Segni della memoria e sfida educativa

TORINO, sabato, 15 maggio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la Lectio magistralis tenuta nel pomeriggio di venerdì 14 maggio dal Cardinale Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova e Presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), a Torino in occasione della Fiera del Libro.

Share this Entry

 

* * *

Il nostro tempo mostra attenzione spiccata al fatto educativo: ne registra la problematica la priorità in vista di una società bene ordinata, ne dilata gli spazi cronologici e sociali (scolarizzazione diffusa, educazione permanente, specializzazione diversificata) e attribuisce dignità scientifica alle discipline che vi si dedicano.

È sorprendente notare come spesso tutto ciò non conduca a valorizzare le eredità culturali, i patrimoni di sapienza consolidata e a lungo condivisa, secondo la dinamica della traditio, ma piuttosto tende a cristallizzarli quali muti testimoni del passato.

Nella stagione del tempo istantaneo e fuggente viene meno l’habitat adeguato alla memoria viva che anima la traditio. Ne deriva una marcata impasse comunicativa, una sorta di sequestro delle età, di in-comunicazione generazionale, che non è facile superare. Una cesura da perdita di memoria, un ripiegamento che declina in forme di narcisismo autoreferenziale. Senza la tradizione, il soggetto non trae linfa dalle radici e dissecca:: «la mediatizzazione della cultura comporta non solo la possibilità/responsabilità di nuove vie di presenza e comunicazione della fede, ma più profondamente la modificazione della concezione (Fassung) di verità e realtà, che con la crescente virtualizzazione dei media viene ulteriormente radicalizzata»[1].

La biografia del soggetto smarrisce così il filo conduttore di una progettualità coesa, si svolge piuttosto a puntate, come opera a trama aperta e inconclusa.

Da questo sfondo scaturisce quella estraneità comunicativa che non è solo lessicale o metodologica, ma culturale (smarrimento dei codici comunicativi).

L’amnesia culturale ed esistenziale del nostro tempo misconosce quelle radici cristiane che sono la principale sorgente del pensiero occidentale. Lo riconosce – in un testo provocatorio e quasi paradossale – lo stesso Gianni Vattimo: “Se Heidegger c’è, è perché c’è stata la tradizione ebraico-cristiana, se Heidegger ha potuto pensare che l’essere non è, ma accade, è perché ha letto la Bibbia e, segnatamente, il Nuovo Testamento. (…) È soltanto come proseguimento di una vocazione profondamente scritta nella tradizione ebraico-cristiana tramandataci insieme alla verità del pensiero greco, che noi abbiamo potuto cominciare a non pensare più all’essere in termini di principio, autorità, fondamento e, dunque, anche le strutture dell’esistente in termini autoritari, rigidi. È solo grazie all’appartenenza a questa tradizione che noi possiamo pensare debolmente”[2].

Il declino della modernità mortifica in tal modo la passione educativa. La società non è più formata sulla base di valori comuni e condivisi; piuttosto, dalla tolleranza e dal rispetto formale dei confini: rispetto senza relazione. La figura del maestro sfuma, il contesto familiare si ritira dall’educativo e spesso si sfalda, la ragione appare ormai incapace di fornire contenuti e valori universali, la scuola diventa contenitore, luogo del pluralismo senza identità, della cultura massificata e anonima, dell’assenza di principi e doveri, e finisce per generare una nuova versione dell’homo faber produttore e consumatore.

L’ipertrofia della razionalità tecnico-scientifica (CiV 32: “Va poi ricordato che l’appiattimento delle culture sulla dimensione tecnologica”) e l’atrofia della razionalità etico-valoriale conducono all’afasia del pedagogico, ridotto a mera metodologia. Piuttosto, colpita dal virus del pensiero debole, la modernità declinante ha incrementato la sindrome di smarrimento, il raccorciamento dell’orizzonte, il declino della speranza: dall’ottimismo illuministico all’attimismo della cosiddetta postmodernità.

Anche il proclamato ritorno dell’etica sembra rivestire carattere prevalentemente funzionale, quando non meramente pragmatico.

L’ultima e inquieta stagione della modernità vede dunque l’educazione posta in situazione di acuta problematicità: all’affermazione dei valori di libertà e di umanità, proclamati a voce alta, risponde un accentuato prevalere della concezione individualistica dell’esistenza.

“In un mondo che cambia”, la prospettiva cattolica respinge ogni tentativo di facile demonizzazione, ma registra con onestà la portata del passaggio da una società omogenea a una società complessa (da monocentrica a policentrica, da statica a dinamica): “Il genere umano passa da una concezione piuttosto statica dell’ordine a una concezione più dinamica ed evolutiva; ciò favorisce il sorgere di un formidabile complesso di nuovi problemi, che stimola ad analisi e sintesi nuove”[3].

Amica della ragione, la fede cristiana non può non notare il tramonto dei grandi riferimenti di pensiero – le grandi narrazioni, come s’usa dire – con il conseguente aumento esponenziale delle forme di soggettivismo, relativismo, ecc., non più solo praticamente vissuti, ma esplicitamente teorizzati (pensiero debole…); con oscillazione endemica tra l’esaltazione prometeica e il ripiegamento narcisistico.

Lo attesta la grande e disattesa tradizione medievale, caratterizzata dal vivace dibattito tra il maestro e gli studenti, propiziando quella sintesi tra autorità e ragione che conduce a una comprensione più profonda della parola di Dio. Al riguardo, san Bonaventura afferma che la teologia è “per additionem” (cfr. “Commentaria in quatuor libros sententiarum”, I, proem., q. 1, concl.), cioè rapporta la dimensione della ragione alla parola di Dio e così crea una fede più profonda, più contestuale e personale, e quindi anche più concreta. “Si inserisce qui – insegna Papa Benedetto – la perenne lezione della teologia monastica. Fede e ragione, in reciproco dialogo, vibrano di gioia quando sono entrambe animate dalla ricerca dell’intima unione con Dio. Quando l’amore vivifica la dimensione orante della teologia, la conoscenza, acquisita dalla ragione, si allarga. La verità è ricercata con umiltà, accolta con stupore e gratitudine: in una parola, la conoscenza cresce solo se ama la verità. L’amore diventa intelligenza e la teologia autentica sapienza del cuore, che orienta e sostiene la fede e la vita dei credenti” (Udienza generale di mercoledì 28 ottobre 2009).

La traditio autentica è creativa e il suo dinamismo è quello della memoria attiva, che non imbriglia la ragione entro confini angusti, ma ne dilata piuttosto gli orizzonti. Aveva visto giusto Hegel, quando a proposito del rapporto fede ragione acutamente affermava: «La vittoria gloriosa che la ragione illuminatrice ha riportato su ciò che essa, in base al limitato criterio della sua comprensione religiosa, considerava a sé contrapposto come fede, non é, a pensarci bene, nient’altro che questo: che né la realtà contro cui essa aveva combattuto era religione, né che essa stessa, che ha vinto, é rimasta ragione»[4]. Il programma della modernità si blocca proprio in quella che é, fin dall’inizio, la sua idea matrice: la capacità della ragione umana. Capacità senza limiti, di progresso immenso, di emancipazione completa e assoluta. Capacità di determinare in autonomia l’assoluto della verità e del bene, per una vita piena e felice.

Il pensiero cristiano, nutrito a una ricca tradizione che i libri hanno conservato e, in mano a veri Maestri, fedelmente tramandato apre un nuovo orizzonte, come indicato nella lectio di Regensburg di Benedetto XVI: «Questo tentativo, fatto solo a grandi linee, di critica della ragione moderna dal suo interno, non include assolutamente l’opinione che ora si debba ritornare indietro, a prima dell’illuminismo, rigettando le convinzioni dell’età moderna. Quello che nello sviluppo moderno dello spirito è valido viene riconosciuto senza riserve: tutti siamo grati per le grandiose possibilità che esso ha aperto all’uomo e per i progressi nel campo umano che ci sono stati donati.

L’etho
s della scientificità, del resto, è – Lei l’ha accennato, Magnifico Rettore – volontà di obbedienza alla verità e quindi espressione di un atteggiamento che fa parte delle decisioni essenziali dello spirito cristiano. Non ritiro, non critica negativa è dunque l’intenzione; si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa. Perché con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell’uomo, vediamo anche le minacce che emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza.

In questo senso la teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il suo posto nell’università e nel vasto dialogo delle scienze. Solo così diventiamo anche capaci di un vero dialogo delle culture e delle religioni – un dialogo di cui abbiamo così urgente bisogno.

Nel mondo occidentale domina largamente l’opinione, che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali. Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del divino dall’universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell’ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture. E tuttavia, la moderna ragione propria delle scienze naturali, con l’intrinseco suo elemento platonico, porta in sé, come ho cercato di dimostrare, un interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico.

Ma la domanda sul perché di questo dato di fatto esiste e deve essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del pensare – alla filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l’ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell’umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi ad essa significherebbe una riduzione inaccettabile del nostro ascoltare e rispondere….

L’occidente, da molto tempo, è minacciato da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così potrebbe subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza – è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella disputa del tempo presente. “Non agire secondo ragione, non agire con il logos, è contrario alla natura di Dio”, ha detto Manuele II, partendo dalla sua immagine cristiana di Dio, all’interlocutore persiano. È a questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori».

Il libro – testimone autentico del passato – diventa, nella lettura intelligente – protagonista di attualità. E incontra sempre, per apertura o per negazione, il mistero dell’Assoluto. Ricerca di Dio e cultura, infatti, si richiamano incessantemente. Cedo ancora la parola al Papa, nella splendida lectio al Collège des Bernardins:

“La ricerca di Dio richiede quindi per intrinseca esigenza una cultura della parola o, come si esprime Jean Leclercq: nel monachesimo occidentale, escatologia e grammatica sono interiormente connesse l’una con l’altra (cfr “L’amour des lettres et le desir de Dieu”, p.14). Il desiderio di Dio, “le désir de Dieu”, include “l’amour des lettres”, l’amore per la parola, il penetrare in tutte le sue dimensioni. Poiché nella Parola biblica Dio è in cammino verso di noi e noi verso di Lui, bisogna imparare a penetrare nel segreto della lingua, a comprenderla nella sua struttura e nel suo modo di esprimersi. Così, proprio a causa della ricerca di Dio, diventano importanti le scienze profane che ci indicano le vie verso la lingua. Poiché la ricerca di Dio esigeva la cultura della parola, fa parte del monastero la biblioteca che indica le vie verso la parola. Per lo stesso motivo ne fa parte anche la scuola, nella quale le vie vengono aperte concretamente. Benedetto chiama il monastero una “dominici servitii schola”. Il monastero serve alla “eruditio”, alla formazione e all’erudizione dell’uomo – una formazione con l’obbiettivo ultimo che l’uomo impari a servire Dio. Ma questo comporta proprio anche la formazione della ragione, l’erudizione, in base alla quale 

l’uomo impara a percepire, in mezzo alle parole, la Parola” (“Cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui”, Due anni esatti dopo Ratisbona, un altro grande discorso di papa Joseph Ratzinger al mondo della cultura. A Parigi, al Collège des Bernardins, il 12 settembre 2008).

Questa coltivazione della memoria non rinchiude la Chiesa nel passato, né la trattiene dentro austere biblioteche. Infatti, “tutta la Chiesa, in tutto il suo essere e il suo agire,… è tesa a promuovere lo sviluppo integrale dell’uomo” (CiV 11).

L’interesse della Chiesa cattolica per le problematiche sociali, politiche ed economiche trova ragione e impulso nella sostanza stessa della sua responsabilità apostolica: la Chiesa ha una missione e una responsabilità pubbliche. Resta ferma, naturalmente, la chiara distinzione tra l’impegno nella realtà sociale e l’annuncio della salvezza: ma non per separare o sottovalutare, tantomeno per indebita ingerenza.

Il Vangelo, che presenta una visione antropologica e un riferimento etico di altissimo valore sapienziale, illumina l’intelligenza della responsabilità morale nell’ambito sociale e politico, con duttile plasticità creativa: la parola della fede esprime tutta la sua efficacia nella ricchezza delle diversità, purché coerenti con l’orizzonte di un comune riferimento della visione antropologica e dei valori morali. La verità cristiana non è monodica, ma neppure dissonante; è, piuttosto, sinfonica (von Balthasar): non si differenzia per posizione preconcetta, per partito preso; lieto per i doni che lo Spirito diffonde tra gli uomini, il pensiero cristiano si pone come attore significativo, con la chiara consapevolezza del proprio ruolo storico e del proprio patrimonio culturale. La visione cristiana, infatti, propone un messaggio di chiara valenza culturale, aperto a tutti gli uomini di buona volontà. Per questo è amica del libro.

Anche se è indiscutibilmente vero che la salvezza ultima non sarà opera di mano d’uomo, è parimenti certo che essa è una relazione verticale da cui scaturiscono relazioni orizzontali, e tocca la realtà economica, sociale, politica, fisica, psicologica e spirituale degli uomini. È realtà escatologica, che comincia nel presente[5].

La tendenza alla privatizzazione della fede declina oggi in religiosità di consumo, sublimato autoreferenziale, del tutto sganciata dal vissuto quotidiano. 

È necessario allora far percepire nettamente che la solidarietà – ben lungi dall’essere risposta emotiva di un momento – certifica l’autenticità della fede non meno che la qualità della vita.

La memoria degli eventi di salvezza che le pagina bibliche attestano e proclamano e che la Tradizione cristiana arricchisce delinea l’identità del credente nei suoi tratti qualificanti ed essenziali. È infatti parola chiara ed esigente, che tende al riconoscimento della verità e chiede di non essere persa per la strada ella storia.

Ciò soprattutto nel nostro tempo, così diffusamente incerto e rinunciatario di fronte alla ricerca della verità, alla sua stessa possibilità e significatività[6]. Tale r
icerca non conduce le culture nel deserto della tolleranza, ma le sollecita a un comune impegno di servizio dell’uomo nella verità. Questa non spegne la domanda, al contrario. La formazione al (del) senso critico – che la sana lettura alimenta – è essenziale per l’adesione di fede, l’esperienza di fede, la maturazione della fede. La parola critica è essenziale all’enunciazione e alla recezione della fede. Non senza cautele, tuttavia: non ogni critica è costruttiva e serve a “fare” la verità.

Se non è compito della Chiesa istituzionale – segnatamente del Magistero e del Ministero ecclesiastico – determinare modelli in sede economica e politica, lo è certamente dei cristiani laici, nella personale testimonianza di impegno sociale e nelle preziose forme aggregative: agendo sempre nella chiara illuminazione della Parola della fede, di cui il Magistero è custode fedele e interprete.

In questa prospettiva, la fede cristiana illumina il profilo sostantivo della democrazia, come concezione intellettuale e come compito morale: «è urgente che ci adoperiamo perché il vero senso della democrazia, autentica conquista della cultura, sia pienamente salvaguardato. Su questo tema infatti si profilano derive preoccupanti, quando si riduce la democrazia a fatto puramente procedurale, o si pensa che la volontà espressa dalla maggioranza basti tout court a determinare l’accettabilità morale di una legge. In realtà, “il valore della democrazia sta o cade con i valori che essa incarna e promuove. […] Alla base di questi valori non possono esservi provvisorie e mutevoli «maggioranze» di opinione, ma solo il riconoscimento di una legge morale obiettiva che, in quanto «legge naturale» iscritta nel cuore dell’uomo, è punto di riferimento della legge civile” (Evangelium vitae, 70)»[7].

La fede cristiana:

– non discrimina aprioristicamente nessuna cultura (pari dignità)

– non si ritrae nella convivenza tollerante e indifferente

– considera necessaria una valutazione delle culture nella loro concrezione storica (così come la pari dignità delle persone non significa avallo di ogni comportamento, né illegittimità di apprezzamenti differenziati e scelte preferenziali).

Si inserisce qui il compito insostituibile delle istituzioni pedagogiche cattoliche, dove la relazione educativa è posta a servizio della persona nella formazione della sua razionalità, nel gusto della ricerca del vero e del bene, nella costruzione di una qualificata competenza scientifica, che si radica e si alimenta a un patrimonio di saperi che il volgere delle generazioni ha distillato in sapienza di vita.

Le evidenti difficoltà nelle relazioni intergenerazionali rendono arduo il percorso. La comunicazione è fenomeno complesso, qualcosa di più di discorso, colloquio, scambio di singole visioni e opinioni. È un processo globale di reciprocità personale e sociale. Per questo essa è attraversata, da sempre, da sentieri impervi, a volte accidentati. Oggi, paradossalmente, proprio l’aumento esponenziale delle possibilità tecnologiche moltiplica a dismisura le distorsioni e i problemi, e segnala una incidenza mai prima d’ora sperimentata sulla stessa strutturazione del sapere e dei processi psicosociali che caratterizzano la mentalità contemporanea.

Le istituzioni educative diventano così un complesso crocevia, in cui si intrecciano percorsi ingarbugliati e si scontrano itinerari e mete alternative; dove l’interesse pedagogico è disperso tra scienze distinte (e a volte distanti), dove la funzione docente spesso si trincera dietro una impossibile neutralità. 

Questo esito culturale problematico lancia a chiunque abbia a cuore il futuro dell’uomo una sfida senza precedenti: costituisce un’urgenza pressante, ma anche una occasione di portata storica, per chi non voglia rassegnarsi al fast food pseudo culturale, alla epidermide delle gratificazioni istantanee, alla rassegnata abdicazione dei depressi. Per i credenti in Cristo si prospetta, dopo tempi di accentuata separazione tra fede e cultura[8], l’opportunità storica di farsi polo propulsivo e punto di riferimento per la costruzione della civiltà del terzo millennio. «Grandi sfide e nuovi scenari si preannunciano per i prossimi anni»[9].

L’icona della Sindone pone sui sentieri dispersi un segno denso di significato e carico di speranza. Il passo lento e pensoso dei pellegrini scrive una storia diversa, lontana dal clamore mediatico. Una memoria che non recita commemorazioni, ma vive l’evento e dal lenzuolo di un defunto trae illuminazione di senso ed energia di vita. Sono uomini e donne di ogni ceto, di ogni età. La communio sanctorum – la comunione con le realtà sante – genera un nuovo riconoscimento intersoggettivo, edifica l’intimità della dimora e la reciprocità di quella comunicazione che intesse la solidarietà della polis: “communicatio in istis facit domum et civitatem”[10].

L’immagine enigmatica dell’ uomo della Sindone apre lo spazio di una comunicazione che è opera dello Spirito. Resistendo ad ogni tentativo di catturazione tecnografica, l’icona suscita un desiderio che nessuna risorsa umana può soddisfare. Che si rivela solo quando il sigillo è tolto al libro della vita.

+ Angelo Card. Bagnasco

Arcivescovo di Genova

Presidente della CEI

 

 

———-

1) F. X. KAUFMANN, Wie überlebt die Kirche, 127. 2

2) Dario Antiseri, Le ragioni del pensiero debole, edizioni Borla, Roma, 1995 – pag. 29 tratto da Gianni Vattimo, Il pensiero secolarizzato, in Il poliedro, IV, 9-10, 1987 – pagg. 79-80

3) Gaudium et spes, 5.

4) G.F.W. HEGEL, Glauben und Wissen, Werke 11, 289.

5) Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Redemptor hominis 15.

6) Cfr. C. RUINI, Chiesa in Italia oggi e catechesi degli adulti: una sfida e un compito prioritario per gli anni ’90, in UFFICIO CATECHISTICIO NAZIONALE, Adulti e catechesi nella comunità. Orientamenti per la catechesi degli adulti/2, Leumann, (Torino 1991, 25: «[La questione della fede nella nostra epoca] non è solo una questione di contenuti, pure essenziali alla catechesi e alla evangelizzazione, ma anche e prima ancora del motivo della fede… In altre parole, il problema riguarda, prima che il contenuto della fede, l’atto del credere, quella che in termini tradizionali si chiama ‘fides qua creditur’ (la fede con la quale si crede) prima ancora della ‘fides quae creditur’ (la fede che si crede). Si tratta, in altri termini, di aprire l’orizzonte umano alla Rivelazione. Questa è l’istanza decisiva, di fronte a cui la Chiesa si trova da molto tempo e non solo in Italia”; su questa situazione culturale e sulle istanze che pone all’azione pastorale cf anche, in questo stesso volume, Oltre la modernità, una sfida per la pastorale».

7) GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai partecipanti all’incontro mondiale dei docenti universitari, sabato 9 settembre 2000, 6.

8) Cf PAOLO VI, Evangelii nuntiandi, 20.

9) CEI, Evangelizzazione e testimonianza della carità, 3.

10) TOMMASO D’AQUINO, In Octo Libros politicorum Aristotelis Expositio, L. I, lectio I, n. 37

Share this Entry

ZENIT Staff

Sostieni ZENIT

Se questo articolo ti è piaciuto puoi aiutare ZENIT a crescere con una donazione