Il nichilismo da Nietzsche a Vattimo

Congresso sulla “Fides et Ratio” a 10 anni dalla sua pubblicazione

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ROMA, sabato, 14 marzo 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la relazione pronunciata da padre Juan G. Ascencio, LC, in occasione del Congresso sull’Enciclica di Giovanni Paolo II “Fides et ratio”, nel 10º anniversario della pubblicazione, svoltosi a Roma il 5 e il 6 marzo presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum (APRA).

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Le seguenti riflessioni cercano di presentare alcune linee portanti del nichilismo, come si è sviluppato storicamente da Nietzsche a Vattimo. In seguito, confronterò brevemente i risultati della prima ricerca con la diagnosi che l’Enciclica Fides et Ratio ha fatto del nichilismo, facendo attenzione alle proposte rivolte al superamento del nihilismo.

Nietzsche si è battuto in diversi modi contro la ragione moderna, e non contro la ragione “tout-court”. Si ricorderà che la ragione moderna –quella concepita da Descartes, da Kant e da altri grandi filosofi—nutriva il desiderio di essere una ragione autonoma. Occorre però osservare che l’autonomia comportava anche l’atemporalità della ragione, la sua indipendenza dalla storia. Queste due caratteristiche della ragione moderna –l’autonomia e l’atemporalità– sono difficilmente separabili. A differenza dell’autonomia, l’atemporalità era rimasta quasi nell’ombra di ciò che è dato per scontato. Perciò l’atemporalità, chiaramente più sguarnita dell’autonomia, fu uno dei fianchi più deboli della fortezza moderna.

L’ondata di riflessioni filosofiche sulla storia, anzi, sull’intero percorso storico del pensiero occidentale, è già ben presente in Hegel. Questa prospettiva di studio non abbandonerà più la filosofia. Nietzsche non trovò molta difficoltà per operare una generalizzazione e leggere la storia del pensiero occidentale alla luce di una antitesi: quella della ricerca razionale della verità dell’essere eleatico e platonico, e quella della ragione nihilistica, messa davanti ad un essere indifferenziato e informe, ovvero alla vita storica che scorre e agisce in modi che non possono essere colti con “categorie razionali”.

Una volta che la sua finta atemporalità è stata messa allo scoperto, la ragione moderna ha perduto la sua invulnerabilità. Il “soggetto” non si poteva più concepire come un “semplice dato”, al riparo da ogni critica. Il soggetto non era atemporale, a-storico, ma dipendeva totalmente da quella storia che aveva avuto inizio tra i Greci con l’ipotesi di un “essere stabile e vero”, del quale il soggetto era semplicemente il correlato in grado di accoglierne l’evidenza e la verità.

Nemmeno si poteva sostenere l’identificazione tra la mente e la coscienza soggettiva: l’io pensante si dimostrava essere soltanto una sovrastruttura che difficilmente avrebbe potuto dirsi autonoma e lontana dagli influssi di altre zone della complessa interiorità umana dove primeggiava la volontà di potenza.

Il successo di Nietzsche nella sua lotta contro il soggetto moderno è dunque dipeso largamente dal suo modo di guardarlo con sospetto, e dall’aver rinnovato il legame tra la conoscenza e la storia che era stato trascurato dai teorici della modernità. Questa sensibilità storica genererà, al tempo della sua maturazione, il vero movente del il nihilismo. Ciò è avvenuto puntualmente con Heidegger, che collocò la storicità come il punto cardine della vita conoscitiva del Dasein. Forse senza volerlo, Heidegger si trovò così a prolungare nel tempo il nihilismo.

La via di Heidegger, anche tramite la riflessione ermeneutica di Gadamer, esercitò un lungo influsso nella filosofia della seconda metà del secolo XX. Essa conobbe poi un inasprimento distruzionistico in virtù della Nietzsche-Renaissance francese, attiva negli anni Sessanta, potenziata dai continui approcci freudiani e marxisti. Autori quali Derridà, Lacan e Foucault ne trassero abbondanti frutti.

Gianni Vattimo, nonostante la sua vicinanza a Gadamer, ha voluto rimeditare la lezione di Nietzsche e di Heidegger. Perciò egli richiama fortemente l’attenzione sulle categorie linguistiche, sulla loro storicità e sul loro rapporto mutuo: quando queste categorie cambiano, subentra il caos linguistico e culturale. Egli sottolinea anche l’autoreferenzialità del pensare e del parlare, lontani da ogni tipo di fondamentazione. La sua posizione potrebbe dirsi un nihilismo ermeneutico e relativistico, diverso dal nihilismo assiologico e storico di Nietzsche, e anche da quello ontologico e storico di Heidegger.

Siamo arrivati al primo momento di sintesi. Alla luce di questi passaggi storici, si può dire che il nichilismo presenti tre diversi livelli. Il primo è di tipo teorico, e conosce molteplici forme: il “pensiero debole”, il “relativismo”, il “pensiero posmoderno”, ecc. Il secondo livello è di tipo tecnico: sopravvive nella “civiltà tecnica” vincolata al tecnicismo. Infine, il terzo livello è di tipo pratico, una “dottrina della società” (secondo un’espressione di Vattimo).

A questo punto ci si può domandare se nell’Enciclica Fides et Ratio sia presente o no una comprensione sufficiente del fenomeno del nichilismo. Chi percorre con attenzione le sue pagine, può costatare l’acutezza della diagnosi ivi espressa. Non manca nessuno dei tre livelli che sono venuti a luce con l’analisi filosofica.

Il paragrafo 90 dell’Enciclica mette a nudo la radice di tutta la problematica: «l’oblio dell’essere», ovvero le «molte filosofie che hanno preso congedo dal senso dell’essere». Poi, l’Enciclica considera la conseguenza teorica principale: «il rifiuto di ogni fondamento e la negazione di ogni verità oggettiva».

Ciò nonostante, ciò che appare maggiormente preoccupante secondo l’analisi dell’Enciclica è il fatto che, secondo il versante nichilistico della post-modernità, «il tempo delle certezze sarebbe irrimediabilmente passato», condannando di conseguenza l’uomo «a vivere in un orizzonte di totale assenza di senso». Diventa così palese il nesso tra la dimensione teorica del nihilismo (l’assenza di certezze) e la sua dimensione pratica o sociale (la disperazione diffusa), di cui si fa menzione anche nel paragrafo 46, che ricorda il nihilismo come «filosofia del nulla» che «riesce ad esercitare un suo fascino sui nostri contemporanei».

L’Enciclica non coglie solo le dimensioni teorica e pratica del nihilismo. Dà anche un certo spazio alla sua dimensione tecnica. Essa viene ricordata al paragrafo 91. Infatti, per l’uomo post-moderno l’unica speranza sembra essere contenuta nelle «conquiste scientifiche e tecniche» che gli consentirebbero di «giungere da solo ad assicurarsi il pieno dominio del suo destino».

L’Enciclica non solo presenta un attenta diagnosi del nichilismo. Essa mira anche al suo superamento. Sarebbe, però, un grande errore il voler ricorrere esclusivamente alla filosofia nella ricerca della cura da applicare. Il pensiero può e deve trovare il modo di uscire dalle secche del nihilismo scettico e relativista, ma ciò non basterebbe da solo. Certo, questa liberazione intellettuale è importante, e l’Enciclica ne spiega il motivo. La chiave risiede nell’unione esistente tra la libertà e la verità o, il che è lo stesso, nell’unione tra la dimensione speculativa e quella esistenziale.

A differenza del suo versante teorico, il nihilismo tecnico e quello pratico sono divenuti un problema di ordine culturale, non superabile con i soli strumenti della filosofia. Vengono implicate in quella problematica strutture, persuasioni esistenziali e modi di vivere il cui cambiamento è assai difficile. Basti dire che a questo punto la Fides et Ratio merita di essere seguita più nel suo invito alla Fides (e alla spes che ne fa seguito), che alla Ratio. In un certo senso, la cultura della vita, in quanto cultura umana aperta al Logos, è l’unica risposta adeguata. Varrebbe la pena tornare sulle pagine dell’esortazione apostolica Ecclesia in Europa per capi
re più articolatamente quale sia la proposta cristiana per far fronte al nihilismo culturale. Togliendo il pungiglione a questo nihilismo –se mai sarà possibile farlo– non sarà difficile persuadersi definitivamente della vacuità del nihilismo tecnico e di quello teorico.

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ZENIT Staff

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