Caravaggio e l’armigero della Mezzaluna

La misteriosa figura scomparsa dalla Conversione di Saulo (Collezione Balbi Odescalchi)

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ROMA, giovedì, 10 settembre 2009 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito l’articolo apparso sul nuovo numero di Paulus, dedicato a “Paolo il cosmopolita”.

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Benedetto il giorno in cui qualcuno decise di restaurare la Conversione di Saulo conservata presso la Collezione Balbi Odescalchi a Roma. Quest’opera, commissionata al Caravaggio nel settembre del 1600 da Tiberio Cerasi, tesoriere di papa Clemente VIII Aldobrandini, doveva essere collocata nella cappella da lui acquistata in Santa Maria del Popolo a Roma, di fronte alla Crocifissione di San Pietro, opera andata perduta. Le due tavole, in cipresso, non raggiunsero lo spazio loro destinato perché vennero giudicate non idonee. E qui nasce subito il primo quesito su chi avesse espresso un tale giudizio: il Cerasi? i nuovi committenti che erano subentrati alla sua morte? il Caravaggio stesso? Per rispondere in modo ragionevole, penso non sia fuori luogo l’utilità di confrontare questa versione della Conversione di Saulo con la tela che poi venne accolta e che ancora oggi si trova nella cappella Cerasi, e verificare cosa è rimasto e cosa invece è stato abbandonato. Dei cinque personaggi della prima versione (due armigeri, l’angelo, il Cristo e Saulo), nella seconda ne sono rimasti solo due (un palafreniere e Saulo). Nella prima versione, in particolare, notiamo che la figura dell’anziano armigero, che brandisce lancia e scudo, occupa un cospicuo spazio compositivo. Infatti nei due fuochi della prima versione troviamo da un lato lo scudo dell’anziano armigero, dall’altro il corpo di Saulo. Lo scudo dell’anziano armigero, inoltre, è l’unico elemento “codificato” del quadro: esso reca impressa l’immagine di una mezzaluna in cerchio dorato (foglia d’oro su base d’argento). Alcuni hanno interpretato questa mezzaluna come la rappresentazione più ovvia del nemico: i Turchi, sconfitti nel 1571 a Lepanto. Altri – a partire da Mauro Di Vito – hanno suggestivamente pensato che ci si riferisse al “mal della luna”, cioè all’epilessia. I raffinati lavori di restauro della tavola hanno messo in luce che il volto dell’anziano soldato è stato ritoccato più volte da Caravaggio. Nella versione definitiva egli ha assunto le sembianze di un vecchio dalla barba molto più lunga e bianca. Più che di un soldato, sembra il volto di un anziano rabbino corrucciato e sulle difensive: un uomo di studio abituato alla disputa verbale. È allora ipotizzabile un collegamento tra la luna e il popolo ebraico?

Israele ovvero il popolo-luna?

Per non correre il rischio di confondere più che chiarire, mi affido all’esperienza di un “divulgatore” erudito. Louis Ginzberg, nei volumi della sua opera Le leggende degli ebrei (1909-1938, edita in Italia da Adelphi), ricorda che nei commenti rabbinici al quarto giorno della creazione (Gn 1,14-19) si menziona una discussione tra la luna e Dio (cfr. Berešit Rabba VI,3). La luna vorrebbe essere più potente del sole, ma per questa sua richiesta viene punita: le sarà concesso solo un sessantesimo della sua luce. La luna otterrà tuttavia un compenso per questa riduzione: essa diventerà «simbolo di Israele e dei giusti», mentre il sole rappresenterà Esaù e gli empi, ossia la futura Roma. Inoltre la luna potrà apparire anche di giorno, mentre il sole non sarà mai visibile di notte (cfr. vol. I, Dalla creazione al diluvio, p. 42 e nota 99 a p. 212). Gli effetti si vedranno in prossimità della nascita dei due figli di Isacco, Esaù e Giacobbe (Gn 25,19-26). Spiega Ginzberg: al settimo mese di gravidanza, i due gemelli erano già in lotta tra loro. «Se Rebecca passava in prossimità di un tempio di idolatri, Esaù si dimenava; se invece arrivava nelle vicinanze di una sinagoga […] era Giacobbe ad agitarsi nella smania di uscire dall’utero» (vol. II, Da Abramo a Giacobbe, p. 124). E se Esaù sosteneva non esserci altra vita oltre la presente (= sole), Giacobbe affermava l’esistenza di una vita futura (= luna) e proponeva: «Tu prenditi questo mondo, e io mi prenderò l’altro». E quando Rebecca indagò sul futuro dei suoi figli, si sentì dire: «Tu hai nel grembo due nazioni […] queste due nazioni possederanno ciascuna un suo mondo: l’una la Torah, l’altra il peccato. L’una genererà Salomone, costruttore del Tempio, l’altra Vespasiano, che lo distruggerà […] Israele e Roma» (ibid., p. 126). Così pure il volto “disegnato” sulla luna è quello di Giacobbe (ibid., p. 157 e nota 134 a p. 314). Recentemente l’identificazione luna-ebrei è stata ricordata dal discusso Haim Baharier – considerato uno tra i principali studiosi di ermeneutica biblica e di pensiero ebraico in Italia, allievo dei filosofi Emmanuel Levinas, Leon Askenazi e del Rabbi Israel di Gur – nella sua prima lezione di un ciclo di cinque sulla Genesi al teatro Dal Verme di Milano. La luna rappresenterebbe simbolicamente l’identità ebraica e tutta la piccolezza e la infirmitas caratteristica del popolo ebraico, che nel suo tribolato percorso può entrare in contrasto con l’alterità, ma senza mai annullarla ed esserne annullato. La condizione della luna è uno stato di opposizione alla rassegnazione, uno stato che rimane sempre progettuale nella sua esistenza. La stessa ritualità ebraica segue il ciclo lunare. L’influsso di queste tradizioni è facilmente rinvenibile anche nella mistica ebraica. Un esempio per tutti ci viene dallo scritto La Corona Regale di Shelomò ibn Gabirol, noto ai più come Avicebron. Nelle strofe XI e XII, dedicate alla luna, il mistico e filosofo ammonisce: «E coloro i quali ritengono che sia il sole il loro dio / a tale vista [dell’eclisse] si vergognino dei loro pensieri / avendo riguardo a quel che dicono. / Sappiano che c’è la divina potenza / che ha fatto tutto ciò, e tale facoltà / non è concessa al sole, / ma il potere è concesso soltanto / a Colui che ne oscura la luce. / Egli manda al sole uno dei Suoi servi [la luna], partecipe della sua bontà, / per nascondere la sua luce, / distruggere il suo simulacro / ed eliminare il suo potere» (Avicebron, La Corona Regale [XII], Nardini, Firenze 1990, p. 43). Non è difficile riconoscere nell’attività della luna – che nella sua debolezza oscura e umilia il potere solare – la missione anti-idolatrica svolta dal popolo dell’antica alleanza presso tutte le altre nazioni. Per la Chiesa patristica – prima alessandrina e poi occidentale – non sarà difficile applicare a sé il mysterium lunae, riprendendolo anche dalla cultura ellenistica (cfr. H. Rahner, «Mysterium lunae», in Simboli della Chiesa. L’ecclesiologia dei Padri, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995, pp. 147-287).

La drammatica situazione degli ebrei nella Roma caravaggesca

Ma ai tempi di Caravaggio gli ebrei, oltre ad essere costretti al ghetto e a subire la predica coattiva – riportata in vigore da papa Gregorio XIII – erano anche “valorizzati” per la loro attività legalizzata di feneratori a servizio dei potenti. È probabile che la bolla Christiana pietas (6 ottobre 1586) di papa Sisto V, con la quale si concede agli ebrei di rientrare nelle città dello Stato pontificio, dietro pagamento di una cospicua somma, fosse sostenuta dalla convinzione che la sua economia avrebbe trovato giovamento dall’intraprendenza degli ebrei; ma nel 1593 papa Clemente VIII scaccia di nuovo gli ebrei dai piccoli centri. In controtendenza va menzionata la legge del Granduca di Toscana Ferdinando I de’ Medici dello stesso anno (10 giugno 1593), la cosiddetta “Livornina”, che ufficializza la presenza degli ebrei a Livorno. C’era poi il carnevale, «un vero incubo. Per gli ebrei romani, nel Medio Evo, i “Giochi di Agone e di Testaccio” prevedevano che i contendenti si sfidassero a cavallo di ebrei invece che di cavalli. Da descrizioni più tarde invece risulta l’uso di far rotolare un ebreo in una botte chiodata dal colle di Testaccio. Meglio se anziano. Benché sostituiti dal tri
buto di 1.130 fiorini, i “ludi carnascialeschi” hanno successivamente ripreso vigore nella via Lata, chiamata poi via del Corso, quando il Papa da Palazzo Venezia assisteva alla “corsa dei barberi, dei bufali, dei somari e degli ebrei”, con questi ultimi rimasti nel 1583, a Ghetto ormai istituito, le sole “bestie bipedi” a correre nude tra i lazzi del popolino. Poi nel 1668 papa Clemente IX abolì la corsa, sostituendola con un tributo di trecento scudi […] Anche questo è successo agli ebrei di Roma». Così Paolo Brogi, introducendo il convegno Judei de Urbe presso la Sala Alessandrina dell’Archivio di Stato con il coordinamento dell’Università La Sapienza (cfr. Il Corriere della Sera, 4 novembre 2005, p. 9).

All’avanguardia: gli ambienti culturali frequentati dal Merisi

A parte il rogo di Giordano Bruno e il gioco della pallacorda, gli ambienti culturali romani frequentati da Caravaggio sono raffinati e all’avanguardia. Luigi Spezzaferro ha messo in luce il circolo del cardinale Francesco Maria Bourbon del Monte attraverso il quale, dal 1595, Caravaggio entra a contatto con la nuova scienza (Copernico, Kepler, Galileo) e con la nuova musica (del Monte è “protettore” dell’Accademia di Santa Cecilia). Attorno a lui ruotano il fratello Guidobaldo del Monte e il già citato Ferdinando de’ Medici. Il cardinale, di suo, è appassionato di studi alchemici e cabbalistici. Ci sono poi i banchieri papali (Ottavio e Orazio Costa, Vincenzo Giustiniani), tra cui lo stesso Tiberio Cerasi, tesoriere papale. Tra gli altri artisti, figura il poeta Giovan Battista Marino. Mia Cinotti, che ci ha regalato uno dei migliori “cataloghi” caravaggeschi (Grand Prix Elie-Faure, 1985, per il miglior catalogo ragionato), sintetizza: «Dunque il Caravaggio fra il volgere del Cinquecento e i primi del Seicento aveva stretto una fitta rete di rapporti con personaggi influenti, legati fra loro da vari interessi materiali e spirituali: alti prelati, letterati, poeti, banchieri, avvocati, dietro a taluni dei quali stavano punti d’appoggio molto differenziati, dagli Oratoriani […] agli Agostiniani […] fino all’area frondista della Controriforma». Forse furono proprio queste sue frequentazioni a suggerire per un verso al Caravaggio l’impostazione della prima versione e nello stesso tempo, per altro verso, a costringerlo ad eliminare nella seconda quella figura di rabbino in armi: inviso, ma pur inevitabilmente necessario ai committenti diretti e indiretti. Troppo evidente sarebbe stata l’identificazione del nemico, dell’infedele: difensore di Saulo, ma nemico di Cristo; anzi, disposto a contrapporre una spada e poi una lancia acuminata contro il presunto Messia, troppo umano per essere accolto dal popolo eletto. Quel personaggio che si difende e attacca sarebbe stato troppo scomodo e avrebbe distratto l’attenzione dal vero protagonista: il Saulo accecato, ma tuttavia capace di vedere il Cristo e di sentirne distintamente le parole ricordate in Atti 26,13-14. Il cavallo, sullo sfondo, immagine simbolica di un Saulo recalcitrante nella sua esuberanza religiosa, è ora riposizionato dalla dynamis di Cristo – da persecutore in apostolo – con il piede sollevato in attesa di comando. Se di epilessia o di pazzia si vuole parlare, essa è esclusivamente quella di Cristo «che avrebbe sofferto e che, primo tra i risorti da morte, avrebbe annunciato la luce al popolo e ai pagani» (At 26,23).

Carlo Cibien

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ZENIT Staff

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