di Mirko Testa
ROMA, venerdì, 23 aprile 2010 (ZENIT.org).- Oggi la Chiesa non è più chiamata a ritagliarsi semplicemente un proprio spazio all’interno del mondo digitale, dominato dai nuovi media, ma ha il compito di lasciare una impronta originale e duratura di sé, impegnandosi in “un dialogo a tutto raggio, aperto a ogni uomo”.
E’ quanto ha affermato questo venerdì mons. Claudio Maria Celli, Presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, intervenendo al Convegno “Testimoni digitali”, promosso dalla Conferenza Episcopale Italiana (CEI).
A otto anni di distanza dal precedente incontro promosso dalla CEI dal titolo “Parabole mediatiche”, ha esordito il presule, “ci troviamo oggi quasi ad esplorare un mondo nuovo. L’accento in maniera particolarmente significativa è posto non più e non tanto sul mezzo, le parabole, quanto sul protagonista della comunicazione il testimone”.
“Un testimone – ha aggiunto – diventato nel frattempo digitale, come a sottolineare nel dato tecnico una trasformazione che non è soltanto tale. E’ davvero un mondo nuovo quello che si apre e che si svela ogni giorno di più sotto i nostri occhi”.
“Il marchio di una grande e quasi inarrestabile evoluzione tecnologica è l’aspetto più visibile di quella che va considerata non solo una svolta nel campo della comunicazione ma un vero e proprio cambio di passo nei rapporti che la conoscenza e il sapere hanno da sempre intessuto con la società civile”, ha detto.
“Oggi senza cadere nel rischio della banalizzazione non si può continuare a parlare dell’importanza dei media – ha osservato –. La vita, gli avvenimenti, tutto ciò che è intorno a noi sono un continuo e incessante richiamo al fatto semplice e naturale che i media sono ormai e in molti modi dentro la nostra stessa vita e spesso non solo la orientano ma la condizionano, reclamano per così dire una considerazione che a loro spetta ormai di diritto”.
“Dunque – ha aggiunto – la prospettiva in un certo senso cambia come per una resa naturale all’evidenza e così l’attenzione si sposta e ritorna più decisamente sull’uomo, su colui che ha rischiato forse di essere sovrastato dall’invadenza delle nuove tecnologie ma al quale è chiesto di riprendersi appieno una propria responsabilità e ripristinare così il dato essenziale di una vicenda che è essenzialmente antropologica e non tecnologica”.
Oggi, ha aggiunto il presule, “non siamo chiamati ad essere semplicemente cittadini, magari spaesati o soltanto ricchi di stupore del continente digitale. Il nostro compito neppure è quello di occupare un qualsiasi spazio e di farci presenti perché proprio non si può farne a meno”.
“Siamo chiamati invece a lasciare tracce visibili – ha sottolineato –, tracce riconoscibili che facciano pensare dai segni lasciati proprio alla nostra presenza e non a quella indistinta di qualsiasi altro. Se la Rete per definizione è virtuale a noi spetta il compito di renderla concreta, di darle spessore, di offrirle in qualche modo anima e quindi vita”.
“Come ai primi apostoli sono servite le strade allora sconosciute del mondo così la Rete dovrà servirci per portare e diffondere la Buona Novella”, che non è soltanto una “immagine poetica”.
“Abbiamo certo bisogno di essere bene equipaggiati in competenza e quindi sta a noi oggi conoscere le strade e muoverci con padronanza – ha detto mons. Celli –. Ma più di ogni altra cosa a noi oggi è richiesto di avere chiara la meta e di conoscere a fondo gli obiettivi”.
A “testimoni autentici e coraggiosi”, ha affermato ancora, il continente digitale non può che – come afferma Papa Benedetto XVI nel messaggio per la 44° Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali – “spianare la strada a nuovi incontri assicurando sempre la qualità del contatto umano e l’attenzione alle persone e ai loro veri bisogni spirituali”.
“È innegabile che in questo contesto il sacerdote gioca un ruolo particolare nella sua pastorale – ha quindi evidenziato –. Ciò a indicare l’importanza dell’utilizzazione pastorale dei nuovi media”.
“Ed è attraverso tale impegno in particolare – ha continuato – che è possibile esercitare quella diaconia della cultura digitale che si presenta oggi come un servizio non solo utile ma necessario e tale da porre l’accento sulla dimensione antropologica di tutto il fenomeno della comunicazione”.
“Nessun altro continente interpella oggi il nostro interesse e la nostra sensibilità più di questo nel quale molti di noi investono larga parte della propria attività e della propria esistenza”, ha continuato mons. Celli.
“Questo continente – ha indicato – è un po’ la nostra casa nella quale talvolta occorrerà mettere ordine o anche prendere atto che può trovarsi investita da qualche tempesta talvolta anche imprevista. E credo che non abbia la necessità di esplicitare a voi a quale tempesta mi riferisco”.
“Soprattutto in questo caso abbiamo bisogno di sapere che le nostra fondamenta sono solide e ben piantate anche nel continente digitale e uno dei modi per garantirsi della solidità di tutto l’impianto è di aprirlo a forme di condivisione volte a un bene comune che abbia a sua volta forti radici in un dialogo a largo raggio”.
Papa Benedetto, ha ricordato mons. Celli, ha indicato la costituzione di un “Cortile dei Gentili” – quello spazio del tempio a cui potevano accedere per pregare tutti i popoli, e non solo gli Israeliti – “come riedizione di uno spazio nuovo e moderno, dove esercitare l’arte di un confronto intessuto di rispetto e non quasi forma di proselitismo di cui le nuove tecnologie sembrano poter essere anche o come le ancelle di un tempo nuovo”.
“Oggi come oggi mi preoccupa meno la Torre Antonia”, ha notato a questo proposito il presule facendo riferimento all’edificio che anticamente sorgeva presso il lato settentrionale del Tempio di Gerusalemme, sede del Pretorio, dove Gesù venne processato e condannato a morte.
“Il rischio che potremmo correre è trasformarci in grandi Torri d’avorio”, ha commentato.
“Credo – ha spiegato – che il Papa ci inviti a un dialogo a tutto raggio, aperto a ogni uomo” e “che dovremmo riflettere sulla vocazione dei nostri mezzi di comunicazione in casa. Non sono scuole di fondamentalismo religioso ma vogliono essere veramente momenti di incontro, di dialogo, di ascolto vissuto nel rispetto ma anche nell’autenticità di ciò che noi siamo”.
Nuove tecnologie quindi “come ancelle dopo tutto al servizio di una verità che resta”, che è “l’elemento sempre decisivo e sempre per così dire superiore ad ogni sorta di mezzo”, ha infine concluso.