di padre Angelo del Favero*
ROMA, venerdì, 5 febbraio 2010 (ZENIT.org).-“Mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennesaret, vide due barche accostate alla sponda.(…) Quando ebbe finito di parlare disse a Simone: ‘Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca’. Simone rispose: ‘Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti’. Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare. Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: ‘Signore allontanati da me perché sono un peccatore’.(…) E tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono” (Lc 5,1-11).
“Nell’anno in cui morì il re Ozia, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; (…) E dissi: ‘Ohimè! Io sono perduto…'(…) Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò le labbra e disse: ‘Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato’. Poi udii la voce del Signore che diceva: ‘Chi manderò e chi andrà per noi?’. E io risposi: ‘Eccomi, manda me!’” (Is 6,1-8).
“Vi proclamo poi, fratelli, il Vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l’ho annunciato. A meno che non abbiate creduto invano! A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto… (…) Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me” (1 Cor 15,1-10).
Il messaggio della XXXII Giornata per la Vita (La forza della vita, una sfida nella povertà), è stato consegnato dal Signore Gesù a Paolo, duemila anni fa, con queste parole: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. Ricevuto il messaggio, l’apostolo ne ha rilanciato la sfida al mondo intero proclamando: “Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo” (2 Cor 12,9).
La parola chiave di questo straordinario versetto paolino è “debolezza”. Non significa semplicemente ‘poca forza’, ma totale insufficienza di forze di fronte alla prepotenza dell’avversario: la debolezza disarmata di Davide davanti a Golia, una sfida che Dio solo può vincere.
“Debolezza” è anche la parola chiave delle Letture di oggi. E’ la debolezza fisica dei pescatori del lago di Gennèsaret, che avendo faticato invano tutta la notte, accettano la sfida della fede nella Parola di Gesù: “Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca”(Lc,5,4); la debolezza morale del profeta Isaia, che pur consapevole di essere uno strumento inadeguato (“Ohimè, io sono perduto perché sono un uomo dalle labbra impure…” – Is 6,5) crede nel potere purificante della Parola e accetta prontamente la sfida della missione divina: “Eccomi, manda me!” (Is 6,8); la debolezza spirituale di Paolo, il quale, consapevole di essere “il più piccolo tra gli apostoli,..” (1 Cor 15,9), accetta la sfida della propria indegnità, confidando totalmente nella grazia di Dio che lo ha trasformato: “..non io, però, ma la grazia di Dio che è con me” (1Cor 15,10).
La sera del 5 aprile di cinque anni fa, sotto gli occhi del mondo intero, moriva un uomo forte come l’apostolo Paolo, da tempo divenuto debole come Gesù crocifisso. Quest’uomo era un profeta, un profeta venuto da lontano di nome Karol, purificato fin da bambino nel crogiuolo della sofferenza per essere il futuro Giovanni Palo II, il “Papa della vita”. Dopo la sua nascita al Cielo, tutti i confini della terra hanno veduto realizzarsi nella sua persona il versetto di 2Cor 12,9.
La debolezza della vita vincerà la sfida con le forze della morte solamente se gli uomini ascolteranno la voce profetica di quest’uomo divenuto Papa: “Ritroviamo, dunque, l’umiltà e il coraggio di pregare e digiunare, per ottenere che la forza che viene dall’Alto faccia crollare i muri di inganni e di menzogne, che nascondono agli occhi di tanti nostri fratelli e sorelle la natura perversa di comportamenti e di leggi ostili alla vita, e apra i loro cuori a propositi e intenti ispirati alla civiltà della vita e dell’amore” (Enciclica “Evangelium vitae”, n. 100).
Karol Wojtyla è un uomo che Dio ha sempre più ricolmato della sua Presenza. Egli ha riversato tale abbondanza di Vita nella sua enciclica più essenziale, “Il Vangelo della vita”, testamento perenne del suo cuore di padre, nella quale fin dalla prima pagina trapela un implicito riferimento alla sua persona e alla sua missione. Scrive infatti all’inizio: “Presentando il nucleo centrale della sua missione redentrice, Gesù dice: ‘Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza’ (Gv 10,10)” (E.V., n.1). Giovanni Paolo II è un Papa la cui missione può essere definita da queste stesse parole di Cristo, riferite anche a lui stesso. Egli è venuto per annunciare, celebrare e servire il Vangelo della vita, “quella vita ‘nuova’ ed ‘eterna’, che consiste nella comunione con il Padre, a cui ogni uomo è gratuitamente chiamato nel Figlio, per opera dello Spirito Santificatore; proprio in tale ‘vita’ acquistano pieno significato tutti gli aspetti e i momenti della vita dell’uomo” (E.V., n.1).
La pienezza di questo divino compimento della vita umana è il messaggio da diffondere e testimoniare, oggi e sempre, per mezzo di ogni iniziativa tesa a promuoverne la cultura, non senza “ricordare a tutti quelli che lottano per la vita, che la cultura della vita esiste non per indebolire i cultori della morte, ma per salvarli, per offrire loro nuovi segni di speranza. La cultura della vita lavora per la crescita della giustizia e della solidarietà, cerca di costruire un’autentica civiltà della vita e dell’amore.(…)” (da G. Herranz, Pontificia Accademia Pro Vita, “La cultura della vita: un impegno affermativo”).
Il motto divino di tali infaticabili lottatori dovrebbe essere questo: “Se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori” (Salmo 127/126, v.1). Cosa significa, per i costruttori della cultura della vita, lasciare che sia il Signore a costruire la casa? Lo spiega il citato documento della PAV, ricavando dall’enciclica E.V. una duplice risposta.
Anzitutto significa porre il fondamento della verità della vita: “Una ricerca sistematica nel testo dell’Evangelium Vitae della parola “verità” e dei termini imparentati, ci mostra in modo palese che il Santo Padre pone la verità come un elemento essenziale della teoria e la pratica della cultura per la vita. Ci parla del valore fondamentale della verità nella diffusione del Vangelo della vita, perché è soltanto attraverso un profondo rapporto con la verità che l’uomo riesce a scoprire e a diffondere il rispetto per l’umanità di o
gni essere umano.(…) La cultura della vita è una cultura di verità e amore. Quindi solo nell’onestà intellettuale, nella ricerca della verità, nello sforzarsi ad amare e perdonare, i movimenti a favore della vita troveranno il loro spazio intellettuale ed etico. (…) Penso che abbiamo un obbligo particolare di aiutare a costruire una cultura della vita che sia solidamente fondata sulla valutazione amorosa ed intelligente, critica e gioiosa della ” (id.).
Quest’appello alla verità, io credo, richiama in primo luogo alla conversione personale. Lo suggerisce, oggi, il racconto della vocazione del profeta Isaia.
Isaia è un profeta che viene consacrato da Dio stesso mediante un tocco incandescente delle labbra, eseguito da un angelo con un carbone ardente preso dall’altare. Nell’A.T., quando non è un sacerdote a compiere il rito di consacrazione ma Dio stesso (mediante il suo messaggero celeste), allora consacrare significa: “eleggere”, “assegnare una missione”, “inviare”. E’ questo il senso pieno e perfetto della consacrazione che sarà rivelato da Gesù nell’ultima Cena, quando Egli chiede al Padre di “santificare” (consacrare) i discepoli, come Lui stesso si è “santificato”, per poterli mandare nel mondo: “Come tu hai mandato me nel mondo, anch’io ho mandato loro nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità” (Gv 17,18-19).
E’ la sua stessa Parola-Verità che li ha consacrati-purificati, rendendoli mondi (Gv 15,3: “Voi siete già puri a causa della parola che vi ho annunciato”). La consacrazione-purificazione-santificazione è opera della “Verità”, la quale è Gesù in persona che si offre in sacrificio sull’altare della croce, sacrificio misticamente anticipato nel Cenacolo, dove distribuisce Se stesso come Pane consacrato dalla sua Parola. Così le labbra dei discepoli sono toccate dall’Amore ardente di Dio fatto Carne eucaristica, ed essi vengono consacrati “apostoli”, cioè inviati, mandati ad annunciare il Vangelo al mondo intero, il Vangelo della Vita: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10’10).
Torniamo ad Isaia per vedere il secondo aspetto dell’appello alla verità.
Qual è la missione di questo profeta? E’ quella di annunciare al re di Giuda, Acaz, un lieto evento, prova della protezione divina sul suo regno minacciato: “Ecco,la giovane donna concepirà e partorirà un figlio che chiamerà Emmanuele” (Is 7,14). L’evangelista Matteo riprende questo testo e vi aggiunge “che significa: Dio con noi” (Mt 1,23).
Non è solo una precisazione semantica, e neppure il solo annuncio profetico del Natale. E’ anche l’annuncio che ogni volta che viene concepito un uomo, Dio è con lui e con tutti noi, e l’intera umanità viene benedetta perché: “eredità del Signore sono i figli, è sua ricompensa il frutto del grembo. Come frecce in mano a un guerriero sono i figli avuti in giovinezza. Beato l’uomo che ne ha piena la faretra: non dovrà vergognarsi quando verrà alla porta a trattare con i propri nemici” (Salmo 127/126, v.3-5).
I nemici di oggi non sono i guerrieri di ieri, ma tutto ciò che appartiene alla cultura della morte: “l’impressionante moltiplicarsi ed acutizzarsi delle minacce alla vita delle persone e dei popoli, soprattutto quando essa è debole e indifesa” (E.V., n. 3).
Come Isaia, tutti noi che abbiamo il dono e il compito della vita siamo chiamati a lasciarci purificare-santificare dal fuoco ardente della Parola divina, la Parola del Vangelo della Vita, Vangelo che non è solo informativo, ma “performativo” (Enciclica “Spe Salvi”, n.10).
Una purificazione integrale che riguarda anche la modalità dell’annuncio, come rileva G. Herranz: “Spesso, quando leggo pubblicazioni di movimenti pro-vita, sento la mancanza dello spirito affermativo, incoraggiante, allegro, celebrativo, che dovrebbe dare energia alle azioni pro-vita. Dopo l’Evangelium vitae l’attivismo pro-vita non può essere che affermativo e rivelatore della sua ricchezza evangelica. Non può scendere mai nel triste gioco di fare l’opposizione, di accettare la sfida di competere nell’odio o nell’altezzosità, come vogliono i suoi nemici. Dobbiamo inondare di comprensione il forte scontro tra i pro-lifers e i pro-choicers, non nel senso di cedere nei principi non negoziabili del rispetto sacro della vita umana, ma aumentando la preghiera per coloro che sono in errore. Tutti dobbiamo fare uno sforzo per comprendere coloro che sono in errore ed attrarli con un amore che superi le distanze. Il Papa ci da’ l’esempio, quando invoca alla conversione al Vangelo della vita le donne che sono ricorse all’aborto. La nuova cultura della vita dovrà essere come la casa del padre del figlio prodigo” (G. Herranz, “La cultura della vita: un impegno affermativo”, PAV).
Solo così la vita convincerà e vincerà.
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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.