ROMA, sabato, 21 novembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo quasi per intero il discorso pronunciato il 18 novembre da mons. Mauro Piacenza, Segretario della Congregazione per il Clero, intervenendo alla Giornata di Studio su “La comunicazione nella missione del sacerdote”, organizzata dalla Facoltà di Comunicazione della Pontificia Università della Santa Croce.
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L'efficacia del ministero, garantita, nei suoi aspetti essenziali, dalla grazia divina, descritta nell'ex opere operato di tomista memoria, è affidata anche, misteriosamente e nel contempo in modo affascinante, alla libertà del singolo sacerdote e al percorso di progressiva conformazione esistenziale a Cristo, unico sommo sacerdote, che ha inizio con il sacramento dell'ordine e prosegue per tutto il tempo dell'esistenza terrena. In tal senso, ciascun sacerdote è, per eccellenza, uomo della comunicazione: della comunicazione con Dio e della comunicazione di Dio ai fratelli, a lui affidati nella sollecitudine del ministero.
Come ricorda la Lettera agli Ebrei (5, 1-2), il sacerdote è un uomo totalmente relativo a Dio, dell'unico «relativismo» di cui sia possibile gloriarsi! È un uomo costituito dalla Misericordia divina in una precisa funzione rappresentativa di Cristo stesso: è alter Christus, come c'insegna la migliore tradizione ecclesiale. In tal senso egli è, indipendentemente anche dalle personali doti di comunicatore, sacramentalmente costituito in comunicazione-rappresentativa di Cristo stesso: il sacerdote e il sacerdozio non sono autosufficienti o indipendenti da Cristo e, quando — Dio non voglia! — lo divenissero, perderebbero la propria stessa forza missionaria, riducendosi a mere realtà umane, incapaci, per conseguenza di comunicare e rappresentare il Mistero. Lo stesso esercizio dei Tria munera sacerdotali è eminentemente un atto di comunicazione. Non mi riferisco solo al munus docendi, che lo è in modo più diretto e immediato nella predicazione e nella catechesi, ma anche al munus sanctificandi, in quella straordinaria forma di celeste comunicazione che è la divina liturgia, che obbedisce a precise regole comunicative proprie, mai disponibili a personali manipolazioni o aggiustamenti, e al munus regendi, per mezzo del quale i sacerdoti sono chiamati a comunicare la sollecitudine di Cristo Capo, Buon Pastore, che pasce, attraverso i suoi ministri, il gregge, per condurlo al Padre.
La comprensione e, dove necessario, la ri-comprensione della sostanziale natura ontologico-rappresentativa del sacerdozio ministeriale, distinto essenzialmente da quello battesimale, costituisce oggi un'autentica priorità per il clero, sia nella formazione iniziale, sia in quella permanente. Insegna a tal riguardo il Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1581: «Questo sacramento configura a Cristo in forza di una grazia speciale dello Spirito Santo, allo scopo di servire da strumento di Cristo per la sua Chiesa. Per mezzo dell'ordinazione si viene abilitati ad agire come rappresentanti di Cristo, Capo della Chiesa, nella sua triplice funzione di sacerdote, profeta e re».
La prima e più efficace condizione perché ciascun sacerdote assuma consapevolmente la responsabilità della comunicazione che pone in essere, è determinata dalla comprensione della propria autentica e profonda identità, sacramentalmente e definitivamente determinata, non disponibile e, proprio per questo, oggettiva comunicazione del divino. Lo stesso Santo Padre, nel mettere in luce il nucleo essenziale della spiritualità di san Giovanni Maria Vianney, nel cui 150° anniversario celebriamo l'Anno sacerdotale, lo ha individuato nella «totale immedesimazione con il proprio ministero». Proprio tale immedesimazione è condizione imprescindibile d'ogni efficace comunicazione.
La seconda suggestione, che mi pare urgente offrire, riguarda l'indebito, e non di rado perfino davvero imbarazzante, proliferare dei «preti-star», presenti in molti organi d'informazione, soprattutto in televisione, senza alcun permesso dell'ordinario e senza possibilità di reale controllo da parte della legittima autorità ecclesiastica.
Se da un lato sarebbe onestamente auspicabile, in tale ambito, un'opportuna riflessione sul servizio di «sorveglianza» degli ordinari — non si tratterebbe di un soffocante regime «poliziesco», ma di senso di responsabilità e di carità pastorale verso tutti, credenti e non — dall'altro ferisce non poco la constatazione di come spesso, se non nella maggioranza dei casi, certi sacerdoti, e persino alcuni religiosi, si discostino, anche palesemente, dalla comune dottrina, e non solo in ambito morale, ma anche de fide. È il segno d'uno smarrimento della propria coscienza identitaria, che determina, non di rado, disorientamento nei fedeli laici e nei comuni ascoltatori, i quali sono posti davanti alla differenza, talora clamorosa, tra la dottrina ufficiale della Chiesa e quanto comunicato — aggiungerei «inopportunamente!» — dai sedicenti preti-star.
Sappiamo bene come il mondo, nel senso giovanneo — e in tal senso non pochi media svolgono pienamente questo compito — abbia sempre cercato di travisare la verità, di disorientare e, soprattutto, di nascondere la poderosa unità della dottrina cattolica, sia intesa in se stessa, come compiuto sistema di comprensione del reale che ha in Dio stesso la propria origine soprannaturale, sia rispetto alla reale unità del Corpo ecclesiale che, ben lo sappiamo, è seme fecondo d'efficace testimonianza, all'insegna della preghiera sacerdotale: Ut unum sint. Ora è quanto mai importante evitare il proliferare di quello che non ho timore di definire un vero e proprio far west comunicativo, nel quale alcuni sacerdoti, pretendendo di parlare in nome della Chiesa e, di fatto, in parte rappresentandola, almeno in forza dell'ordinazione sacramentale, procurano divisione e disorientamento, arrecando un vero e proprio danno all'unità e all'efficacia della comunicazione ecclesiale ed evangelica. Se si considera, poi, l'amplificazione che tali interventi mediatici hanno, in forza degli strumenti adottati la responsabilità diviene davvero incalcolabile. Vengono in mente le parole chiare del Signore: «Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli» (Matteo, 5, 19). Probabilmente, parte della Chiesa, e in essa del corpo episcopale chiamato a vigilare, deve ancora assumere pienamente il significato portante che, anche a livello antropologico, ha avuto, e avrà nei prossimi decenni, la cosiddetta «rivoluzione mediatica», che, dopo quella francese e industriale, è la più importante rivoluzione della modernità.
Un'ultima osservazione sul significato e sulla corretta collocazione teologica della comunicazione. Non di rado si è creato un certo slittamento semantico tra i termini «comunione» (communio) e «comunicazione», pensando d'individuare reali o presunte «radici trinitarie» alla comunicazione umana. Se è chiaro che è sempre l'uomo l'attore, o almeno uno degli attori, della comunicazione, e che l'uomo è stato creato a immagine del Dio trinitario, ed è chiamato a divenirne somiglianza, tuttavia non pare direttamente giustificata un'identificazione dei due suddetti termini. La communio appartiene all'ordine dei fini ed è assolutamente necessario rispettarne la natura, anche e soprattutto all'interno del discorso teologico. La comunicazione, per contro, appartiene all'ordine dei mezzi e può lecitamente essere descritta come un mezzo, forse come uno dei mezzi più efficaci, per il raggiungimento o, meglio, l'accoglienza della communio. Ritengo che la riflessione su questa «strumentalità» e «finalizzazione» della comunicazione alla comunione, sia premessa indispensabile d'ogni pensare teologico, che voglia portare un contributo realmente edificante, e permetta, anche alla comunicazi one dei sacerdoti, una reale finalizzazione che, in sintesi, potrebbe, semplicemente, rispondere alla domanda: «Quanto sto comunicando appartiene alla Chiesa? Favorisce la comunione? Comunico, cioè metto in comunione, chimi ascolta, con duemila anni di storia cristiana?».
Anche nella comunicazione dei sacerdoti è di straordinaria efficacia quanto ricordato dal Papa nella Caritas in veritate: «L'essere umano è fatto per il dono, che ne esprime ed attua la dimensione di trascendenza. Talvolta l'uomo moderno è erroneamente convinto di essere il solo autore di se stesso, della sua vita e della società. È questa una presunzione, conseguente alla chiusura egoistica in se stessi, che discende — per dirla in termini di fede — dal peccato delle origini. La sapienza della Chiesa ha sempre proposto di tenere presente il peccato originale anche nell'interpretazione dei fatti sociali e nella costruzione della società: “Ignorare che l'uomo ha una natura ferita, incline al male, è causa di gravi errori nel campo dell'educazione, della politica, dell'azione sociale e dei costumi (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 407)». Evidentemente può essere causa di gravi errori anche nel campo della comunicazione e della «comunicazione nella missione del sacerdote».
[L'OSSERVATORE ROMANO - Edizione quotidiana - del 20 novembre 2009]