Incontrare Dio nei migranti e negli stranieri

Intervista a suor Marilyn Lacey

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di Genevieve Pollock

SANTA CLARA (California), giovedì, 21 gennaio 2010 (ZENIT.org).- La paura degli immigrati è comprensibile, ma per i cristiani è fondamentale superarla per incontrare Dio negli stranieri, afferma suor Marilyn Lacey, che ha alle spalle trent’anni di esperienza nel servizio agli stranieri.

Marilyn Lacey fa parte della congregazione delle Sorelle della misericordia ed è direttrice dell’organizzazione “Mercy Beyond Borders”, che collabora con donne e giovani profughi del sud del Sudan, per alleviare le loro condizioni di estrema povertà.

Nel suo libro “This Flowing Toward Me: A Story of God Arriving in Strangers” (Ave Maria Press), pubblicato la scorsa primavera, scrive del suo lavoro con i rifugiati negli Stati Uniti, in Africa e Asia.

Suor Lacey ha condiviso con ZENIT la sua esperienza tra migranti e rifugiati, in occasione della celebrazione, negli Stati Uniti, della Settimana nazionale delle migrazioni, tenutasi dal 3 al 9 gennaio.

Spesso l’immigrazione viene descritta attraverso i numeri, ma considerando il profilo della persona migrante, quali sono le speranze, i timori, le difficoltà e le necessità?

Suor Lacey: È del tutto naturale pensare agli immigrati come “altri”, come qualcuno molto diverso da noi.

Nella normativa sull’immigrazione il termine tecnico utilizzato per indicarli è “alien”, che letteralmente significa “altro”.

Questo rafforza la nostra tendenza a temere gli immigrati, dato che generalmente ci risulta difficile fidarci di persone che sono percepite come diverse da noi.

In realtà, i migranti sono esseri umani, con famiglie da sostenere, figli da proteggere, sogni da realizzare. Le loro necessità più fondamentali sono di essere accolti, di trovare rifugio, di lavorare e di fare amicizie. Come Chiesa abbiamo un obbligo importante – che è al contempo un meraviglioso invito – ad essere quel luogo di accoglienza.

Qualche anno fa, un rifugiato cattolico, un giovane dell’Eritrea da poco stabilitosi in California, mi ha manifestato la sua grande confusione dicendo: “Sorella, qui negli Stati Uniti le chiese sono chiuse di notte!”. E io ammisi che era così.

La sua risposta immediata fu: “Ma se le chiese sono chiuse dove dormono i viaggiatori?”. La sua domanda dovrebbe indurci ad un esame di coscienza.

Quanto siamo accoglienti (come persone e come Chiesa) con gli stranieri che sono in mezzo a noi?

La Settimana nazionale della migrazione di quest’anno si è incentrata sui bambini. Ci potrebbe descrivere la vita del tipico bambino migrante?

Suor Lacey: La maggior parte del mio ministero si è svolto con i rifugiati. I bambini di famiglie rifugiate non conducono ciò che lei ed io consideriamo una vita normale.

Hanno lasciato le loro cose, hanno sperimentato viaggi lunghi e difficili. Molti hanno perso le proprie famiglie che magari sono state uccise.

Molti hanno testimoniato direttamente le atrocità, alcuni sono stati bambini soldato, costretti ad essere violenti. Hanno passato anni in un’esistenza artificiale nei campi profughi, dove la loro scolarizzazione si è svolta in modo irregolare (nella migliore delle ipotesi) e la loro alimentazione era scarsa.

La loro percezione del mondo è che si tratti di un luogo pericoloso. E senza dubbio sono meravigliosamente resistenti.

Se a loro si concede un luogo sicuro e la presenza di adulti affettuosi che li appoggino, allora possono prosperare.

Gli immigrati non tolgono qualcosa ai cittadini del Paese ospitante? Soprattutto in questo periodo di recessione economica, quando molti cittadini si ritrovano disoccupati, non è naturale che la gente cerchi di tutelare le proprie risorse? Esiste un modo per cambiare questo atteggiamento difensivo?

Suor Lacey: Difendere la propria famiglia e il Paese contro le minacce è comprensibile e persino meritevole.

Purtroppo, gli esseri umani tendono a non vedere chiaramente quali siano le vere minacce. La mia opinione – che spero sia fondata su una chiara lettura del Vangelo – è che la minaccia reale alla vita e alla vera felicità non sono gli immigrati ma la nostra avarizia, il nostro egoismo e desiderio di accaparramento.

I Paesi sviluppati sembrano voler accumulare sempre di più le ricchezze del mondo e allo stesso tempo emanano leggi sull’immigrazione che mantengono gli altri lontani da qualunque partecipazione a questi beni.

Il Vangelo ci propone le Beatitudini: essere poveri, condividere ciò che si ha, accettare la sofferenza, lavorare per la giustizia, sopportare la persecuzione.

Ci chiama persino ad amare i nostri nemici che cercano di farci del male. Mentre il mondo si sforza di convincerci che la sicurezza sta nell’uccidere i nostri nemici, o almeno nel tenersi lontani da noi, il Vangelo ci insegna che dobbiamo crescere nel perdono, nell’inclusione e in uno stile di vita tale da invitare tutti alla nostra mensa.

Si dice: il cielo è aperto a tutti coloro che vogliono sedersi a mensa con l’altro!

Personalmente credo che “il problema dell’immigrazione” non possa essere risolto solo con un dibattito razionale.

Dobbiamo includere la dimensione della fede che ci porta a comprendere che la nostra sicurrezza, il nostro benessere e la nostra felicità autentica risiedono nella nostra apertura agli stranieri, a persone diverse da noi.

Persino se l’inclusione degli immigrati nella nostra società dovesse comportare un abbassamento del nostro standard di vita (che, in realtà, non si verifica normalmente, perché la loro presenza stimola le economie), il dovere dei cristiani sarebbe quello di accoglierli.

Dio viene a noi con le sembianze dello straniero. Questo tema ricorre in tutte le Scritture: da Genesi 18 (Abramo è benedetto per tre stranieri che invita nella sua tenda) ad Apocalisse 3,20 (Dio rimane alla nostra porta chiamandoci con pazienza). Per me, questa è più che teoria: è la mia esperienza di trent’anni passati a lavorare con i rifugiati e i migranti in tutto il mondo.

Cosa può dire degli immigrati che entrano nel Paese illegalmente? Presumendo che vi siano buone ragioni per giustificare le attuali leggi sull’immigrazione, non è giusto condannare questo fenomeno illegale?

Suor Lacey: Alcuni mi domandano: “Perché queste persone non entrano legalmente? Stanno violando le nostre leggi!”.

È una questione seria, che fa appello al nostro senso di obbedienza alle leggi e che è nel DNA degli anglosassoni. La gente che pone questa domanda si sorpende nel vedere che in realtà non vi è modo perché queste persone possano entrare legalmente, perché le leggi sull’immigrazione non gli offrono alcuna via per farlo.

Solo alcune categorie di “altri” possono entrare legalmente e molti di questi, solo per limitati periodi di tempo.

Circa la metà di tutti i clandestini negli Stati Uniti, per esempio, sono persone entrate legalmente nel Paese e i visti sono scaduti per cui si trovano in situazione irregolare. Gli altri sono quelli che hanno attraversato il confine eludendo i controlli; solitamente sono persone che vengono in cerca di lavoro per inviare soldi a sostegno delle proprie famiglie.

L’attuale legge sull’immigrazione, per esempio, prevede che l’immigrato possa mantenere i membri della propria famiglia, costringendoli anche ad aspettare 18 anni prima di poter immigrare legalmente. Come si coniuga questo aspetto con la convinzione cristiana della sacralità della famiglia e l’importanza del ricongiungimento familiare?

Prima di giudicare chi viola la legge, la questione chiave per me è domandarci se le leggi vigenti sono eticamente giuste.

È giusto che in un’economia globale, dove i beni, le informazioni e il denaro superano tutte le frontiere, impedire che anche i lavoratori possano attraversare le f
rontiere?

È giusto, in un mondo in cui alcune persone sono nate in luoghi dove è quasi impossibile alimentare la propria famiglia, evitare che questi emigrino in luoghi dove possano provvedere alle necessità dei propri figli?

È giusto, in un mondo sempre più piccolo, che coloro che hanno estromettano coloro che non hanno?

È giusto erigere muri (come quello che gli Stati Uniti hanno fatto lungo la propria frontiera meridionale) o vivere in comunità chiuse che lascino fuori gli altri, e allo stesso tempo andare in chiesa e ascoltare le storie di Lazzaro e del ricco Epulone (Luca 16)?

Molti sentono compassione per gli immigrati ma dicono che non hanno nulla in più da dargli. Cosa può dare il cittadino medio all’immigrato?

Suor Lacey: Non costa nulla (salvo un po’ di coraggio) essere calorosi e accoglienti con gli immigrati.

Non costa nulla ammettere che vi è sempre un posto a tavola da poter aggiungere.

Mentre può essere rischioso, individualmente, aprire la porta a un’estraneo, lo sforzo di un gruppo lo rende più facile. Le comunità possono essere importanti punti di accoglienza per gli stranieri.

Anche se non si ha nulla da parte, sono completamente sicura che tutti noi abbiamo molto da poter condividere e questa gioia vera ci sfuggirà finché non inizieremo a farlo.

Come diceva uno degli antichi santi: il paio di scarpe extra nell’armadio appartiene ai poveri. Quando viviamo con questo tipo di apertura e di condivisione, la benedizione abbonda!

Secondo lei quindi sottolineare la tolleranza verso chi è culturalmente diverso consente di fare in modo che gli immigrati si sentano più accolti, oppure vi è qualcos’altro che a suo avviso possa aiutare ad aprire i cuori verso le persone di etnie diverse?

Suor Lacey: La tolleranza verso la diversità è sicuramente un primo passo, ma l’auspicio è che si possa progredire oltre la mera tolleranza delle nostre diversità per constatare come ciò arricchisca tutti.

Ho lavorato con rifugiati e migranti di più di cinquanta Paesi e mi considero una delle persone più felici del pianeta, per aver potuto condividere tanti diversi punti di vista, tante diverse prospettive su Dio, tanti modi di superare le avversità e di vivere la vita in modo tenace.

Prego perché ciascuno possa prendere il rischio di accogliere uno straniero e di scoprire, con sua grande sorpresa, che Dio aspetta al suo posto per essere Egli stesso accolto!

Per maggiori informazioni: www.mercybeyondborders.org

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ZENIT Staff

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