Quando il cinema è fedele al racconto biblico

Intervista a mons. Dario Viganò, esperto di cinema e comunicazione audiovisiva

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di Mirko Testa

ROMA, mercoledì, 17 febbraio 2010 (ZENIT.org).- La minore o maggiore fedeltà di un film al racconto biblico può essere spesso più sfuggente di quanto si creda.

E’ quanto sostiene mons. Dario Edoardo Viganò, presidente della Commissione nazionale per la valutazione dei film della Cei, preside dell’Istituto Pastorale “Redemptor Hominis” e docente di Semiotica degli Audiovisivi alla Lumsa.

Mons. Viganò, che tra l’altro è anche presidente della Fondazione Ente dello Spettacolo, ha curato di recente “Il Dizionario della comunicazione” (Carocci, 2009), un’opera di 1300 pagine frutto di un lavoro durato quasi due anni, che ha coinvolto ben 106 autori e professori provenienti da più di 20 università italiane e straniere, e che presenta un approccio interdisciplinare e moderno alla comunicazione.

Il 12 febbraio scorso, è intervenuto con una relazione dal titolo “Testo biblico e ri-figurazione audiovisiva” a un convegno svoltosi presso l’Abbazia di San Paolo fuori le Mura, che è stato presieduto e coordinato dall’abate padre Edmund Power, OSB.

Per saperne di più ZENIT lo ha intervistato.

Ci può riassumere i contenuti salienti del suo intervento al convegno?

Mons. Viganò: Il mio intento è stato quello di ripercorrere la storia del cinema per rintracciare tutte le riscritture audiovisive del testo sacro che trattano in particolare della Passione o comunque delle vicende di Gesù. Questi tentativi di riscrittura partono da molto lontano e risalgono alle origini del cinema, perché allora era il soggetto più conosciuto e poteva quindi essere immediatamente riutilizzato in termini edificanti e catechetici. Pensiamo, per esempio, a “Cristo che cammina sulle acque” di George Méliès oppure al grande lungometraggio “Christus” di Giulio Antamoro.

Di fatto nella storia del cinema abbiamo tantissime riscritture che hanno posto anche non poche perplessità ai critici sulla loro maggiore o minore fedeltà al testo sacro. La domanda, quindi, a cui ho voluto rispondere è stata: ci sono dei criteri per capire se una riscrittura audiovisiva è corretta oppure no? Inoltre: cosa si intende per fedeltà? Fedeli a che cosa? Io ritengo che ci siano dei film che pur avendo a livello visivo, narrativo, di superficie una grande aderenza al testo biblico di fatto sono privi di forza, d’identità spirituale ed esistenziale. Altri film, al contrario, pur non raccontando dal punto di vista visivo e narrativo un immediato legame con il testo sacro presentano con grande intensità alcuni momenti della narrazione biblica.

Ci può fare qualche esempio?

Mons. Viganò: Un esempio contemporaneo lo troviamo in “Diario di un curato di campagna” il film scritto e diretto da Robert Bresson, tratto dal romanzo omonimo di Georges Bernanos, dove abbiamo una vicenda di un prete, di un uomo malato di cancro che può cibarsi esclusivamente di vino e di pane. Una figura, quindi, che collochiamo in un profilo eucaristico-sacrificale. Quest’uomo a un certo punto della vicenda segue un percorso che anche dal punto di visto visivo rimanda alla caduta di Cristo lungo il cammino verso il Golgota. Anche “Gran Torino”, la pellicola scritta, diretta e interpretata da Clint Eastwood, ha un evidente richiamo cristologico. Questi due film non rimandano immediatamente alla Bibbia ma hanno un loro modo di richiamare il racconto biblico a partire da vicende e ambiti da esso distanti.

Nella storia del cinema ci sono state delle riscritture pensate come eterodosse e irriverenti. Tuttavia, molto spesso si dimentica che il titolo predispone lo sguardo e dice molto del testo che lo spettatore non ha ancora visto. Allora un titolo come “L’ultima tentazione di Cristo” di Martin Scorsese diventa molto eloquente e non è un caso che alla fine del film – tutto giocato su un lungo flashback che può ingannare lo spettatore disattento – ci venga mostrata la pellicola bruciata, come a dire: attenzione. Risvegliati. E’ tutto un grande sogno ma ricordati del titolo perché la tentazione non è ancora peccato.

Di recente è stato presentato il messaggio di Benedetto XVI per la prossima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali sul tema “Il sacerdote e la pastorale nel mondo digitale: i nuovi media al servizio della Parola”. Lei cosa ne pensa al riguardo?

Mons. Viganò: Sono un po’ di anni che si insiste spesso sulle nuove tecnologie. E’ un bene che ci si accorga dell’esistenza di un mondo multimediale che non sta solo abitando ma anche sperimentando degli aspetti fino ad oggi un po’ sconosciuti all’interno della Chiesa. Penso ad esempio al web 2.0 alla crossmedialità. A partire da qui, dobbiamo crescere molto. Infatti, le tecnologie digitali si possono prestare a molti più utilizzi. Per esempio, molto spesso il web 2.0 si riduce a una bacheca espositiva delle iniziative, mentre in realtà permette anche l’interazione e la partecipazione che sono due step successivi molto impegnativi.

Perché ciò avvenga, però, sono necessarie grandissime risorse umane, persone sempre connesse ma soprattutto occorre passare al vaglio critico alcune categorie che per la Chiesa sono fondamentali. Per esempio sappiamo che il Diritto canonico circa l’opinione pubblica è molto preciso. Allora, nell’ambito pastorale e su tematiche morali, come possiamo mettere appunto una gradualità per cui se interviene un Vescovo chattando con qualcuno ha una autorevolezza mentre se interviene un sacerdote ne ha un’altra e un catechista un’altra ancora?

Il dato significativo è che il messaggio del Papa precisa immediatamente l’ambito pastorale. Molto spesso oggi, quando si parla di Chiesa, di comunicazione o di temi affini, quello che si osserva è un approccio povero, deficitario. E quindi mettiamo da una parte la riflessione teologica, mentre dall’altra molto spesso prendiamo in prestito le categorie sociologiche. Ma così facendo cerchiamo semplicemente di giustapporre degli ambiti disciplinari che di fatto rimangono sempre estranei gli uni agli altri. Così facendo il Papa intende invece richiamare l’azione della Chiesa, che è divina e umana insieme, e che fa sì che la Salvezza si dà nell’azione cristiana stessa, all’interno di un contesto di reti e di mutimedialità o crossmedialità sempre più pervasive.

Qual è lo stato di salute del cinema italiano di oggi?

Mons. Viganò: Abbiamo visto per esempio l’apertura dell’anno con “Io, loro e Lara” di Carlo Verdone Verdone e “La prima cosa bella” di Paolo Virzì, due film che vanno molto bene, due storie importanti, con incassi notevoli. Tutti indizi che ci fanno ben sperare per un rilancio del cinema italiano nei prossimi anni. Diverso, invece, il discorso se guardiamo al problema dal punto di vista del sistema-cinema, dell’apporto cioè del soggetto pubblico alla produzione e prima ancora allo sviluppo della sceneggiatura. Qui molto spesso si sentono profeti di sventura che invocano il venir meno tout court dei finanziamenti dello Stato oppure l’ingiustizia di alcuni finanziamenti. Il problema è che fin quando ci sarà questa legge, si dovrà applicarla. Poi si può essere d’accordo oppure no. Anch’io ritengo, per esempio, che la legge necessiti di una revisione ma ritengo anche che non sia possibile mettere mano a una revisione limitandosi al problema dei finanziamenti ai lungometraggi. E’ urgente dare vita a una legge di sistema-cinema. Si tratta, infatti, di un compito molto importante, che in parte è stato anche perseguito.

A mio avviso si sta aprendo una stagione nuova, in cui dobbiamo pensare al cinema come a una dorsale della cultura italiana, e non guardare solamente all’indotto economico e sociale che esso porta. Non possiamo farci belli sempre e continuamente negli Stati Uniti del nostro neorealismo, quando poi le politiche di sostegno economico al cinema sono politiche denigratorie e diffamatorie, che puntano di fatto al disfacimento di qu
esto sistema. Certamente, ci sono molte cose che vanno sistemate, ci sono degli accorpamenti che sarebbero auspicabili, ma un conto è ragionare pacatamente e darsi una progettualità e una tempistica per affrontare questi aspetti e un conto è passare con la falce e tagliare. Credo che sia un atteggiamento scorretto.

Generlamente in che modo viene tratteggiata nel cinema la figura del sacerdote?

Mons. Viganò: Diciamo che è difficile rintracciare dei paradigmi molto precisi. Certamente molto spesso il prete è stato raccontato come grande difensore della verità, baluardo dei suoi tempi, come colui che incarna le tensioni e i drammi del tempo in cui vive e di questi drammi è l’icona di speranza e di risoluzione. Pensiamo al film “Alla luce del sole” di Roberto Faenza, dove su uno sfondo dominato dalla corruzione si staglia la figura di questo prete che si eleva contro la mafia. Non è un caso che, dopo la sua morte, si veda nella scena girata in chiesa la sua bara attorniata dai bambini. Il suo sacrifico funziona, ha un senso per le generazioni future.

Pensiamo anche a “Popieluszko” di Rafal Wieczynski, che ripercorre la dolorosa vicenda del “cappellano di Solidarnösc” che si fece difensore dei diritti civili sotto il regime comunista. Se volessimo fare, invece, un affondo in un film che non è più così recente, non potremmo non parlare di “Padre Daens” di Stijn Coninx, che racconta la storia di un gesuita belga, che sulla scia della Rerum Novarum di Leone XIII (1891) e sullo sfondo delle lotte operaie che infiammavano allora le Fiandre, decide di lasciare l’insegnamento e di occuparsi dei bambini e delle donne vittime di sfruttamento.

Un’altra dinamica ricorrente fa riferimento al prete nelle varie declinazioni dell’esercizio del suo ministero. C’è per esempio il prete predicatore. E qui ricordiamo tutti i personaggi un po’ macchiettistici di Verdone dal frate logorroico di “Viaggi di Nozze”, a don Alfio in un “Un sacco bello” e a padre Spinetti in “Acqua e Sapone”; oppure il prete del film “Casomai” di Alessandro D’Alatri, che pronuncia una predica molto eccentrica ma allo stesso tempo significativa. C’è poi il prete còlto nell’esercizio del suo ministero in confessionale, che diventa spesso il luogo del segreto, dell’orecchio teso, dello sguardo furtivo ma anche l’elemento scatenante per un plot thriller.

Infine un’ultima polarizzazione riguarda i preti missionari. Pensiamo non solo a “Mission” di Roland Joffé, ma anche all’ultimo di Verdone, che pur essendo una commedia riesce a rappresentare bene l’umanità di un prete che fa i conti con la sua pochezza e che alla fine deciderà di tornare in missione. E proprio nella scena finale – quando tutta la famiglia, che pur rimarrà nei suoi problemi, comparirà insieme seduta su un divano e impegnata in una telefonata via web – quella che emerge è la speranza cristiana. Quella speranza cristiana che non è eliminazione delle problematiche ma invito a continuare nonostante le difficoltà.

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ZENIT Staff

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