"Caritas in veritate": voce profetica per una medicina dell'accoglienza

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ROMA, sabato, 30 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato il 29 gennaio dal Cardinale Dionigi Tettamanzi, Arcivescovo di Milano, ai partecipanti al Convegno nazionale dell’AMCI dal titolo “Caritas in veritate: voce profetica per una medicina dell’accoglienza”, svoltosi alla Pontifica Università Urbaniana di Roma

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Ho accettato volentieri l’invito a riflettere con voi sull’ultima enciclica di papa Benedetto XVI. Un’enciclica straordinariamente ricca, articolata, finemente argomentata, tanto nei suoi fondamenti quanto nei suoi contenuti tematici.

Ho provato ad interrogare il testo a partire dalla domanda che non solo intitola e motiva questo nostro incontro – “Caritas in veritate“: voce profetica per una medicina dell’accoglienza – ma che penso corrisponda anche al desiderio che è nel cuore di ciascuno di voi: diventare cioè, in ascolto della voce di questa enciclica, segni profetici di un modo nuovo di vivere la professione medica, capace di vera accoglienza, cioè orientata all’autentico bene di chi incontrate sulla via del vostro impegno professionale, nella prospettiva del servire al bene di tutti.

La vostra professione, infatti, esige di essere vissuta come responsabilità, ovvero come risposta a una vocazione. Come risposta, cioè, non soltanto esperta, competente, capace, come suggerisce il significato stesso dei due termini che compongono la parola responsabilità (“risposta abile“), ma soprattutto in grado di far fronte sotto ogni aspetto e fino in fondo alla chiamata insita entro ogni azione medica: una chiamata che giunge a voi attraverso chi è ammalato, chi soffre, e più ancora attraverso la presenza di molti altri fratelli, venuti magari da lontano e privi delle condizioni basilari per proteggere il bene della propria salute e quella dei propri familiari: una chiamata umana che, in una visione di fede, è rivelazione ed eco di una chiamata più alta, quella di Dio Creatore e Padre di tutti.

In una società che si apre di giorno in giorno ad orizzonti sempre più vasti, la chiamata al “prendersi cura” integrale dell’altro assume i contorni dell’intera umanità, che come medici siete tenuti a servire: con competenza, sino in fondo, e con gioia, perché come ci ricorda l’apostolo Paolo “Dio ama chi dona con gioia” (2 Corinzi 9,7), quindi con larghezza, senza troppi calcoli, senza risparmiarsi (cfr. 2 Corinzi 9,9).

La professione medica intesa come vocazione si concretizza, in particolare, come risposta al dono che Dio ha fatto di se stesso, in Cristo, il quale non esitò a percorrere città e villaggi “insegnando”, “annunciando il Vangelo del Regno” e “guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo” (Matteo 4,23), chiamando in seguito i suoi discepoli a fare altrettanto (cfr. Matteo 10,1). Si noti: il “guarire i malati” da parte di Gesù è strettamente intrecciato al suo insegnamento e al suo annuncio. Dunque la carità, anche verso gli ammalati, non può mai fare a meno della verità, ossia della proclamazione della Parola che salva e dell’esercizio dell’intelligenza, di un sapere rigoroso purificato e portato a compimento dall’amore evangelico. Come ci ricorda la Caritas in veritate: “Non c’è l’intelligenza e poi l’amore: ci sono l’amore ricco di intelligenza e l’intelligenza piena di amore” (n. 30). Riprendo questo passo tratto dalle espressioni introduttive dell’enciclica:

L’amore – « caritas » – è una forza straordinaria, che spinge le persone a impegnarsi con coraggio e generosità […]. È una forza che ha la sua origine in Dio, Amore eterno e Verità assoluta. Ciascuno trova il suo bene aderendo al progetto che Dio ha su di lui, per realizzarlo in pienezza: in tale progetto infatti egli trova la sua verità ed è aderendo a tale verità che egli diventa libero (cfr. Gv 8,22) (Caritas in veritate, 1).

E’ l’unico amore di Dio che, raggiungendoci e trasfigurandoci secondo la sua stessa immagine, non vuole trovare in noi un punto d’approdo, un termine, ma attraverso di noi, mediante un pensare costantemente rivolto alla ricerca del vero e un agire realmente rinnovato dalla carità, vuole giungere a molti altri, vuole servirli, sostenerli, amarli.

Ora di fronte alla ricchezza di contenuti e all’ampiezza di prospettive di un testo come la Caritas in veritate mi limiterò in questa occasione a svolgere con voi un breve percorso nell’enciclica, addentrandomi per così dire “a tappe” successive nel suo sviluppo argomentativo, così da poterlo attraversare insieme. In questo, mi sono sentito un po’ come un visitatore all’interno di una ricca galleria di quadri che, non potendo ammirare per il tempo necessario tutti i capolavori esposti, ha fatto la scelta di seguire un itinerario tra di essi, sostando di fronte ai dipinti che più di altri gli sembrava realizzassero un percorso sufficientemente compiuto e coerente.

1. Il primo quadro di fronte al quale vorrei sostare assieme con voi rappresenta non soltanto un portale di ingresso in questa ipotetica galleria, ma la sua sintesi, il suo motivo di fondo, il tema assolutamente dominante, il filo conduttore che la attraversa da capo a fondo. Questo filo rosso è costituito dallo sviluppo integrale dell’uomo.

Mi ha colpito il fatto che le due parole più ricorrenti e straordinariamente frequenti nel testo della Caritas in veritate siano proprio queste: sviluppo (ben 260 ricorrenze in un testo di 79 paragrafi) e uomo (129 riferimenti). Uno sviluppo integrale dell’uomo che fa riferimento non soltanto a ciascun essere umano, in qualsiasi condizione si trovi, ma all’umanità tutta, in diretta continuità e in piena sintonia con l’enciclica di Paolo VI, la Populorum progressio (26 marzo 1967), di cui la nuova enciclica intende fare esplicitamente memoria.

Si tratta dell’uomo storicamente esistente, da cogliere però non solo sotto alcuni aspetti, ma integralmente, cioè nell’insieme armonico delle dimensioni che lo caratterizzano: fisica, psicologica, relazionale, morale, spirituale… (cfr. Caritas in veritate, 11). Tante dimensioni, come se fossero tanti colori su una stessa tavolozza che, sapientemente mescolati, formano un’immagine piena, completa, esaustiva di uomo. Ed è ciò che ogni medico conosce e pratica già professionalmente: anche la buona prassi clinica insegna che prendersi cura della persona ammalata è farsi carico di tutta la persona, nella sua dignità, nel primato del suo valore assoluto, nei suoi diritti e doveri, nei suoi tratti psicologici, sociali, relazionali, spirituali, mai di un solo aspetto di essa!

L’espressione potrebbe inoltre essere capovolta: se occuparsi dello sviluppo significa occuparsi dell’uomo pienamente inteso, allora anche ogni più piccola cura rivolta all’uomo integralmente inteso è sviluppo! Ogni volta che si accoglie, si ama, ci si prende cura secondo carità e verità di chi è nel bisogno, si promuove insieme anche lo sviluppo umano autentico!

Mi pare sorprendente questa prospettiva, di solito riservata a quanti assumono come orizzonte esplicito e diretto del loro agire la mondialità. Possiamo invece dire che ogni prendersi cura dell’uomo, anche quello realizzato dal medico nell’ordinarietà della sua prassi clinica, alleviando la sofferenza dei suoi pazienti, è, nel suo piccolo, contributo allo sviluppo!

2. Tuttavia a questo primo quadro, ricco di luminosità, fa subito seguito un quadro a tinte fosche. Se infatti, guidati dal testo dell’enciclica, consideriamo la situazione attuale dello sviluppo nel mondo, ne ricaviamo una denuncia a chiare lettere: lo sviluppo dell’umanità, in tutti i suoi aspetti, anche quelli relativi alla salute, è quanto mai incerto e minacciato.
Non mancano, è vero, luci e segnali positivi, ma sempre drammaticamente intrecciati con altri di segno opposto. Già Paolo VI con “sviluppo” intendeva “l’obiettivo di far uscire i popoli anzitutto dalla fame, dalla miseria, dalle malattie endemiche e dall’analfabetismo” (Caritas in veritate, 21). Tuttavia, come sottolinea papa Benedetto, lo stesso sviluppo economico, che pure almeno in parte si è realizzato, “continua ad essere gravato da distorsioni e drammatici problemi, messi ancora più in risalto dall’attuale situazione di crisi” (ivi). Detto sempre con le parole del Papa, “la società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli” (Caritas in veritate, 19). A provarlo basterebbe considerare che su oltre 6 miliardi di abitanti del nostro pianeta più di un miliardo soffre la fame, mentre la sua parte più benestante si attesta sul miliardo circa di persone, un sesto dell’umanità:

Cresce la ricchezza mondiale in termini assoluti, ma aumentano le disparità. Nei Paesi ricchi nuove categorie sociali si impoveriscono e nascono nuove povertà. In aree più povere alcuni gruppi godono di una sorta di supersviluppo dissipatore e consumistico che contrasta in modo inaccettabile con perduranti situazioni di miseria disumanizzante. Continua «lo scandalo di disuguaglianze clamorose». La corruzione e l’illegalità sono purtroppo presenti sia nel comportamento di soggetti economici e politici dei Paesi ricchi, vecchi e nuovi, sia negli stessi Paesi poveri (Caritas in veritate, 22).

E prosegue:

Anche nell’ambito delle cause immateriali o culturali dello sviluppo e del sottosviluppo possiamo trovare la medesima articolazione di responsabilità. Ci sono forme eccessive di protezione della conoscenza da parte dei Paesi ricchi, mediante un utilizzo troppo rigido del diritto di proprietà intellettuale, specialmente nel campo sanitario (Caritas in veritate, 22).

Come si può vedere, squilibrio, sottosviluppo e ingiustizia a raggio mondiale hanno conseguenze immediate sul versante della salute: quando in Europa disponiamo di farmaci in abbondanza a condizioni accessibili e per ogni tipo di patologia, per le malattie tropicali che affliggono buona parte delle popolazioni in via di sviluppo, mancando un incentivo al guadagno paragonabile, disponiamo di risorse cliniche scarse, in un ambiente socio-culturale che già non dispone né alla prevenzione né alla cura. Ma possiamo semplicemente distogliere lo sguardo da questa realtà, ignorarla, rinchiuderci nel nostro piccolo mondo? Qualcosa di analogo va detto per la lotta all’AIDS: se nei nostri Paesi esistono farmaci in grado di contrastare efficacemente lo sviluppo virale, nei Paesi in cui vi sarebbe un bisogno ancora maggiore questi vengono a mancare. E’ fatalità inevitabile o nostra responsabilità?

Quale speranza, allora? Certo, avverte Benedetto XVI, l’attuale crisi – non soltanto finanziaria né solamente economica e occupazionale, ma culturale, sociale, dei valori e dei significati che l’umanità spesso fatica a riconoscere – può diventare autentica “occasione di discernimento e di nuova progettualità. In questa chiave, fiduciosa piuttosto che rassegnata, conviene affrontare le difficoltà del momento presente” (Caritas in veritate, 21).

Come medici, e medici cattolici, portatori di una fede, di una speranza, di una missione a favore dell’umanità sempre più ferita, bisognosa di risposte vere, concrete, durature, a questo punto non possiamo non chiederci: e noi, che cosa possiamo fare? In che modo questa crisi può diventare, anche per il mondo medico e della cura della salute, un segno di speranza?

3. In questa ottica, un contributo determinante può arrivare anzitutto da una rinnovata presa di coscienza del proprio servizio, a partire dallo svolgimento ordinario della professione medica. Come è noto, una delle novità della Caritas in veritate è la promozione di un’economia e, più ancora, di relazioni sociali ispirate alla logica del dono, della gratuità, della fratellanza. Spesso queste realtà vengono considerate come aggiuntive, superflue, marginali; in ultima analisi come deboli, incapaci di incidere realmente ed efficacemente a livello di problemi e di tessuto sociale. O tutt’al più confinate nell’ambito del volontariato, delle organizzazioni senza fini di lucro, realtà meritorie ma certo di altra levatura rispetto alla dimensione dei problemi globali.

Viceversa, la gratuità è vista dal Papa come dimensione costitutiva dell’umano, in tutte le sue forme. Prima ancora, ad esempio, di prestare la propria opera nell’ambito del volontariato – in cui pure molti di voi sono lodevolmente impegnati -, la gratuità si esprime in quella serie di aspetti qualitativi, costituiti da seria preparazione, costante aggiornamento professionale, umanità, dedizione, responsabilità, capacità di relazione, di accompagnamento dell’altro, cui non corrisponderanno mai riconoscimenti tangibili, ma la coscienza di aver gettato semi di vera gratuità e fraternità nel solco della nostra storia.

Una professione – come dicevo poco fa – vissuta come vocazione, come servizio, se perdesse questa dimensione rischierebbe di tradursi in puro esercizio tecnico, che risponde a logiche di pura efficienza, di calcolo. Questo rischio, oggi, sussiste anche per il medico, sempre più spesso apprezzato per la capacità di ridurre i costi del suo intervento che non per la qualità del servizio reso. E’ una deriva alla quale occorre, sapientemente e coraggiosamente, saper reagire, perché sia restituito il primato a quegli aspetti umani e solidaristici così profondamente iscritti nell’etica della prassi medica. Privata della gratuità, la medicina rischierebbe di perdere la propria anima. Viceversa, in una professione medica vissuta come vocazione, gli aspetti personali, relazionali, sociali, si incontrano e si intrecciano di continuo: l’uno non sta senza l’altro, unificati e istruiti ultimamente non soltanto da scienza e coscienza, ma da verità e amore!

Non guariscono infatti soltanto le terapie o la tecnica medica, guariscono anzitutto l’accoglienza, l’umanità del medico, la sua disponibilità, la sua tenacia nell’accompagnare da vicino situazioni a volte al limite del praticabile, che non producono magari alcun ritorno in termini di carriera o di compenso, ma si rivelano interventi di elevatissimo valore umano e sociale. Penso alla situazione di tanti migranti presenti sul nostro territorio, ad esempio, che non dispongono di un’assistenza medica adeguata; tutti, tutti in questo senso dovreste essere “medici senza frontiere”, non soltanto quanti in questi giorni portano coraggiosamente aiuto ad Haiti! Perché una medicina dell’accoglienza non può escludere: né i migranti, né altri!

Nessun abitante della nostra Italia, di ieri e di oggi, come pure nessun migrante deve essere considerato privo di cittadinanza… sanitaria, dotato di minore dignità e come tale di minori diritti rispetto alle cure mediche di cui necessita.

Mi colpisce sempre, sotto questo aspetto, l’art. 2 della nostra Costituzione repubblicana, dove si afferma: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”: dell’uomo, non soltanto del cittadino! Sui migranti, rimando in particolare all’ampio paragrafo 62 dell’enciclica, ad essi interamente dedicato.

4. Un’altra modalità per rispondere alle interpellanze che l’attuale contesto di complessità sottopone alla professione medica la riprendo dal tema principale di questo incontro, che sottolinea l’importanza di una “medicina dell’accoglienza”. Mi ha stupito, a proposito di accoglienza, che su 6 ricorrenze nel testo dell’intera enciclica ben 4 fossero concentrate in un solo paragrafo, che riguarda da vicino la vostra professione. Si tratta del paragrafo 28, riservato all’accoglienza della vita, che riprendo
in uno dei suoi passaggi principali:

L’apertura alla vita è al centro del vero sviluppo. Quando una società s’avvia verso la negazione e la soppressione della vita, finisce per non trovare più le motivazioni e le energie necessarie per adoperarsi a servizio del vero bene dell’uomo. Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono. L’accoglienza della vita tempra le energie morali e rende capaci di aiuto reciproco.

Sì, rispettare e accogliere la vita, dal concepimento sino al suo termine naturale, come la Chiesa sempre si è espressa e si esprime, include in sé tutte le età, tutte le fasi di sviluppo della vita umana, nessuna esclusa, anche se inizio e fine fruiscono in molti modi di una minore tutela e quindi meritano una particolare attenzione, sia sul piano giuridico che culturale e morale. Da questo compito l’azione medica deve sentirsi particolarmente interpellata. Se la medicina non fosse al servizio della vita nella sua totalità, nella sua pienezza, come potrebbe realizzare le sue finalità di cura dell’uomo? Solo parzialmente, solo per alcuni suoi aspetti o fasi di sviluppo e non per altre? Che servizio sarebbe all’umanità? Quale suo sviluppo promuoverebbe?

Così come un’autentica pratica clinica non può evitare un confronto serio con le sempre più complesse, e spesso anche inquietanti, problematiche bioetiche. Su questo aspetto si esprime così la Caritas in veritate:

Campo primario e cruciale della lotta culturale tra l’assolutismo della tecnicità e la responsabilità morale dell’uomo è oggi quello della bioetica, in cui si gioca radicalmente la possibilità stessa di uno sviluppo umano integrale. Si tratta di un ambito delicatissimo e decisivo, in cui emerge con drammatica forza la questione fondamentale: se l’uomo si sia prodotto da se stesso o se egli dipenda da Dio. Le scoperte scientifiche in questo campo e le possibilità di intervento tecnico sembrano talmente avanzate da imporre la scelta tra le due razionalità: quella della ragione aperta alla trascendenza o quella della ragione chiusa nell’immanenza. Si è di fronte a un aut aut decisivo. La razionalità del fare tecnico centrato su se stesso si dimostra però irrazionale, perché comporta un rifiuto deciso del senso e del valore. Non a caso la chiusura alla trascendenza si scontra con la difficoltà a pensare come dal nulla sia scaturito l’essere e come dal caso sia nata l’intelligenza (Caritas in veritate, 74; cfr. anche n. 75).

5. Proprio le questioni eticamente più rilevanti, più sensibili, riaprono la questione fondamentale, basilare: la questione antropologica (cfr. Caritas in veritate, 75), concernente l’uomo, la sua dignità irrinunciabile, i suoi valori, il significato della sua esistenza nel mondo. Proprio nei paragrafi conclusivi papa Benedetto ammonisce che “Non ci sono sviluppo plenario e bene comune universale senza il bene spirituale e morale delle persone, considerate nella loro interezza di anima e corpo” (Caritas in veritate, 76).

L’uomo non può radicalmente spiegarsi da se stesso, in tutto e per tutto; non può farsi né creatore né salvatore di se stesso. E’ chiamato piuttosto a ricercare perennemente, con amore e alla luce della verità, oltre l’utile e l’immediato, il senso profondo: di sé, della realtà del proprio essere nel mondo, della propria vita, della salute, come pure del proprio soffrire e morire.

Appartiene ai compiti di ciascuno, si dirà. Ma è anche necessaria una ricerca comune, un far rinascere un comune interesse anche e soprattutto su questo. Ne va della vita dell’uomo che non può essere perennemente ristretta a quanto, per ora, la scienza ha saputo riconoscere di essa.

Suggerirei a tutti, da questo importante punto di vista, una lettura attenta del capitolo sesto, l’ultimo dell’enciclica, intitolato: “Lo sviluppo dei popoli e la tecnica” (Caritas in veritate, 68-77). Proprio la grandezza e i limiti della tecnica, che certo ha fatto compiere all’arte medica grandissimi progressi, sono porta e finestra aperte all’Assoluto, al Trascendente. Ossia a Dio, dal momento che si è rivelato a noi e che possiamo non soltanto nominarlo, ma ascoltarlo, amarlo, relazionarci a Lui. Lui è il senso di tutto, la Bellezza che non conclude il nostro ipotetico percorso tra molti quadri molto differenti tra loro, ma lo rilancia e ne rende possibile uno sempre nuovo, percorribile e migliore.

Prendersi cura pienamente dell’uomo, del suo “sviluppo integrale”, significa realmente considerarne da subito, da sempre, in ogni azione medica il suo essere spirituale, la sua dimensione ultima, che non può mai essere tralasciata, per nessuna ragione.

Una medicina dell’accoglienza si prende cura dell’uomo, dell’uomo così com’è: con le sue grandezze e miserie, le sue ferite e le sue conquiste.

Vorrei infine lasciare ancora una volta la parola al santo Padre, quasi una meditazione conclusiva, tratta dall’ultimo paragrafo dell’enciclica:

Lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera, cristiani mossi dalla consapevolezza che l’amore pieno di verità, caritas in veritate, da cui procede l’autentico sviluppo, non è da noi prodotto ma ci viene donato. Perciò anche nei momenti più difficili e complessi, oltre a reagire con consapevolezza, dobbiamo soprattutto riferirci al suo amore. Lo sviluppo implica attenzione alla vita spirituale, seria considerazione delle esperienze di fiducia in Dio, di fraternità spirituale in Cristo, di affidamento alla Provvidenza e alla Misericordia divine, di amore e di perdono, di rinuncia a se stessi, di accoglienza del prossimo, di giustizia e di pace. Tutto ciò è indispensabile per trasformare i « cuori di pietra » in « cuori di carne » (Ez 36,26), così da rendere « divina » e perciò più degna dell’uomo la vita sulla terra (Caritas in veritate, 79).

+ Dionigi card. Tettamanzi

Arcivescovo di Milano

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ZENIT Staff

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