Quale modello di integrazione dell’immigrato nella società di accoglienza?

Al via il VI Congresso mondiale della pastorale per i migranti e i rifugiati

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di Chiara Santomiero

ROMA, lunedì, 9 novembre 2009 (ZENIT.org).- “Quando si parla di integrazione significa che l’immigrato deve adattarsi al modello di vita locale, fino a diventare una copia dell’autoctono, trascurando le proprie legittime radici culturali?”: è la domanda posta da mons. Agostino Marchetto, segretario del Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti, all’inizio della sessione pomeridiana del VI Congresso mondiale della pastorale per i migranti e i rifugiati dal titolo “Una risposta pastorale al fenomeno migratorio nell’era della globalizzazione. A cinque anni dalla Erga migrantes caritas Christi” che è iniziato questo lunedì in Vaticano.

Se così fosse, ha proseguito Marchetto, “l’immigrato verrebbe assimilato e non integrato” e questa assimilazione “rappresenta un impoverimento anche delle società d’accoglienza, perché il contributo culturale ed umano dell’immigrato alla società che lo ospita è in tal modo minimizzato, se non annullato”.

Può accadere, al contrario, che “trovandosi in un nuovo ambiente l’immigrato prenda consapevolezza della propria identità con una intensità mai sperimentata prima”. Ciò lo porterà a cercare “compagnia e sicurezza tra coloro che provengono dalla medesima nazione e cultura” correndo il rischio “di formare un ghetto con relativa emarginazione”.

“Occorre ricordare – ha sottolineato il segretario del Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti – che l’integrazione non è una strada a senso unico”. Non si tratta, infatti, di un cammino che solo l’immigrato deve percorrere ma anche “dalla società di arrivo che, a contatto con lui, scopre la sua ‘ricchezza’, cogliendo i valori della sua cultura”.

Ne consegue che “la vera integrazione si realizza là dove l’interazione tra gli immigrati e la popolazione autoctona non si limita al solo campo economico-sociale, ma si attua in pienezza, comprendendo anche quello culturale”. Occorre la disponibilità di entrambe le parti giacché “motore dell’integrazione è il dialogo e ciò presuppone un rapporto reciproco”.

“Nel mondo attuale – ha affermato l’economista Stefano Zamagni – esiste la cosidetta ‘sindrome di Johannesburgh’ secondo la quale i ‘ricchi’ devono difendersi dai ‘poveri’, riducendo od ostacolando i loro spostamenti”.

Si verifica un “paradosso sconcertante” per il quale “la globalizzazione economica, mentre accelera e magnifica la libertà di trasferimento di beni e capitali, ostacola i movimenti delle persone”. Una “nuova retorica” si diffonde a livello culturale: “i migranti come responsabili delle crisi sociali e delle nuove paure collettive e soprattutto come minaccia seria alla salvaguardia delle identità nazionali”.

Per questo motivo, ha aggiunto Zamagni “il tema della migrazione viene legato a quello della sicurezza”.

Tutto questo, insieme agli errori compiuti nelle politiche dei governi, “è frutto di ignoranza cioè di mancata conoscenza del fenomeno migratorio”. Si ritiene, per esempio “che occorra bloccare le frontiere dei nostri paesi all’immigrazione e promuovere piuttosto lo sviluppo nei paesi di partenza perché questo arresterà il fenomeno”.

Ma “se è vero – ha sostenuto Zamagni – che è importante investire nello sviluppo dei paesi poveri, gli studi dimostrano però che lo sviluppo produce l’effetto di far diminuire le migrazioni solo dopo un certo tempo. Nella prima fase di questo processo, al contrario, la pressione migratoria aumenta”.

Anche “la tradizionale distinzione tra paesi d’origine, di transito e destinazione non ha più senso”. “I paesi del bacino del Mediterraneo – ha spiegato Zamagni – ne sono un esempio: il nord Africa, infatti, da area di partenza è diventata di transito e si appresta a diventare area di destinazione. C’è un fenomeno nuovo, non verificatosi in precedenza, della circolarità dell’emigrazione nell’arco di 10-20 anni”.

Una cosa risulta chiara: “il fenomeno migratorio – ha concluso Zamagni – per tutti questi motivi non è più gestibile al livello dei singoli paesi. Occorre affrettare la costituzione di una autorità per le migrazioni a livello mondiale che abbia il potere di emettere delle regole e di farle rispettare in caso di inadempienza dei singoli stati”.

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ZENIT Staff

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