di Genevieve Yep Pollock
CHICAGO, lunedì, 30 marzo 2009 (ZENIT.org).- Il progetto di Dio comprende anche lo sport ed è giocando bene che si rende gloria a Lui, afferma il co-proprietario dei Chicago Bears, Patrick McCaskey.
Oltre ad essere impegnato professionalmente in questa squadra, McCaskey è anche presidente di Sports Faith International, nonché autore e relatore su temi religiosi e sportivi.
In questa intervista rilasciata a ZENIT, McCaskey parla della sua esperienza come cattolico nel suo ruolo di proprietario e nipote del fondatore dei Bears, nonché delle iniziative a sfondo religioso a cui collabora.
Cosa significa essere cattolico e al contempo proprietario di una squadra professionista?
McCaskey: Implica una buona dose di dipendenza da Dio. Ho avuto la fortuna di avere a che fare con i Bears sin dalla mia infanzia. Nel mondo del football è come stare sulle montagne russe, ma Dio è sempre presente.
Con la fede in Dio cerco di rispondere al suo progetto sulla mia vita. Con la speranza in Dio cerco di essere una voce di incoraggiamento. Con l’amore in Dio cerco di dare testimonianza a Gesù.
Vogliamo vincere i campionati con sportività. Facciamo il nostro lavoro bene ma senza clamore, per la gloria di Dio. Temiamo Dio e rispettiamo i nostri avversari. Lavoriamo in modo diligente e ci affidiamo a Lui per i risultati.
Siamo grati a Dio perché ha creato un mondo meraviglioso in sei giorni; perché Gesù è morto per i nostri peccati e per i nostri errori; quando abbiamo bisogno dello Spirito Santo, Lui c’è – e c’è anche quando pensiamo di non averne bisogno.
Quattro ore e mezzo prima di ogni gara si celebra la Messa, sia in casa che fuori casa, e anche io ci vado: leggo le letture. Trovo molto utile lavorare per i Bears.
Anche per conto mio leggo la Bibbia. Sono convinto che abbiamo bisogno di leggere la Bibbia per conoscere la verità. Nella Bibbia ci sono 1.328 capitoli e io cerco di leggerne 26 a settimana. In questo modo arrivo a finire l’intera Bibbia in 51 settimane e posso riposarmi una settimana in primavera. È un gran libro.
C’è una specifica parte della Bibbia che ha trovato utile per il suo lavoro nell’ambito dello sport?
McCaskey: La mia parte preferita è il Discorso della montagna, in cui sono enunciate le Beatitudini.
Dell’Antico Testamento credo che la parte più valida siano i Dieci comandamenti.
Ha altri modi per mettere insieme la fede e lo sport?
McCaskey: San Paolo è un grande esempio per gli sportivi: le sue virtù e il suo modo di parlare della fede in relazione allo sport.
La fede cattolica aiuta anche a svolgere un buon lavoro di squadra. In una squadra non si può essere sempre al centro dell’attenzione.
Si deve imparare a lavorare con gli altri. Lo stesso avviene in famiglia. E lo stesso è vero per il Corpo di Cristo: ognuno è importante nel Corpo e ognuno può dare il suo contributo.
Con l’istituzione in Vaticano del nuovo ufficio per lo sport, ha potuto osservare un maggior sostegno ai quei programmi sportivi che promuovono anche valori?
McCaskey: Credo che l’ufficio del Vaticano per lo sport sia il risultato dell’importanza che Papa Giovanni Paolo II aveva attribuito al mondo dello sport.
Il Papa voleva evangelizzare questo ambiente e credo che abbia fatto un ottimo lavoro. Anzitutto perché lui stesso era un atleta. Ma era anche un ottimo scrittore e un eccellente oratore.
Ritengo che sia molto utile che il Vaticano disponga di uno ufficio per lo sport, soprattutto in questo anno dedicato a San Paolo il quale ha scritto sullo sport.
Ha avuto qualche contatto con questo ufficio del Vaticano?
McCaskey: Sì. Padre Kevin Lixey [capo della Sezione Chiesa e sport del Pontificio Consiglio per i laici, ndr] ci ha inviato una lettera in cui riconosce il contributo di Sports Faith International e in cui esprimere il sostegno del Vaticano.
Ci può dire qualcosa di più su Sports Faith International e sulle personalità che ne fanno parte?
McCaskey: Abbiamo avviato Sports Faith International lo scorso anno per mettere in evidenza il legame tra sport e fede, utilizzando i mezzi di comunicazione per veicolare le virtù e le lezioni di vita che possono essere tratte dallo sport.
La Hall of fame è stata creata per dare riconoscimento agli atleti di fama mondiale che sono noti per la loro grande dedizione allo sport e alla fede. In particolare siamo alla ricerca di atleti che incarnano le virtù di San Paolo.
Lo scorso anno abbiamo inserito nell’elenco mio nonno George Halas, nonché Danny Abramowicz e Chris Godfrey.
Abbiamo introdotto anche Wellington Mara, Dave Casper e padre John Smyth che ha rinunciato a una carriera nella National Basketball Association per diventare sacerdote.
Quest’anno assegneremo anche dei premi per gli atleti delle scuole superiori e li renderemo partecipi della cerimonia.
Lei ha aperto le porte della Halas Hall, una struttura dei Chicago Bears, per un evento che ha coinvolto gli allenatori delle scuole superiori. Perché ha ritenuto importante farlo?
McCaskey: In realtà è stato l’entusiasmo di un giovane religioso dei Legionari di Cristo, grande sostenitore dei Bears, ad aver catturato la mia attenzione.
È un’occasione importante quella di riunire insieme gli allenatori per aiutarli a tenere presente il ruolo che essi stessi svolgono come guida morale nella vita dei giovani, per aiutarli a raggiungere l’eccellenza sia dentro che fuori il campo.
Il progetto si inquadra nell’ambito della responsabilità, che noi abbiamo come squadra professionista nazionale, a promuovere attività positive per la comunità, a condividere il nostro patrimonio.
Qual è il patrimonio tramandato da suo nonno, George Halas? Quale è stato il suo modo di combinare lo sporto con la fede?
McCaskey: Mio nonno aveva fondato i Chicago Bears nel 1920, ed aveva giocato nella squadra per 10 anni, per poi allenarla per altri 40.
E’ un uomo che si è dedicato enormemente ai Bears e alla National Football League. È stato un uomo di successo come giocatore, come allenatore e come proprietario. Ha poi lasciato la squadra alla sua famiglia e quello che tentiamo di fare noi è di portare avanti questa eredità.
Quando ero bambino e mio nonno faceva l’allenatore, con i miei fratelli ci sedevamo su una coperta militare affianco alla panchina dei Bears. Era fantastico.
Una volta, in un discorso, l’ho sentito dire: “sessant’anni fa ho offerto il mio cuore e il mio casco al Signore. Il mio cuore sta ancora battendo e il mio casco mi calza ancora. Prego il divino allenatore di ritenermi degno di essere nella sua prima squadra.”
Non parlava spesso della sua fede, ma la viveva molto intensamente. Andava sempre a confessarsi e poi tornava al suo banco per recitare la penitenza e fare la comunione. E non mancava di incoraggiare la sua famiglia a fare altrettanto.