CITTA’ DEL VATICANO, lunedì, 14 giugno 2010 (ZENIT.org).- “Farsi portavoce del Vicario di Cristo potrà essere impegnativo, talora estremamente esigente, ma non sarà mai mortificante o spersonalizzante. Diventa, invece, un modo originale di realizzare la propria vocazione sacerdotale”.
Benedetto XVI lo ha spiegato questo lunedì mattina ricevendo in udienza, nella Sala del Concistoro del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri della Comunità della Pontificia Accademia Ecclesiastica, istituzione in cui si formano i sacerdoti che si preparano a far parte del servizio diplomatico della Santa Sede.
Il compito che si accingono ad assumere, ha sottolineato, ha uno “stile peculiare”. “La figura e il modo di presenza” del Nunzio, del Delegato Apostolico, dell’Osservatore Permanente, vengono infatti determinati “non solo dall’ambiente in cui si opera, ma, prima ancora e principalmente, da colui che si è chiamati a rappresentare”.
“Ciò pone il Rappresentante Pontificio in una posizione particolare rispetto ad altri Ambasciatori o Inviati – ha commentato il Vescovo di Roma –. Egli, infatti, sarà sempre profondamente identificato, in un senso soprannaturale, con colui che rappresenta”.
Nel suo discorso, il Pontefice si è soffermato in particolare su questo concetto di rappresentanza, spesso “considerato in modo parziale”, tendendo “ad associarlo a qualcosa di meramente esteriore, formale, poco personale”.
Il servizio di rappresentanza a cui i membri della Pontificia Accademia Ecclesiastica si stanno preparando “è invece qualcosa di molto più profondo perché è partecipazione alla sollicitudo omnium ecclesiarum, che caratterizza il Ministero del Romano Pontefice”, ha spiegato.
Si tratta, dunque di una realtà “eminentemente personale”, “destinata ad incidere profondamente in colui che è chiamato a svolgere tale particolare compito”.
Per Benedetto XVI, l’esercizio della rappresentanza implica “l’esigenza di accogliere e di alimentare con speciale attenzione nella propria vita sacerdotale alcune dimensioni”, a cominciare dal “coltivare una piena adesione interiore alla persona del Papa, al suo Magistero e al Ministero universale”.
In secondo luogo, bisogna “assumere, come stile di vita e come priorità quotidiana, un’attenta cura – una vera ‘passione’ – per la comunione ecclesiale”.
Rappresentare il Romano Pontefice significa poi “avere la capacità di essere un solido ‘ponte’, un sicuro canale di comunicazione tra le Chiese particolari e la Sede Apostolica”.
Ciò si realizza, “da un lato, ponendo a disposizione del Papa e dei suoi collaboratori una visione obiettiva, corretta e approfondita della realtà ecclesiale e sociale in cui si vive, dall’altro, impegnandosi a trasmettere le norme, le indicazioni, gli orientamenti che emanano dalla Santa Sede, non in maniera burocratica, ma con profondo amore alla Chiesa e con l’aiuto della fiducia personale pazientemente costruita, rispettando e valorizzando, allo stesso tempo, gli sforzi dei Vescovi e il cammino delle Chiese particolari presso le quali si è inviati”.
Il servizio che i membri della Pontificia Accademia Ecclesiastica si preparano a svolgere esige dunque “una dedizione piena e una disponibilità generosa a sacrificare, se necessario, intuizioni personali, progetti propri e altre possibilità di esercizio del ministero sacerdotale”.
“In un’ottica di fede e di risposta concreta alla chiamata di Dio – da nutrire sempre in un intenso rapporto con il Signore -, ciò non svilisce l’originalità di ciascuno, ma, al contrario, risulta estremamente arricchente”.
Lo sforzo di “mettersi in sintonia con la prospettiva universale e con il servizio all’unità del gregge di Dio”, tipici del Ministero petrino, è infatti “in grado di valorizzare, in maniera singolare, doti e talenti di ciascuno”.
In questo modo, il Rappresentante Pontificio diventa davvero un “segno della presenza e della carità del Papa”.
Questo elemento è un beneficio per la vita di tutte le Chiese particolari, soprattutto in quelle situazioni in cui la comunità cristiana si trova per svariate ragioni a vivere situazioni “particolarmente delicate o difficili”.
Secondo il Pontefice, si tratta di “un autentico servizio sacerdotale, caratterizzato da un’analogia non remota con la rappresentanza di Cristo, tipica del sacerdote che, come tale, ha un’intrinseca dimensione sacrificale”.