Una “Casa della Speranza” per i bambini di strada del Camerun

Parla il coordinatore, padre Alfonso Ruiz Marrodán

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di Nieves San Martín

YAOUNDÉ, martedì, 17 marzo 2009 (ZENIT.org).- A Yaoundé – una città estesa, con circa due milioni di abitanti distribuiti su un terreno pieno di colline, in cui le abitazioni e la vegetazione si intrecciano fondendosi con il paesaggio – si possono trovare, come in altre capitali dei Paesi in via di sviluppo, numerosi bambini che sopravvivono come possono in strada.

Molti di loro hanno trovato una mano tesa nella “Casa della Speranza” diretta da un missionario gesuita spagnolo, Alfonso Ruiz Marrodán.

In un’intervista concessa a ZENIT, Alfonso Ruiz – che i bambini chiamano affettuosamente “padre”, in spagnolo – ha spiegato in cosa consiste questa risposta ecclesiale a una realtà così dolorosa come l’infanzia che si perde nelle strade.

Il sacerdote vive da undici anni in Camerun, e prima ha trascorso vent’anni in Ciad.

La “Casa della Speranza”, in cui lavora su richiesta dell’Arcivescovo della capitale, è in realtà “un insieme di iniziative, di opere, che hanno tutte lo scopo di reinserire i bambini di strada nelle loro famiglie, il reinserimento sociale dei giovani di strada e dei minori del carcere di Yaoundé”, ha spiegato il sacerdote.

“C’è un gruppo di educatori che lavora in strada e ha come retroguardia una piccola casa in affitto in cui i più piccoli possono andare per lavarsi, dormire un po’, lavare i vestiti, parlare con gli educatori”.

“Ci sono anche attività di ogni tipo: manuali, pittura, ecc. Il pomeriggio però se ne vanno e tornano al loro lavoro, in strada”.

Il sacerdote ha spiegato che quando qualcuno di questi giovani vuole rientrare in famiglia, alcuni vanno a trovarla se si trova nei dintorni di Yaoundé, mentre in altri casi si viene portati qui, in quella che viene chiamata “La Casa del Fratello Yves”, “in onore del nostro fondatore, Yves Lescanne, un religioso francese della congregazione di padre De Foucauld che nel 2002 è stato assassinato da uno dei suoi ex bambini di strada, con problemi psichici, che lo ha ucciso a colpi di ascia in testa. La Diocesi ha messo a disposizione il terreno per la fondazione”.

In questa casa i giovani vengono accolti e accuditi a carico dell’organizzazione. Vivono, mangiano, vanno a scuola e svolgono una serie di attività di base, come i compiti scolastici e il mantenimento di due ettari di palmeti con i cui frutti si fa l’olio da consumare in casa. A volte ci sono anche apprendisti carpentieri o meccanici.

“A poco a poco, si prende contatto con le famiglie per vedere come li possiamo reinserire”, ha aggiunto padre Ruiz Marrodán.

La filosofia dell’organizzazione è che “il miglior posto per un bambino è la sua famiglia”, ma “ci sono ragazzi che rimangono qui quattro anni e quando dobbiamo dire loro che non possono più rimanere andranno di nuovo in strada perché la famiglia o non esiste o è così disgregata che non può accoglierli”.

La “Casa della Speranza” lavora anche nel carcere minorile.

“Tutti i giorni della settimana tranne la domenica ci sono lì nostri educatori – ha osservato il gesuita –. Si cerca di far sì che sfruttino in modo positivo il tempo che devono trascorrere in carcere”.

In uno spazio previsto per 60 persone, quest’anno sono arrivati a essere 290 e ora sono 240, ricorda. Ciò vuol dire che “in tutte le attività che vogliamo organizzare troveremo difficoltà, ad esempio organizzare la scuola, che va dall’alfabetizzazione al baccalaureato”.

“I professori sono carcerati. In uno spazio previsto per 700 persone vivono in più di 4.000”.

Secondo il sacerdote, si tratta di un’“impresa improba” perché bisogna anche cercare il materiale necessario per poter fare lezione ed essere d’accordo con tutte le autorità della prigione.

“Chiaramente i risultati non sono molto positivi perché forse arriviamo a presentare dieci persone per gli esami scolastici e solo due vengono promossi, ma occupano il tempo in modo positivo e imparano, anche se il livello non è quello di una scuola”.

“Ci sono anche laboratori artigianali, animazione sportiva e altre attività – ha proseguito il presbitero spagnolo –. Un altro aspetto importante è la comunicazione con le famiglie. Molti di questi bambini provengono dalla strada, le loro famiglie non sanno che sono in carcere e si cerca il contatto per preparare l’uscita”.

“Il problema è che passano più tempo in carcere di quanto dovrebbero. Ci sono bambini che, quando arriva la sentenza, sono condannati a sei mesi e hanno già trascorso in carcere un anno e mezzo”, denuncia.

In questo momento in cui il Paese accoglie il Papa, padre Alfonso Ruiz conclude affermando che Chiesa rappresenta un enorme fattore di umanizzazione per il Camerun.

[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]

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ZENIT Staff

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