva che questa missione avrebbe potuto chiedergli il sacrificio della vita. Lo aveva ricordato del resto proprio quest’anno, qualche mese fa, nell’anniversario dell’uccisione di don Andrea Santoro, quando nell’omelia disse, riferendosi al sacerdote romano morto in Turchia nel 2006: “la sequela di Cristo può arrivare anche all’offerta del proprio sangue”.
Arrivederci! Caro Vescovo Luigi: a Dio! Grazie per averci ricordato con il tuo dono fino all’effusione del sangue che se non si ha un mo tivo per cui vale la pena morire, vorrebbe dire che non si ha nemmeno un motivo per cui vale la pena vivere. Ma questo motivo c’è e tu lo hai testimoniato: è Gesù Cristo e il suo amore per ogni uomo.
Fr. Paolo Martinelli, ofmcap