Come riscoprire la vocazione

Intervista a Stefano Fontana, direttore dell’Osservatorio “Cardinale Van Thuan”

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di Antonio Gaspari

ROMA, mercoledì, 24 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Per molti giovani di oggi, la vocazione è qualcosa che riguarda solo chi vuole diventare sacerdote.

L’aspirazione a realizzare nel lavoro e nella vita i propri ideali e le proprie aspettative è travolta dal crudo materialismo, dalla percezione che l’unico rapporto con la realtà è dettato dal cinismo e dalla velocità supersonica con cui si consumano rapporti, amicizie, prodotti, giochi.

Inoltre ben più lontana è l’idea che nel decidere il futuro di ognuno ci sia un indirizzo del Creatore.

E’ per spiegare il senso della vocazione e dell’attesa, che Stefano Fontana, direttore dell’Osservatorio Internazionale “Cardinale Van Thuan” sulla Dottrina Sociale della Chiesa (http://www.vanthuanobservatory.org/) ha appena pubblicato il saggio “Parola e comunità politica” (edizioni Cantagalli).

Nel presentare il libro Fontana, che è anche consultore del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, ha scritto che la “crisi della vocazione è molto preoccupante”, perché inibisce “la convivenza: l’accoglienza, la gratitudine, la gratuità”.

Parlando del saggio, Fontana ha spiegato che “lo scopo di questo libro è segnalare la strada per una inversione di tendenza, perché l’uomo sordo alla vocazione non sa più dove andare”.

Per cercare di comprendere il senso profondo della vocazione di ognuno e il perchè la società moderna sembra voler fare a meno di Dio, ZENIT ha intervistato Stefano Fontana.

Che cos’è la vocazione?

Fontana: La vocazione è una chiamata, una parola che ci viene incontro, chiedendoci una adesione. Comunicandosi, la vocazione ci attira e ci invita a costituirci nella nostra identità. Nella risposta al senso che ci interpella noi ci costituiamo nel nostro proprio senso. Quando troviamo un senso che non abbiamo prodotto siamo davanti ad una parola che ci viene rivolta, ad un appello, una vocazione. La vocazione è la manifestazione dell’incondizionato.

Nel libro appena pubblicato lei sostiene che la mancanza di vocazione impedisce lo sviluppo umano, limita la convivenza sociale e politica, penalizza la tenuta della famiglia e l’impegno solidale nel lavoro e nei rapporti con gli altri. Perché?

Fontana: Il fenomeno più preoccupante dei nostri giorni è la crescente difficoltà a leggere nelle cose e nella nostra vita una parola su di noi, un appello. Si fatica a vedere nella persona amata una vocazione.

Il matrimonio e la famiglia sono visti sempre più come scelte e convenzioni, non come realtà contenenti una proposta di senso importante per la nostra umanità, una bellezza che ci attrae e ci appassiona. Nella stessa nostra natura di persone umane si fatica a riscontrare un discorso su come dovremmo essere, l’indicazione di un cammino da percorrere.

Essere uomo ed essere questo uomo rappresentano ancora una vocazione davanti al soggettivismo e ad una cultura che vorrebbe inglobare in sé la natura? Molti oggi non vedono nella identità sessuale una vocazione, ma una scelta. Avere una umanità determinata sessualmente non è qualcosa che ci parli più e ci comunichi un progetto, ma una nostra costruzione.

La nostra intera fisicità è fortemente tenuta in considerazione nelle società del benessere, ma come qualcosa da plasmare, pianificare, decostruire e ricostruire, mostrare, non come vocazione da valorizzare. Il pudore nasce dalla percezione che il corpo è parola, ma il nostro corpo non ha quasi più nulla da dirci, la prima ed ultima parola su di esso presumiamo di trovarla nelle creme e nelle pillole, nelle palestre e nel bisturi, nel silicone e nei chips.

Anche l’ambiente naturale che sta davanti a noi – la natura nel senso naturalistico del termine – è prevalentemente visto come un insieme di oggetti funzionali. Esso non è più il “creato”, discorso del Logos creatore, parola attuata, con un messaggio da comunicare.

Viviamo in una società dove è esagerata l’autoesaltazione dell’ego. Sembra che per raggiungere la felicità, bisogna avere un potere totale sulla realtà e sulle cose, di poter disporre delle persone e dei loro corpi, di realizzare il pieno e totale edonismo. Sono forse questi i motivi che hanno portato all’offuscamento della vocazione e che fanno disperare coloro che non trovano più il senso della vita?

Fontana: La crisi della vocazione è molto preoccupante, anche in termini sociali e politici, perché inibisce tre atteggiamenti di fondamentale importanza per la convivenza: l’accoglienza, la gratitudine, la gratuità.

Il primo è l’Accoglienza..La crisi demografica che colpisce molti paesi e li indebolisce moralmente prima che economicamente, è dovuta a questa diffusa difficoltà ad accogliere. Le leggi sul “suicidio assistito” denunciano una carenza di accoglienza della vita stessa.

Il multiculturalismo e il suo fallimento mostrano che la tolleranza indifferente non è vera accoglienza. L’accoglienza dell’altro ci è del resto impossibile senza l’idea di accogliere noi stessi e l’esperienza di essere stati, a nostra volta, accolti.

Il secondo è la Gratitudine. Se le persone e le esperienze non ci parlano, non ci scopriremo debitori e faremo certamente fatica ad essere grati di averle incontrate. La nostra famiglia, la nostra cultura, il nostro essere uomo o donna, avere dei figli, lavorare, provenire da una storia, avere ricevuto la vita … tutto ciò può essere oggetto di gratitudine se vi riscontriamo una eredità di parole dette, uno svelamento di senso che in qualche modo ci ha dato delle luci.

Altrimenti c’è il rifiuto e la negazione di tutto ciò, o addirittura la vergogna o l’odio per avere subito una serie di imposizioni e violenze, quando non addirittura l’abiura oppure l’apostasia da se stessi e dal proprio passato. La nostra stessa identità può non essere vissuta con gratitudine. L’Occidente sembra particolarmente colpito oggi da questa sindrome della vergogna di se stesso e dall’ingratitudine.

Se non proviamo gratitudine verso chi ci ha trasmesso determinati valori non ci riteniamo in dovere di trasmetterli a nostra volta. La carenza di gratitudine rompe la continuità tra le generazioni e produce l’ “emergenza educativa”.

Il terzo è la Gratuità. La vocazione ci è data in dono. Perdere il senso della vocazione significa perdere il senso del dono e pensare che il senso è sempre e solo prodotto da noi. Se il mio passato, la mia natura, gli altri non mi parlano significa che il loro senso lo stabilisco io, o noi, se ci riferiamo alle strutture culturali o sociali.

Gratuito è ciò che va semplicemente accolto come grazia, verso cui si mostra gratitudine per averlo potuto accogliere. La vocazione comporta tutto questo in quanto non è una parola che pronunciamo noi, ma una parola pronunciata su di noi. Quindi una parola donata.

Qual è il fine di questo libro? E in che modo la fede cristiana e la dottrina sociale della Chiesa possono risolvere i problemi dell’umanità?

Fontana: La parola vocazione ricorre almeno una ventina di volte nella Caritas in veritate di Benedetto XVI, senza contare i sinonimi. Se le cose, le persone e gli avvenimenti non ci parlano; se pensiamo di essere solo il frutto di determinismi allora nessuna avvenimento nuovo può veramente accadere e noi rimaniamo vittima di noi stessi.

Senza vocazione l’uomo non sa dove andare, perché l’essere mosso da dietro piuttosto che attratto da davanti non lo soddisfa. L’uomo è attesa di vocazione, attende una parola che gli venga incontro. Tutto il mio libro ruota attorno alla circolarità di attesa e vocazione, dato che solo la vocazione che corrisponde ad una profonda attesa dell’uomo è veramente umana.

La fede cristiana ha questa pretesa, di es
sere “amica dell’uomo” o “dal volto umano”, ossia di corrispondere alle sue attese. La stessa cosa si può dire per la Dottrina sociale della Chiesa che corrisponde alle attese del mondo, come la fede corrisponde a quelle della ragione e la carità a quelle della giustizia. E’ per questo che la fede cristiana non si aggiunge “dopo” ma ha a che fare con la costituzione stessa dell’umano. La fede cristiana è una vocazione che è già presente nella forma dell’attesa.

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ZENIT Staff

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