ROMA, domenica, 17 gennaio 2010 (ZENIT.org).- La cronaca di questo inizio 2010 offre abbondante materiale per una riflessione bioetica sul senso e la percezione della dignità umana. L’11 gennaio veniva comunicata la decisione del giudice per le indagini preliminari di archiviare il procedimento di accusa per omicidio volontario rivolto al medico che ha diretto l’intervento di disidratazione di Eluana Englaro; insieme al medico erano prosciolti dall’accusa di concorso in omicidio l’intera équipe che aveva partecipato all’esecuzione del protocollo. Secondo il giudice, «La prosecuzione dei trattamenti di sostegno vitale di Eluana Englaro non era legittima in quanto contrastante con la volontà espressa dai legali rappresentanti della paziente, nel ricorrere dei presupposti in cui tale volontà può essere espressa per conto dell’incapace».
Il 12 gennaio i media riportavano la denuncia del padre di una bambina affetta da sindrome di Down recapitata al quotidiano locale di Treviso. Un avventore, disturbato dal gioco della bambina, avrebbe detto a voce alta: “Quando si hanno dei figli mongoli è meglio restarsene a casa”.
Il 14 gennaio dai giornali si apprendeva che un magistrato in servizio a Salerno aveva autorizzato una coppia fertile e portatrice di una grave patologia degenerativa muscolare a ricorrere alla fecondazione artificiale e alla selezione dei figli allo stato embrionale mediante la tecnica della diagnosi pre-impianto. Secondo il giudice autore del provvedimento, «Il diritto a procreare verrebbe leso da un’interpretazione delle norme che impedissero il ricorso alle tecniche di procreazione assistita da parte di coppie, pur non infertili o sterili, che rischiano concretamente di procreare figli affetti da gravi malattie, a causa di patologie geneticamente trasmissibili. Solo la PMA attraverso la diagnosi preimpianto, e quindi l’impianto solo degli embrioni sani, mediante una lettura ‘costituzionalmente’ orientata dell’artico 13 della legge citata, consentono di scongiurare tale simile rischio».
Si tratta di tre episodi che, seppure connotati da differenze e specificità evidenti, presentano un sottile filo che li unisce: la negazione della dignità dell’essere umano debole e debolissimo. Vediamo di chiarire il concetto.
Il caso di Eluana Englaro è ben noto. L’ultimo capitolo della saga giunge dal versante della giustizia penale ed afferma che la prosecuzione dei trattamenti di sostegno vitale era illegittima. Non si vuole qui considerare la perplessità che sorge dalla percezione di subalternità del giudizio penale nei confronti del precedente giudizio civile, né dalla preoccupazione che, sulla base del decreto del GIP, si potrebbe paradossalmente immaginare una condotta “illegittima” di quei medici che per lunghi anni (ed anche dopo il decreto della corte di appello civile di Milano) hanno operato somministrando i trattamenti di sostegno vitale alla paziente. No, qui quello che interessa è considerare come alla base dell’azione di colui che ha promosso l’iter procedurale che si è concluso con la morte della ragazza vi fosse, oltre alla rivendicazione di un diritto all’auto-determinazione delegata, l’attribuzione di mancanza di dignità nella condizione di vita di Eluana Englaro e nel modo stesso di assisterla.[1] La stessa Corte di Cassazione nel dispositivo sul caso Englaro ha citato la parola “dignità” per undici volte, affermando sì la piena dignità della persona in stato vegetativo, ma al contempo sancendo il principio che la sottrazione della vita con attributi soggettivi di indegnità è un diritto esigibile. Il riferirsi in tali casi al diritto alla libertà di cura rivela la propria natura di mero espediente. Molti commentatori internazionali infatti, peraltro non riconducibili alla morale cattolica, sostengono che l’interruzione dell’idratazione e nutrizione assistita nei pazienti in stato vegetativo può essere esclusa dagli atti eutanasici solo ricorrendo a sofismi, [2];[3];[4] dal momento che l’unico fine che si intende raggiungere con una tale condotta è la morte della persona assistita.
Nel caso della bambina affetta da sindrome di Down, è successo che un signore si è sentito disturbato da quella bambina ammalata nel suo diritto a condurre in condizioni di benessere la sua giornata. Il concetto di salute accreditato presso le istituzioni sanitarie mondiali sin dal 1948 (è stato ricordato altre volte in questa rubrica) secondo cui la salute non è la semplice assenza di malattia, ma uno “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale”, col suo grado di espansione indefinita, consente di identificare come una minaccia alla salute qualsiasi turbativa anche solo potenziale. La quasi totalità degli aborti nelle Nazioni occidentali viene autorizzata legalmente sulla base di un diritto alla tutela della salute da parte della donna. Quasi sempre si tratta di una minaccia alla salute psichica della madre, già di per sé più difficilmente obiettivabile, ma i cui contorni sono divenuti del tutto indefiniti quando si è proceduto a recepire in modo automatico, formale e passivo quanto attestato dalla donna stessa a cui in fin dei conti è stato demandata ogni decisione attraverso una sorta di autocertificazione. Qualche numero può aiutare a comprendere le dimensioni del fenomeno. In Inghilterra e Galles, nel periodo 2007-8 dei 1843 casi di sindrome di Down ne sono stati diagnosticati prima della nascita 1112. Di questi solo il 4,8% è stato fatto nascere, perché 92,8% è stato abortito in modo volontario.[5] In Italia dati qualitativamente equivalenti si possono ricavare dalla Toscana, una regione dove la diagnostica prenatale è molto diffusa. Nel 2007 sono nati 15 bambini affetti da sindrome di Down, mentre 26 (pari al 66%) sono stati abortiti. Il numero non è riportato, ma è verosimile che, come in Inghilterra, i bambini che sono nati siano in gran parte sfuggiti alla diagnosi prenatale. Queste procedure non solo vengono tollerate, ma, in nome del diritto alla salute, sono finanziate direttamente dallo stato e promosse sui media e nei consessi sovranazionali quali fondamentale diritto umano, il cui accesso deve essere garantito a tutti. Essendo persona semplice, qualcuno mi dovrebbe spiegare perché la madre può sopprimere il figlio per tutelare il proprio “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale”, mentre l’avventore del locale, che non ha certamente maggiori obblighi, non potrebbe fare le proprie rimostranze se percepisce la propria “salute”, così intesa, deteriorata. Si tratta di un discorso evidentemente e volutamente paradossale; ogni lettore avrà ben capito che chi scrive è completamente dalla parte della bambina e dei suoi genitori, ma l’esserlo presuppone il riconoscimento previo della dignità inalienabile ed incondizionata di quella bambina proprio in quanto essere umano, il riconoscimento della dignità e con esso al diritto alla vita di ogni essere umano, a prescindere da qualsiasi attributo. Come osserva il prof. Pessina, l’umanità è la comune stoffa di cui tutti siamo fatti. La condanna morale del comportamento del greve avventore del locale, l’indignazione per quella frase riprovevole reclamano quale pre-condizione il riconoscimento di un’oggettività morale negata dal relativismo etico. Come scrive il senatore Pera, a causa della sospensione del giudizio, se vuole essere coerente “il relativista o diventa muto o alza le mani”.[6]
Si giunge così al caso della coppia portatrice di una forma molto grave di distrofia muscolare (con sopravvivenza nei casi di malattia non superiore ad un anno di vita), che si legge, dopo avere avuto un figlio concepito naturalmente, nato sano ed attualmente in perfetta salute e tre figli diagnosticati prima della nascita essere affetti dalla malattia e quindi abortiti, si è rivolta al giudice per essere autorizzata a sottoporsi ad una procedura di fecondazione artificiale p
revedendo la selezione degli embrioni sani (ed ovviamente la eliminazione di quelli malati). Di nuovo non interessa qui esprimere lo sdegno per comportamenti che rendono manifesta la massima hobbesiana “non veritas, sed auctoritas facit legem”, non si vuole sottolineare la gravità di decisioni assunte da chi, pur chiamato a rispettare e servire la legge, nel silenzio di tanti prezzolati difensori delle istituzioni e della legalità, interpreta la legge in senso contrario allo spirito ed alla lettera della legge senza neppure sentire il dovere di rimettere la questione agli organi competenti. No, di nuovo queste considerazioni su fatti pur gravissimi non è quanto voglio evidenziare in questo intervento. Piuttosto mi preme sottolineare come la cultura che discrimina il malato, in collaborazione con le possibilità offerte dalla tecnica, stia marciando trionfalmente verso l’eliminazione dell’indesiderato inerme. Pur nella umana solidarietà per la sofferenza indubbia dei genitori, si è in dovere di affermare la verità, affrancandola dalla cortina dell’intenzione, liberandola dal giogo delle circostanze (chi non desidererebbe per tutti i genitori figli in perfetta salute?) mostrando l’oggetto morale dell’azione, andando al cuore della questione rispondendo alla domanda: “Che cosa fai?”. La risposta è in re ipsa, la selezione di esseri umani viventi sulla base della loro salute fisica e la loro eliminazione in caso di inadeguatezza ad uno standard fissato. Questa deriva ius-positivista è quanto il relativismo etico sta mettendo nel piatto dell’uomo del terzo millennio. Se “questo è vero e questo è falso, questo è bene e questo è male” sono cose che non si possono più dire, allora la violazione della massima aurea (non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te) e dell’imperativo morale kantiano (agisci in modo da trattare sempre l’umanità, così nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre come un fine, e mai come un mezzo) non sosterranno più la civiltà occidentale, non potranno essere più invocati dal debole; che il lupo abbia il ventre sazio sarà allora la sua unica speranza.
Ci si attende da quanti percepiscono il baratro sempre più prossimo e sopportano il pesante onere della responsabilità qualcosa di più che non qualche accorata dichiarazione di denuncia.
[1] Cfr. Istanza del tutore, Tribunale di Lecco, 18.1.1999
[2] McLean SAM. Legal and ethical aspects of the vegetative state. J Cin Pathol 1999; 52: 490-3.
[3] Paul J. Withholding food and fluids is justifiable only for terminally ill. BMJ 1999;318:1415.
[4] Cameron-Perry JE. Withholding food and fluids is justifiable only for terminally ill. BMJ 1999;318:1415. http://www.bmj.com/cgi/eletters/318/7195/1415#3253
[5] Morris JK, Alberman E. Trends in Down’s syndrome live births and antenatal diagnoses in England and Wales from 1989 to 2008: analysis of data from the National Down Syndrome Cytogenetic Register. BMJ. 2009; 339: b3794.
[6] M. Pera. Perché dobbiamo dirci cristiani. Ed. Mondatori, Milano, 2008. p. 114.
* Il dott. Renzo Puccetti è specialista in Medicina Interna e segretario del Comitato “Scienza & Vita” di Pisa-Livorno.