Mons. Forte: la teologia, scuola di umiltà contro il nichilismo

L’Arcivescovo di Chieti-Vasto analizza il pensiero teologico di Benedetto XVI

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di Mirko Testa

ROMA, mercoledì, 20 gennaio 2010 (ZENIT.org).- In un’epoca che ha visto il tramonto della ragione totalizzante, la teologia come scuola di umiltà e ascolto della Parola di Dio può diventare un antidoto contro le tentazioni dell’oblio del senso, figlio del nichilismo.

Ne è convinto mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto e Presidente della Commissione per la Dottrina della Fede, l’Annuncio e la Catechesi della Conferenza Episcopale Italiana, che in questa intervista a ZENIT analizza gli ultimi interventi di Benedetto XVI in materia di teologia.

Lo scorso anno, nell’omelia per la messa celebrata alla presenza dei membri della Commissione Teologica Internazionale, il Papa ha spiegato che il vero teologo non è colui che cerca di misurare il mistero di Dio con la propria intelligenza ma colui che è cosciente della propria limitatezza. In quell’occasione il Papa ha indicato nell’umiltà la via per giungere alla verità, mettendo in guardia contro i teologi saccenti che si comportano come gli antichi scribi. Crede che il Papa faccia riferimento a una tendenza visibile ai nostri giorni?

Mons. Bruno Forte: Io credo che questo sia un punto fondamentale che distingue la teologia cristiana da ogni forma di gnosi. La differenza fondamentale è che nella teologia tutto nasce dall’ascolto, quindi dall’auditus Verbi, mentre nella gnosi tutto è autoproduzione intellettuale del soggetto. Questo è il vero motivo per cui l’unica autentica eresia cristiana è la gnosi: la presunzione di un’autoredenzione dell’uomo che non abbia bisogno dell’intervento dell’Altro e dall’Alto, cioè dell’intervento di Dio. Una teologia che si fondi, com’è nella sua natura, sulla Rivelazione, non può che essere innanzitutto ascolto e quindi è humilitas: un atteggiamento di profonda disponibilità e docilità di fronte all’azione di Dio, che entra nella storia in maniera sorprendente e al tempo stesso la conferma nella sua dignità, aprendola al novum adveniens della sua promessa.

E’ un tema che Ratzinger da teologo ha ripetutamente sottolineato e che gli deriva dalla sua frequentazione di Agostino, che è il genio dell’intellectus fidei vissuto nell’ascolto, nell’uso dell’intelligenza al servizio dell’ascolto della Parola di Dio e gli deriva anche da Bonaventura. Direi che è il filone agostiniano-francescano quello che predomina nella formazione teologica di Joseph Ratzinger, che nel suo magistero di Papa riemerge nel suo richiamo forte all’humilitas e all’auditus. Aggiungerei che questo tema risulta quanto mai importante oggi in una società che ha conosciuto l’ebrezza della ragione e dunque la tentazione gnostica nei vari volti della ideologia moderna e che oggi in questa inquietudine della post-modernità se non si apre all’ascolto e all’humilitas rischia la grande tentazione del nichilismo, cioè del non-senso. In altre parole: chi potrà salvarci? A questa domanda non si può che rispondere: l’Altro che viene a noi, cioè il Dio vivente e questo implica l’umiltà dell’accoglienza. La gnosi in questa società post-moderna, dove la ragione totalizzante ha conosciuto una crisi profonda e il bisogno del suo superamento critico, viene spiazzata nella sua stessa convinzione fondamentale, che è l’assolutezza del soggetto e della sua capacità di conoscenza o di produzione del vero.

Nel settembre del 2007, nel visitare l’abbazia cistercense di Heiligenkreuz il Papa ha denunciato una certa “teologia che non respira più nello spazio della fede”, ponendo l’accento invece sulla “teologia in ginocchio”, una bella espressione coniata da Hans Urs von Balthasar. Allo stesso modo nel presentare la figura di san Bernardo di Chiaravalle durante una Udienza generale, Benedetto XVI ha detto che senza fede e preghiera la ragione da sola non riesce a trovare Dio e la teologia diventa un “vano esercizio intellettuale”. E’ questo uno scenario presente nell’ambito della teologia attuale?

Mons. Bruno Forte: Il primo elemento decisivo è che proprio perché nasce dall’ascolto della Parola di Dio, la teologia ha bisogno non solo di una radicale humilitas ma anche di una forma di accoglienza amorosa, perciò orante di essa. Von Balthasar ha insistito moltissimo su questo aspetto, sostenendo che la santità non è un superfluo rispetto all’esercizio del teologo, ma ne è una condizione fondamentale. Non è un caso che grandissimi teologi, specie i Padri della Chiesa, sono stati anche dei santi. Dunque il bisogno di mettersi in ginocchio davanti al mistero e di ascoltare, di vivere l’auditus non solo con l’umiltà ma con l’amoroso e perseverante accoglienza della fede orante, è connaturale all’identità della teologia cristiana. E anche in questo nel pensiero di Joseph Ratzinger c’è non solo la continuità con il filone agostiniano e bonaventuriano, ma c’è anche un’altra intuizione molto importante, peraltro ripresa nel Vaticano II, e cioè che c’è un rapporto tra il vissuto cristiano, il pensato cristiano e la liturgia.

La liturgia in quanto culmen et fons, come dice il Vaticano II, è ciò da cui tutto parte e a cui tutto tende dell’esistenza cristiana, sia nel suo vissuto che nella sua dimensione riflessa. Ecco perché una teologia senza anima liturgica, cioè senza capacità di lodare e invocare Dio, è un vano esercizio intellettuale. E’ un’altra forma di quella gnosi che rischia di inquinare la capacità dell’uomo di aprirsi a Dio. Nella grande visione teologica cristiano-cattolica l’uomo è stato fatto capax Dei: ebbene questa capacità è condizionata da una parte dall’humilitas e dall’altra dalla capacità di invocare il dono di Dio e di lasciarsene pervadere in un atteggiamento dossologico e liturgico, e cioè di glorificazione di Dio, che è non di meno disponibilità a lasciarsi plasmare dalla Sua azione nella nostra vita. Quando tutto questo è portato alla parola nasce propriamente la teologia.

E qui c’è anche un’altra considerazione da fare sul rapporto tra teologia e spiritualità. Noi abbiamo vissuto una crisi di questo rapporto nell’epoca della teologia moderna, cioè di quella teologia influenzata dalla contrapposizione illuministica tra Vernunftswahrheit e Geschichtswahrheit, verità di ragione e verità di fatto. Nella concezione illuministica solo la verità di ragione è verità, perché presenta un’assolutezza e universalità che invece le verità di fatto non hanno. Il cristianesimo, al contrario, si fonda su una verità di fatto, che è la rivelazione storica di Dio. Allora sembrava a una certa teologia di impianto illuministico-liberale che non potesse conciliarsi l’esercizio teologico puro con una forma di spiritualità, di vissuto spirituale, lasciato piuttosto alla devozione.

Questo fossato tra teologia e spiritualità ha prodotto grandi danni nell’epoca della teologia moderna: lo si è visto soprattutto nella teologia liberale e in alcune forme del modernismo cattolico, ma continua a produrre danni laddove, per esempio, negli anni ’60 e ’70 alcune forme della teologia cristiana si sono lasciate condizionare dall’ideologia moderna anche rivoluzionaria. Oggi noi sentiamo, invece, di ritornare allo statuto originale fondante del fare teologia che è quello di portare al pensiero l’esperienza del Mistero proclamato e quindi ascoltato e celebrato nella liturgia, vissuto e testimoniato nella fede e nella carità.

Quindi teologia non è solo docta fides, cioè una fides quaerens intellectum, ma anche docta caritas, cioè è il portare alla parola il vissuto dell’amore, il dono dell’amore di Dio che ci viene fatto nella liturgia e nella Grazia dei sacramenti, ma che deve essere poi testimoniato nel vissuto dei gesti dell’eloquenza silenziosa della carità. Teologia e spiritualità così ritrovano il nesso fondamentale che le costituisce reciprocamente come teologia e spiritualità cristiane. Una teologia senza spiritualità rischia di essere vuota, una spiritualità senza teolo
gia rischia di essere cieca, parafrasando il noto detto di Kant su intuizione e concetti.

L’adesione al “Processo di Bologna” da parte della Santa Sede ha portato a un riordino globale della formazione teologica in Italia, volto a ricalibrare gli standard curricolari esistenti alla luce di quelli richiesti. Secondo lei, il fatto di doversi conformare a delle precise caratteristiche di “scientificità” non porta l’insegnamento di questa disciplina a mettere da parte una concezione che presuppone la fede nella ricerca teologica?

Mons. Bruno Forte: Questa è un’antica questione che ritorna sempre e di nuovo nella storia della teologia. Vorrei dare due risposte: una di carattere storico e una di carattere attuale, ma anche di sapore metodologico. La prima è quella che diede San Tommaso alla stessa questione che lei mi sta ponendo, quando apre la Summa teologica con un’audacia impensabile al tempo dei Padri della Chiesa. Tommaso si chiede: utrum praeter philosophicas disciplinas aliam doctrinam haberi? Cioè si chiede non se siano legittime le discipline filosofiche, ma se sia legittima la teologia, con un impianto assolutamente moderno che sembra rivendicare l’autonomia della ragione. La sua risposta è che la razionalità richiesta alle discipline scientifiche è soprattutto nello scire per causas, nel conoscere attraverso le connessioni tra premesse e deduzioni. Ora questo scire per causas può essere esercitato in due modi: partendo dai principi primi interni alla scienza, le cosiddette scienze subalternanti (egli parla ad esempio della matematica che ha dei suoi principi più intrinseci dai quali si parte e che sono indimostrabili – in questo Tommaso anticipa Goedel – e da cui si deducono delle conseguenze); dall’altra parte ci sono però ci sono però delle scienze subalternate che usano i principi offerti loro da altre scienze. A questo proposito, Tommaso fa come esempio intrigante quello della musica che dipende dalla matematica, proprio per le sue armonie e i suoi rapporti di proporzione. Analogamente – dice Tommaso – la teologia dipende dalla scientia Dei et beatorum cioè dalla Rivelazione. In altre parole, la fonte della conoscenza teologica è lumen fidei per il naturale, quanto però all’argomentare essa ha lo stesso statuto epistemologico di tutte le altre scienze e quindi ha piena dignità della universitas scientiarum.

Come risponderemmo oggi di fronte agli sviluppi della teologia, ma anche della epistemologia moderna? Io risponderei rifacendomi alla grande conquista del Novecento filosofico e teologico che è la riscoperta poderosa della ermeneutica, cioè della scienza dell’interpretazione. Quando molti anni fa da Decano della Facoltà Teologica a Napoli invitai a una quaestio quodlibetalis Hans-Georg Gadamer, il padre dell’ermeneutica contemporanea, autore di “Verità e metodo”, un giovane di primo anno gli pose questa domanda: “che cos’è l’ermeneutica?”. Al che Gadamer, senza scomporsi, dopo un attimo di riflessione, disse: “Ermeneutica significa che quando lei ed io parliamo ci sforziamo di raggiungere il mondo vitale che è dietro le parole dell’altro e da cui esse provengono”.

Allora, l’epistemologia illuminata dall’ermeneutica vuol dire non solo comprendere l’immediatamente percettibile, il visibile, il fenomenico, il razionale, ma comprendere anche o perlomeno cercare di raggiungere quei mondi vitali da cui queste espressioni provengono. In questo contesto si scopre che scienza non è solo quella dei fenomeni, ma che c’è un insieme di scienze, che sono le scienze dello spirito, le quali si sforzano di raggiungere un non detto, un non dicibile, un non totalmente tematizzabile, che però è il mondo vitale in cui si situano i processi umani, i processi storici e così via. E c’è un ulteriore livello che attinge a quell’esperienza del mistero della vita e del mondo che noi tutti facciamo e che non è riconducibile a una mera formula linguistica o razionale, cioè un eccesso del Mistero che circonda il mondo, che circonda la vita di ognuno di noi e che noi attingiamo continuamente nella sorpresa, nello stupore, che soltanto fino a un certo punto riusciamo a ricondurre alla parola.

Ora, una scienza che prenda sul serio lo stupore davanti a questo Mistero, la possibilità che esso si dica senza tradirsi, cioè la possibilità della Rivelazione, e che ne faccia materia del suo pensare, diventa una scienza assolutamente preziosa. In una simile dimensione ermeneutica, interpretativa della realtà, che non si ferma all’immediato ma cerca sempre di cogliere le ulteriorità, le connessioni profonde, la teologia mi sembra che si presenti con piena dignità come una scienza di cui l’uomo ha bisogno per vivere e per morire, come ha bisogno per vivere e per morire di Dio e del senso della vita.

Nel 1986 intervenendo a Brescia a un incontro organizzato dalla redazione italiana della rivista “Communio” Ratzinger aveva affermato che nella coscienza diffusa della teologia cattolica l’autorità della Chiesa appare spesso come un’istanza estranea alla scienza, come qualcosa che limita se non mortifica la ricerca. Secondo lei, soprattutto dopo quanto avvenuto con la Teologia della Liberazione, è ancora così avvertita questa percezione?

Mons. Bruno Forte: Il compito del Magistero nella Chiesa non è un compito regressivo, ma un compito quasi prospettico. In un famoso saggio del 1953 che fece storia nel dibattito teologico, Karl Rahner interrogandosi sul Concilio di Calcedonia e sulla sua definizione dogmatica, che resta vincolante per ogni cristiano qualunque sia la sua appartenenza confessionale, di Cristo come una persona divina nelle due nature umana e divina, si chiedeva “Chalkedon – Ende oder Anfang?” (Calcedonia è una fine o un inizio?). La sua risposta era molto chiara: il dogma non è una fine, non arresta il pensiero, non lo paralizza, ma pone quei paletti rispetto ai quali indietro non si torna, perché voler tornare indietro significherebbe cadere da una parte nelle forme dell’arianesimo, cioè una visione solo umana e mondana di Cristo, che così non sarebbe più mediatore dell’Alleanza e Salvatore, dall’altra in una forma di modalismo, cioè un Dio che appare tra gli uomini ma che non ha veramente assunto la nostra carne mortale, non s’è veramente compromesso con l’umano.

Diceva Karl Rahner, giustamente, che la definizione dogmatica di Calcedonia in questo senso è un baluardo contro il regresso, non contro il progresso. Ilario di Poitiers, a sua volta, intuiva una bellissima dimensione di questo esercizio del discernimento magisteriale della Chiesa. Egli diceva: il dogma viene definito per una esigenza di carità, per aiutare a non perdere la rotta, a non perdere la strada rispettosa, quella che Dio ci ha indicato. Anche qui la visione era chiaramente non difensiva o repressiva, ma prospettica.

E proprio il caso della Teologia della Liberazione che lei citava, mi sembra un esempio eloquente, perché gli interventi fondamentali in proposito da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede sono stati due: uno eminentemente critico, che ha messo in luce i limiti spesso connessi con la dipendenza ideologica di questa teologia; l’altro che ne ha messo in luce invece le acquisizioni, i contributi positivi soprattutto in vista di una teologia ispirata al primato della carità e del servizio. Io credo che in questa azione il magistero abbia compiuto esattamente ciò che diceva Ilario di Poitiers, e che molto più recentemente affermava Karl Rahner, cioè una azione non repressiva per spegnere la vita, ma di custodia e di promozione di quella vita autentica che soltanto la verità di Dio riesce a far sprigionare in noi. Riassumerei con la frase di Giovanni 8,32, che Giovanni Paolo II amava ripetere e che ripetè ancora a noi della Commissione Teolgica Internazionale quando si lavorava sul documento “Memoria e riconciliazione” per accompagnare la richiesta di perdono per le colpe della Chiesa: “La verità vi farà liberi”.

E allor
a, quanto più si serve la causa della verità, quanto più il magistero si pone al sevizio della testimonianza della verità, tanto più esso favorisce la libertà, l’autentica libertà che dà senso, pienezza, vita e salvezza al cuore dell’uomo.

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ZENIT Staff

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