L'università, spazio umanistico e non industria culturale

Intervista al sociologo e professore cileno Pedro Morandé Court

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di Carmen Elena Villa

ROMA, martedì, 24 marzo 2009 (ZENIT.org).- “L’università corre il rischio di perdere la sua vocazione umanistica quando i criteri di iscrizione, rendimento e qualità rendono indifferente in quali università e con quali professori studiare”, afferma il sociologo Pedro Morandé Court, docente della Pontificia Università Cattolica del Cile.

Morandé è intervenuto in occasione del Forum Internazionale delle Università, dal tema “Vangelo e cultura per un nuovo umanesimo”, che si è svolto presso l’Università Europea dal 13 al 15 marzo.

ZENIT ha parlato con Pedro Morandé sul suo intervento sul tema “Un nuovo umanesimo nel contesto dell’attuale industrializzazione delle università e della perdita della tradizione sapienziale”.

Morandé si è laureato in sociologia presso l’Università di Erlangen, a Norimberga, in Germania, e si è specializzato in sociologia della cultura e della religione.

Nel 2004 Giovanni Paolo II lo ha nominato consultore del Pontificio Consiglio della Cultura. Fa parte del comitato editoriale della rivista Humanitas. È autore di diversi libri, tra cui “Iglesia y Cultura en América Latina” e “Persona, matrimonio y familia”.

Perché ritiene che l’università stia perdendo la sua vocazione sapienziale, nel processo di globalizzazione?

Pedro Morandé: L’esperienza del Cristianesimo è quella di poter incontrare Cristo attraverso una umanità nuova, una comunità che vive nella verità e nella carità, ovvero ciò che tradizionalmente nell’università si chiama la comunità dei maestri e dei discepoli.

Nell’attuale e inevitabile processo di globalizzazione, nonostante la tendenza ad accreditare e stabilire equivalenze, l’università non deve perdere di vista la sua missione, che non è il rendimento o l’accreditamento presso la società, ma è la gioia, come dice Giovanni Paolo II nella Ex corde Ecclesiae, di ricercare e scoprire la verità.

Questo è possibile solo attraverso l’umanità. Noi abbiamo imparato dai nostri professori grazie alla loro qualità umana e non per ciò che ci hanno trasmesso. Il sapere può essere scritto nei libri. Ma quella sapienza incarnata nell’esperienza è l’unica cosa che ci permette di comprendere il significato delle cose.

Lei crede che le università cattoliche abbiano perso la loro identità umanistica in questo nuovo millennio?

Pedro Morandé: Il processo globale in atto spinge le università a diventare parte del sistema, un ingranaggio che deve adempiere a certi obiettivi, definiti dalla società, come la preparazione al lavoro o la formazione alle funzioni pubbliche, perdendo progressivamente la propria originalità di un’esperienza umana determinata dalla comunità di maestri e discepoli.

La pressione da parte del sistema, attraverso i finanziamenti o attraverso l’opinione pubblica, è tale da portare le università ad abbandonare la propria originalità e a modificare la propria impostazione. Il perno centrale non è più la propria esperienza di ricerca della verità, ma la necessità di soddisfare le esigenze della società. Queste esigenze possono essere pienamente legittime, ma se tutto diventa soddisfazione di richieste sociali, l’università si trasforma in un’industria, in cui è indifferente con chi si studia e come si studia; in cui non è più importante fare esperienza del senso della verità, ma acquisire capacità, competenze e cose che la società definisce come utili.

Non è in atto una sorta di apostasia interiore dei professori. Più semplicemente, l’attuale docenza è convinta che l’obiettivo sia quello di soddisfare le esigenze dettate dalla società.

Come si può affrontare, nel mezzo della crisi economica, il problema del mantenimento del senso umanistico dell’università, per evitare che questo sia soppiantato dai criteri di produttività e competitività?

Pedro Morandé: L’unica soluzione che io vedo è la forza viva di una comunità. Nessuna persona da sola è capace di compiere una tale trasformazione. Deve esservi un gruppo che sia in grado di riportare l’università alla sua centralità: all’esperienza dell’incontro tra maestri e discepoli, in cui, attraverso la conoscenza e la sapienza di tutte le generazioni precedenti, si cerchi di arrivare al significato delle cose.

Ma esiste sempre, e questa è la cosa straordinaria, qualcuno, in una facoltà, in una comunità, che vive nella propria esperienza la solidarietà intergenerazionale e che impara dai suoi maestri, e che venera i suoi maestri non tanto per ciò che sanno, ma per il significato che danno al loro sapere.

Oggi abbiamo molte persone specializzate che però non sono in grado di dare senso a ciò che sanno. Allora, a un certo punto, si stancano e abbandonano tutto e preferiscono usare il tempo libero in altre cose perché non hanno mai conosciuto la sapienza. Il sapere diventa esperienza solo attraverso l’esperienza della comunità.

Esiste sempre un nucleo di questo tipo nell’università; ciò che dà anima all’università, che le ricorda e le dà memoria di quale sia il senso. E l’università torna ad essere una fonte inesauribile.

Come dovrebbero lavorare i docenti, i dirigenti e gli studenti, perché le università cattoliche possano recuperare questa loro identità, così come esortava Giovanni Paolo II nella Ex corde Ecclesiae?

Pedro Morandé: Come ha ripetuto molte volte il Papa, si è cristiani grazie all’incontro con una persona; non per una scelta o per un’umanità teorica astratta, ma per l’incontro con una umanità concreta.

L’unico modo per recuperare ciò che si è perduto rimane sempre quello della testimonianza delle persone che incontriamo ogni giorno, al lavoro, qualunque sia il lavoro, nel modo in cui si lavora: come un cammino per arrivare al significato ultimo, che è stato già rivelato nell’incarnazione di Cristo; un cammino che bisogna seguire, attraverso scelte teoriche o astratte o ideologiche; un rinnovamento di questa esperienza e di questa passione per il sapere e per la ricerca della verità.

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ZENIT Staff

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