di padre Angelo del Favero*

ROMA, venerdì, 30 maggio 2010 (ZENIT.org).-“Quando (Giuda) fu uscito, Gesù disse: 'Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete ma, come ho detto ai Giudei, ora lo dico anche a voi: dove vado io, voi non potete venire. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri'”. (Gv 13,31-35).

L’importanza del comandamento dell’amore reciproco non era una novità per i discepoli. Mosè lo aveva chiaramente prescritto, come ricorda Gesù a quel dottore della Legge che gli chiede qual è il primo comandamento da osservare: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso” (Mc 22,37-38). L’Antico Testamento, tuttavia, quanto al comportamento concreto, non indicava esplicitamente nessun modello da imitare, come fa oggi la Chiesa quando celebra quell’eroica carità dei santi nella quale riconosce anzitutto un raggio puro dell’Amore di Dio, fonte di ogni santità.

Nell’ora drammatica del tradimento, Gesù sorprende i discepoli con un annuncio che costituisce una novità assoluta, impensabile, “impossibile”: il comandamento di amare con il cuore stesso di Dio, senz’ombra di risentimento, di scoraggiamento, di timore per la propria vita, mantenendo integro lo slancio anche incontro alla morte: “come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,34). Come se dicesse loro: “conoscete la generosità estrema del mio Amore per voi, a confronto del quale il vostro per me è come una nube del mattino. Ebbene, io vi lascio in eredità il mio Amore, ve lo dono come un farmaco d’immortalità: prendetelo, nutritevene e vi sentirete davvero liberi, conoscerete la vera la gioia di dare piuttosto che di ricevere, e avrete la forza di consegnarvi liberamente alla passione che vi attende. La piccola onda del vostro voler bene, diventerà la marea del mio Amore, capace di travolgere ogni resistenza, di far scaturire dall’odio omicida la Vita che vince la morte, di distruggere le opere del diavolo senza che nemmeno un capello del vostro capo abbia a perire”.

Meravigliosa notizia! Stupendo trapianto di Cuore!

Ma ora ci chiediamo: cosa significa il fatto che Gesù “comanda” ciò che intende donarci? E’ chiaro che l’amore non si può comandare, tuttavia, essendo l’amore l’unico antidoto efficace contro il veleno mortale dell’odio, esso è certamente “obbligatorio” se si vuole salvare la vita. Vediamone un mirabile testimonianza. Il comandante che stava di fronte a san Massimiliano Kolbe, ad Auschwitz, aveva ordinato la morte per fame di un prigioniero. Quell’ordine di morte risuonò nel cuore del sacerdote polacco come un comandamento dell’amore divino: darai la vita al suo posto! Allora scattò in lui il “comandamento nuovo” ricevuto da Gesù, ed egli obbedì offrendosi prontamente. Disobbedì all’ordine che vietava ai prigionieri di muoversi, fece dei passi avanti, chiese all’aguzzino di accettare l’incomprensibile scambio. E il comandante “fu costretto” a obbedire, e l’Amore vinse l’odio e la morte, non solo nel bunker della fame e della sete, ma nell’intero campo di concentramento dove la notizia dilagò come una fontana che sgorga nel deserto e fa germogliare la vita. Ora, se nel cuore di padre Massimiliano ci fosse stata solo benevolenza umana e compassione per quell’uomo, egli si sarebbe comportato come gli altri prigionieri e non avrebbe udito e seguito l’imperativo categorico dell’Amore di Cristo: dare la vita per lui!

Tornando agli apostoli, vediamo che l’Amore di Gesù era risorsa assolutamente necessaria per iniziare e portare a compimento l’immane opera loro affidata: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli…, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato...” (Mt 28,19s). Previsioni di umano successo per una simile impresa non ce n’erano, al contrario: ogni realistica supposizione di persecuzioni e difficoltà di ogni genere non poteva che sottostimare la realtà futura.

Comprendiamo perciò la necessità di possedere un’energia interiore tanto grande da non intimidirsi nemmeno di fronte al martirio, anzi da desiderarlo come si desidera la vita. Tutto questo poteva accadere solo in nome e per amore dell’amato Signore crocifisso e risorto, come grida Paolo: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità,il pericolo, la spada? Come sta scritto: “Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo considerati come pecore da macello”. Ma in tutte queste cose noi siamo stravincitori grazie a colui che ci ha amati” (Rm 8,35-37).

Alla luce di questo grido d’amore totale del persecutore trasformato in apostolo, torniamo al “comandamento nuovo” dato da Gesù ai Dodici in vista della loro missione al mondo intero. Voglio qui sottolineare queste parole: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo considerati come pecore da macello” (citate dal salmo 44/43, v. 23). Esse sembrano indicare a noi, oggi, l’ambito missionario cui il Signore ci invia: risuonano come la voce di quelle migliaia e migliaia di esseri umani che vengono messi a morte ogni giorno nel grembo delle loro madri e nei laboratori, vittime di quella “congiura contro la vita” che Giovanni Paolo II ha riconosciuto e denunciato quale ambito centrale e cruciale della “grande lotta tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre” (“Evangelium vitae” nn. 12 e 104).

Paolo dice “per causa tua”, e sembra così orientarci alle parole conclusive dell’enciclica circa l’equivalenza tra “il rifiuto della vita dell’uomo, nelle sue diverse forme, e il rifiuto di Cristo” (E.V., n.104). Il tragico destino di ognuno di questi figli dell’uomo riguarda Cristo in prima persona, poichè Egli ha detto: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli lo avete fatto a me” (Mt 25,40).

Perciò i credenti in Lui, non solo sono specificamente interpellati, ma dovrebbero considerare la “causa della vita” (E.V., n. 105) questione essenziale e pietra angolare di quella nuova evangelizzazione del III millennio per la quale il Papa ha deciso di creare un nuovo “ministero” (il Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione). Riconosciamo allora anzitutto che “..la vera questione morale del nostro tempo, in Italia e in molti altri Paesi è ..quella dell’aborto. Milioni di donne nel mondo decidono di porre fine alla vita che cresce nel loro grembo; milioni di piccoli esseri umani vengono eliminati prima di potere vedere la luce del sole; milioni di donne e famiglie soffrono di questa profonda lacerazione..è in gioco la nostra stessa concezione dell’essere umano e della sua dignità universale” (Padre G. Miranda, “Aborto: la vera questione morale del nostro tempo”, ZENIT 25 aprile 2010).

Allora è chiaro che le sfide di questa seconda e nuova evangelizzazione, dal momento che sembrano persino più formidabili di quelle affrontate dagli apostoli all’inizio della prima, non potranno essere vinte senza l’infinita risorsa del “comandamento nuovo” di Gesù, dono e compito dato a noi nel sacramento dell’Eucaristia: “L’Eucari stia ci attira nell’atto oblativo di Gesù. Noi non riceviamo soltanto in modo stabile il Logos incarnato, ma veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione. (…) Nell’Eucaristia l’Agape di Dio viene a noi corporalmente per continuare il suo operare in noi e attraverso di noi. Solo a partire da questo fondamento cristologico-sacramentale si può capire correttamente l’insegnamento di Gesù sull’amore. Nel culto stesso, nella comunione eucaristica è contenuto l’essere amati e l’amare a propria volta gli altri...: l’amore può essere “comandato” perché prima è donato” (Enciclica “Deus Caritas Est”, n.14).

Assolutamente vero e confortante,..ma le cose non sono così semplici ed automatiche, come appare dall’esempio stesso dei discepoli. Essi, infatti, poco dopo aver ricevuto il Corpo del Signore, lo abbandonarono tutti.

Oggi, ad esempio, lo scandalo degli abusi sessuali del clero (una condotta che si colloca ai più odiosi antipodi dell’amore del Signore), mette in crisi la fede stessa nell’Eucaristia (da noi celebrata quale sacramento che “fa’ la Chiesa”), nonostante la stragrande maggioranza dei sacerdoti continui a dare splendida testimonianza dell’Amore di Cristo. In verità, poi, un gran numero di fedeli che pur si nutre ogni giorno del Corpo di Cristo, confessa la propria impotenza a superare i dinamismi istintivi del comportamento e del carattere, spesso dolorosamente contrari al rispetto e all’accoglienza del prossimo. Così la parola del “comandamento nuovo”, nel concreto quotidiano sembra vanificata anche da coloro che dovrebbero testimoniarne al mondo la potenza trasformante.

Quali le cause e quali i rimedi?

Benedetto XVI ha recentemente indicato, al riguardo, alcuni punti estremamente significativi:

- “Ricordino (i ministri ordinati) che il sacerdote continua l’opera della Redenzione sulla terra;

- sappiano sostare volentieri davanti al tabernacolo;

- aderiscano totalmente alla propria vocazione e missione mediante un’ascesi severa;

- si rendano disponibili all’ascolto e al perdono;

- formino cristianamente il popolo loro affidato;

- coltivino con cura la fraternità sacerdotale” (al “Regina Caeli” del 25/04/2010).

Al centro di tutte queste esortazioni ce n’è una dalla quale tutto il resto dipende, in quanto necessaria per l’unione con Dio: l’ “ascesi severa”. Sorprende l’uso di questo aggettivo, severa. Esso avrebbe fatto gioire il santo curato d’Ars, ma suscita certamente perplessità in moltissimi sacerdoti, religiosi e laici d’oggi. Eppure l’indicazione è chiara: se si vuole aderire totalmente alla propria vocazione e missione è necessaria un’ascesi severa. Ciò non significa mortificazioni fuori luogo e fuori tempo, ma semplicemente non voler nulla che non sia volontà di Dio, nemmeno una sigaretta. Se infatti, anche in una piccola cosa, la mia volontà intende opporsi alla volontà di Dio, la conseguenza sarà l’impossibilità di quella adesione totale a Lui che Gli permette di compiere in me “grandi cose”, con la conseguenza negativa di trovarmi tristemente vulnerabile su tutto l’ambito dei sensi, non ostante l’Eucaristia quotidiana.

Ogni battezzato, per essere mosso liberamente dallo Spirito del Signore, non deve rimanere volontariamente legato nemmeno ad un “filo” di abitudine disordinata davanti a Dio, come insegna un Dottore della Chiesa: “Finchè dura quest’abitudine, infatti, è impossibile che l’anima possa progredire nella perfezione, anche se commettesse imperfezioni di poco conto. Poco importa che un uccello sia legato a un filo sottile o grosso; anche se sottile, finchè sarà legato, è come se fosse grosso, perché non gli consentirà di volare. E’ vero che è più facile spezzare il filo sottile; ma anche se facile, finchè non lo spezza, non vola. Il peggio è che, a causa di quell’affetto, non solo non progrediscono, ma tornano indietro, perdendo ciò che in tanto tempo e a prezzo di grande fatica avevano guadagnato. Si sa infatti che in questo cammino non andare avanti equivale a tornare indietro e non guadagnare è come perdere. Chi non ha cura di riparare anche la più piccola screpolatura del vaso, perderà tutto il liquido in esso contenuto” (S. Giovanni della Croce, “Salita del Monte Carmelo”, 11, 3-5).



-------

* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E' diventato carmelitano nel 1987. E' stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.