ROMA, sabato, 28 novembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un articolo di Stefano Fontana, direttore dell’Osservatorio Internazionale “Cardinale Van Thuân” sulla Dottrina sociale della Chiesa e consultore del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace.
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Il problema della denutrizione e della fame è ben presente nella nuova enciclica sociale di Benedetto XVI Caritas in veritate. Lo è, però, in modo particolare, perché particolare è lo stile di approccio ai problemi di questa enciclica. Non tutti i lettori hanno colto questo nuovo stile ed hanno mosso delle critiche al testo, che sarebbe dispersivo, toccando molti temi senza approfondirne nessuno. La realtà è che, più che proporre soluzioni alle varie problematiche sociali, la Caritas in veritate si premura di insegnarci un metodo per affrontarli. Per questo essa non è una raccolta di indicazioni di saggezza sociale, ma l’annuncio di una proposta di salvezza, un invito a non affidarsi solo a leggi e a strutture, ma a cambiamenti di vita. Il cambiamento di vita decisivo è l’accoglienza della verità e della carità come un dono che irrompe nella nostra vita e che illumina tutte le relazioni sociali con una luce nuova. Si capisce così come il problema della fame, affrontato in un solo paragrafo, il 27, sia anche illuminato dall’intero testo dell’enciclica. Ciò vale anche per gli altri temi sociali: non ci si sofferma su di essi analiticamente, ma si evidenzia la luce nuova che su di essi cala dalla verità e dalla carità. Questo è lo specifico cristiano e della Dottrina sociale della Chiesa che si colloca quindi nel punto di incontro tra la spiritualità cristiana e le realtà temporali ed annunciando Dio che è Verità e Amore, conferma, valorizza e purifica anche tutte le altre forme di verità e di amore presenti nella storia.
Uno degli effetti dell’accoglienza della verità a proposito del problema della fame, come degli altri temi connessi con lo sviluppo è il rifiuto dei molti riduzionismi ideologi che ancora influenzano la nostra mentalità ed azione. La Caritas in veritate dice che il problema dello sviluppo è oggi policentrico, ossia “le colpe e i meriti sono differenziati”. In altri termini, e in concreto, non si presta più al vecchio schema Nord ricco e sfruttatore versus Sud povero e sfruttato. Non è più tutto qui. Per molti motivi. Per esempio perché nuovi paesi emergenti giocano ormai un ruolo fondamentale negli equilibri (o squilibri) economici mondiali. L’Africa oggi è più sfruttata dall’Occidente o dalla Cina? Chi appoggia le élites politiche africane più sanguinarie? Per fare un altro esempio: perché il sottosviluppo e la fame sono anche provocate da arretratezze culturali autoctone, oltre che da vincoli culturali imposti dall’esterno. Oppure, per farne un altro: perché i grandi organismi internazionali che dovrebbero provvedere agli aiuti allo sviluppo – e la mente corre subito alla FAO – sono troppo autoreferenziali e finanziano soprattutto le proprie burocrazie interne più che il vero servizio ai poveri di questo mondo. Un altro ancora: nel turismo sessuale sono colpevolmente responsabili solo le agenzie occidentali o anche i loro partners locali? Come si vede, la Caritas in veritate invita a togliersi gli occhiali delle ideologie e a guardare la realtà: le responsabilità sono tante e gli aiuti devono muovere dalla carità ma nella verità, altrimenti diventano controproducenti. Il caso tipico è quello degli aiuti alimentari che quando arrivano in loco spiazzano totalmente il mercato locale e mandano in miseria produttori e commercianti autoctoni. Si vedano per esempio le critiche ad un certo modo di intendere gli aiuti internazionali nel paragrafo 58 o le osservazioni critiche fatte alle proposte di mercati paralleli o di finanza alternativa che confermano l’emarginazione dei paesi poveri dal mercato vero e dalla finanza vera. Da un lato si demonizza il mercato in quanto tale, dall’altro si propone di allargare il mercato ai paesi poveri. Anche queste sono ideologie. La Caritas in veritate propone qualcosa di più realistico: cambiare il mercato, non crearne altri di paralleli, piccoli rigagnoli destinati a inaridirsi. Sottili critiche vengono mosse anche alla cosiddetta “finanza etica”, che pure talvolta è asservita a ideologie di parte e che soprattutto può avere il limite di disimpegnare dal riformare la finanza in quanto tale. Critiche meno sottili vengono mosse al progetto della “decrescita”, che testimonierebbe, secondo l’enciclica, una sfiducia nell’uomo. La luce della carità nella verità illumina quindi il cammino prima di tutto liberandoci dalle ideologie e dalle visioni riduttive. La carità da sola non basta perché per amare bisogna sapere cosa è il bene di chi sia ama; la verità da sola nemmeno perché essa ci mobilita solo se si fa amare.
Il capitolo 27 che riguarda il drammatico problema della fame va quindi letto alla luce dell’intera enciclica. Si comprenderà allora che quello della fame è un problema di istituzioni da creare ma è anche un problema di accompagnamento delle comunità locali, di forzare certe limitazioni dovute a culture che, per esempio, impediscono la collaborazione produttiva tra agricoltori, di applicare gli aiuti in modo sussidiario, senza creare nuove dipendenze.
Due punti dell’enciclica sembrano di particolare importanza. Il primo è la proposta di una collaborazione tra le scienze, in modo che si trovino soluzioni migliori alla luce di un’etica pienamente umanistica. Che gli aiuti rispondano ad esigenze di verità oltre che di carità vuol dire che devono rispettare quanto dicono le scienze, prima di tutte l’economia ma non solo, e soprattutto quanto dicono le scienze che dialogano tra di loro. Aiuti che non siano fatti nel rispetto delle leggi economiche sono diseconomici e quindi non sono nemmeno aiuti. Tra gli aiuti che i paesi sviluppati dovrebbero dare a quelli poveri c’è anche il sapere. Troverebbero spazio in questo contesto le discussioni sull’utilizzo degli Organismi geneticamente modificati nell’agricoltura dei paesi poveri.La Caritas in veritate non ne parla, ma in questo richiamo all’interdisciplinarietà dei saperi si può vedere l’esigenza di esaminare il problema, o quantomeno di non scartarlo ideologicamente a priori. Il secondo punto importante è l’invito ad intendere l’imprenditorialità in senso “plurivalente” e a attuare trasferimenti di competenza professionale da un settore all’altro ed anche dal Nord al Sud. Il Sud è povero anche di esperienze imprenditoriali. La Caritas in veritate invita ad inventarne di nuove, che superino la contrapposizione limitante tra profit e non profit, ed invita a creare occasioni di scambio di competenze. Per esempio la forma imprenditoriale della cooperazione è scarsamente presente nei paesi in via di sviluppo, mentre potrebbe essere risolutiva in molti casi. Anche le forme di microcredito, già avviate in molte situazioni di povertà, hanno bisogno di ricevere maggiore professionalità. Mentre si sta formando una “classe cosmopolita di manager”, che non rispondono sostanzialmente a nessuno, nemmeno ai loro azionisti, bisognerebbe creare trasferimenti orizzontali e verticali di professionalità per lo sviluppo.
[Fonte: www.vanthuanobservatory.org]