Verso una riscoperta nella letteratura della meraviglia creaturale

Intervista al critico letterario, padre Antonio Spadaro

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di Mirko Testa

ROMA, lunedì, 30 novembre 2009 (ZENIT.org).- Dopo le tragedie che hanno insanguinato il Novecento, occorre ora riscoprire un fecondo terreno d’incontro tra letteratura e religiosità, che travalichi il cerchio dei tormenti interiori dell’uomo per approdare a uno sguardo incantato di fronte alle meraviglie del creato.

Ne è convinto padre Antonio Spadaro, gesuita di origini messinesi, e redattore dell’autorevole rivista La Civiltà Cattolica, per la quale si occupa principalmente di letteratura, con incursioni nel campo della musica, del cinema e delle nuove tecnologie.

Padre Spadaro, molto sensibile a quelle opere che rivelano un senso del religioso fatto di attesa, abbandono e ricerca, nei suoi ultimi due saggi pubblicati da Jaca Book (“Abitare nella possibilità” e “L’altro fuoco”) compie un viaggio nella grande letteratura contemporanea, intrecciando i sentieri di critici e scrittori più o meno noti.

In questa intervista a ZENIT, il sacerdote gesuita muove dal recente incontro nella Cappella Sistina tra Benedetto XVI e 260 artisti di fama internazionale per parlare del rapporto tra cristianesimo e letteratura e di come l’esperienza estetica affini lo sguardo sul vero e sulla giustizia.

Nel discorso rivolto agli artisti, il Papa individua nello smarrimento del senso della bellezza – e quindi della speranza – la radice di tanti mali che attanagliano il mondo come lo sfruttamento selvaggio delle risorse naturali e l’ingiusta ripartizione dei beni. Mi torna in mente una frase detta di recente dallo scrittore Roberto Saviano: la bellezza sottrae terreno all’inferno. Secondo lei, lo sviluppo umano e la promozione sociale possono scaturire dalla bellezza?

Padre A. Spadaro: Nell’agosto del 2009 il Santo Padre, alla fine di un concerto offerto in suo onore dalla Bayerisches Kammerorchester Bad Brückenau, si disse stupito dal suono dell’oboe, un piccolo pezzo di legno dal quale fluisce «un intero universo». Manifestando la sua ammirazione per la carica di «promessa» che viene liberata in un piccolo pezzo creativo, proseguì: «E ciò significa che tutta la creazione è colma di promesse e che l’uomo riceve il dono di sfogliare questo libro di promesse almeno per un po’». Ecco il compito della bellezza, dunque: far comprende all’uomo che la creazione è colma di promesse. La bellezza ci dà l’intuizione del nostro destino. E la bellezza non ci lascia inerti: al contrario sollecita, soprattutto chi ha il dono della fede, ad essere operoso.

La povertà, la malattia, il dolore dell’innocente, l’ingiustizia allora sono percepiti come uno scandalo alla luce della promessa che la bellezza invece ci manifesta. Già Baudelaire in alcune sue note su Poe affermava che i poeti vedono l’ingiustizia molto spesso persino dove occhi non poetici non riescono a vederla, e questo non perché i poeti sono irritabili, ma perché vedono più in profondità e hanno una percezione più profonda del vero e della giustizia proprio a causa della bellezza.

Per questo il Pontefice afferma che l’esperienza del bello autentico non è affatto qualcosa di accessorio o di secondario nella ricerca del senso della vita e della felicità: essa non è evasione fatua, non allontana dalla realtà, ma, al contrario, porta ad un confronto serrato con il vissuto quotidiano, per liberarlo dall’oscurità e trasfigurarlo, per renderlo luminoso. In questo senso, anche il volto deturpato da una malattia, all’occhio di chi crede, può rivelarsi pieno di promessa, una promessa incompiuta ma in tensione verso il suo compimento. Ecco il punto, per accettare il quale è necessaria una grande fede: dietro una grande imperfezione (dolore, malattia, tribolazione,…) umana c’è una incompiutezza che resta assurda, monca, tronca, se non intesa come luogo di una promessa di pienezza che l’intuizione del bello è in grado di proporre alla nostra coscienza. Spesso l’esperienza artistica di verità e di bellezza chiede troppo all’uomo ed espone l’artista al rischio di restare travolto se egli non ha la grande e potente visione che è propria della fede.

Tutte le necessarie azioni umane, tutti gli sforzi contro il male e la sofferenza, prendono luce all’interno di questa prospettiva lunga e ampia. La realtà umana, vista così, assume una grande plasticità e un forte dinamismo: nulla è possibile guardare con occhio formato alle categorie cristallizzate dall’abitudine, che non servono più. Questa visione è possibile solo all’occhio profetico, ovviamente, che diventa il vero e radicale (per quanto invisibile) criterio critico per leggere ciò che ci accade sotto gli occhi. Per questo, dunque, lo sviluppo umano e la promozione sociale possono scaturire dalla bellezza.

Esiste una letteratura cristiana oppure è preferibile parlare di una letteratura abitata, vivificata dal mistero cristiano? E qual è l’identikit dell’autore “cristiano”?

Padre A. Spadaro: Io non distinguerei troppo facilmente gli scrittori attraverso la categoria del religioso e del non religioso. Mi sembra una distinzione inutile, non significativa, neanche per un lettore credente, in realtà. Anzi: il cristiano, a mio avviso, ha quello strumento ottico potentissimo che è la fede, che gli permette di poter guardare e leggere ogni cosa con libertà di giudizio. La fede non limita lo sguardo: lo potenza e lo amplia, liberandolo dalle paure. Gli scrittori che vedono alla luce della loro fede cristiana, anzi, secondo le parole della grande scrittrice cattolica statunitense Flannery O’Connor, possono perfino essere «i più fini osservatori del grottesco, del perverso e dell’inaccettabile».

E questo vale anche per lo sguardo proprio di un cristiano che è critico letterario di «professione», diciamo così. Su questo versante è anche vero che si rischia di considerare «ideologica» ogni lettura religiosa di un’opera letteraria. Su questo tema gioca certamente un timore «laicista» più che una reale preoccupazione critica. Del resto ancorare e bloccare un romanzo all’intenzione del suo autore è cosa che strangola l’opera stessa, che invece vive di vita propria nella lettura che se ne fa. Il credente ha una visione della vita a partire dalla sua fede in Cristo. Se egli legge un libro lo fa con gli occhi della fede, e facendo così mette in moto la sua coscienza critica di lettore a partire da questo sguardo. Dunque può accadere che le opere di uno scrittore non credente stimolino nel lettore credente una comprensione peculiare delle pagine che legge. Il critico che è credente può anche argomentare questo sguardo, arricchendo l’approccio critico globale a quell’opera. La critica non è mai neutra, e non capisco perché proprio lo sguardo della fede, se ben articolato e giustificato, debba essere estromesso dai possibili approcci critici.

Nessuno in Francia ha considerato «ideologico» Claudel che vede in Rimbaud un «mistico allo stato selvaggio» né mai T.S. Eliot è stato tacciato di essere un critico che «forzava» i testi. Noi in Italia invece ci siamo perfino dimenticati, ad esempio, che il grande Giacomo Debenedetti ha maturato il suo sguardo critico leggendo i profeti dell’Antico Testamento…

E’ possibile evidenziare nella letteratura delle caratteristiche che differenziano, per esempio, gli autori cattolici da quelli protestanti o ortodossi?

Padre A. Spadaro: In Italia, probabilmente a causa di una rimozione, parlare in certi contesti culturali di «cattolico» suona un po’ politically uncorrect: meglio dire «cristiano». Ora è vero che, in generale, «cattolico» non è e non può essere la delimitazione di un territorio, ma l’ottica di uno sguardo universale. Tuttavia è anche vero che esiste una tradizione cattolica, come esiste una tradizione protestante e anche ortodossa all’interno del cristianesimo.
Le diverse tradizioni cristiane portano con sé atteggiamenti, modi di vivere il cristianesimo che sono frutto di teologie e di sensibilità spirituali non omogeneizzabili né livellabili. Dunque sì, spesso il binomio «cristianesimo e letteratura» troppo rapidamente assorbe ogni forma di riflessione. Invece sarebbe necessario cominciare a considerare le differenze di confessione all’interno del cristianesimo. Per essere chiari: come mettere sullo stesso piano l’ispirazione de Il signore degli anelli e dei Promessi Sposi dei cattolici Tolkien e Manzoni (per non citare Dante) e le dialettiche immagini dei film di Bergman quali Il settimo sigillo o i romanzi di Hawthorne? Le differenze di confessione cristiana incidono direttamente sul modo di intendere il rapporto tra cristianesimo e letteratura.

Nella sua Lettera agli artisti, Giovanni Paolo II scriveva che “persino quando scruta le profondità più oscure dell’anima o gli aspetti più sconvolgenti del male, l’artista si fa in qualche modo voce dell’universale attesa di redenzione”. Spesso lei si occupa di scrittori e poeti per così dire “di frontiera”, o meglio non direttamente d’ispirazione cristiana, ma che danno comunque voce all’inquietudine umana e a una religiosità che parla dell’attesa. Forse nella letteratura odierna risuona di più l’accorato appello interiore di Giobbe che non uno sguardo stupito di fronte al mondo modellato sulla Genesi?

Padre A. Spadaro: Sì, certo, lo scrivevo in un mio recente articolo su La Civiltà Cattolica. Il territorio della coscienza inquieta è un terreno fondamentale per intuire un incontro tra letteratura e religiosità. E’ forse quello più praticato dalla critica cattolica del Novecento. La strada del secolo scorso è quella di Agostino sismografo della condizione umana e del suo cor inquietum. Eppure questa non è l’unica strada praticabile: le radici antiche della poesia italiana sono nella lauda e nel cantico francescano, nello sguardo meravigliato e aperto al mondo, nello stupore creaturale. Non è solamente nel moto del cuore e nei tormenti dell’animo che troviamo la traccia del divino che si imprime nei versi dei poeti. Occorre dunque forse andare oltre, nella direzione della meraviglia creaturale, della descrizione della realtà come dono. Oggi, dopo il Novecento e le sue tragedie, è ancora possibile cercare un luogo di incontro tra arte e fede non solamente in Giobbe o nel Qohelet, ma anche in Genesi e nella sua intuizione delle origini buone del mondo, nel dito creatore di Dio.

Non è un caso se Giovanni Paolo II aveva esordito nella sua lettera agli artisti proprio affermando che nessuno meglio dei «geniali costruttori di bellezza», può intuire qualcosa del pathos con cui Dio, all’alba della creazione, guardò all’opera delle sue mani. E questa visione dello stupore dell’inizio si connette radicalmente allo stupore della promessa di ciò che sarà in una visione escatologica di cui l’appello di Benedetto XVI è carico, soprattutto lì dove, citando Agostino, propone una visione «mai contemplata dagli occhi, mai udita dalle orecchie, mai immaginata dalla fantasia: una visione che supera tutte le bellezze terrene, quella dell’oro, dell’argento, dei boschi e dei campi, del mare e del cielo, del sole e della luna, delle stelle e degli angeli; la ragione è questa: che essa è la fonte di ogni altra bellezza».

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ZENIT Staff

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