di Carmen Elena Villa
ROMA, mercoledì, 11 marzo 2009 (ZENIT.org).- L’attuali crisi economica può rappresentare un momento per “unirsi alla croce di Cristo”, sostiene mons. Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura.
E’ quanto ha detto il presule intervenento lunedì scorso ai “Dialoghi in Cattedrale”, che la Diocesi di Roma realizza dal 1996 nella Basilica di San Giovanni in Laterano mettendo a confronto su alcune realtà del nostro tempo una personalità ecclesiastica e un rappresentante della cultura contemporanea, che per l’occasione è stato l’avvocato e sociologo Giuseppe De Rita.
L’incontro è stato moderato dal Cardinale Agostino Vallini, Vicario del Papa per la Diocesi di Roma, il quale ha sottolineato che declinare la parola “crisi” soltanto sotto il profilo economico equivale a impoverire il tema, perché in realtà è un argomento “che va al fondo della questione che è quella della condizione del cuore dell’uomo”.
“Un uomo povero interiormente non ha speranza, ha solo paure – ha osservato –. Un uomo aperto alla luce di Dio e della fede, non solo ha la forza per superare e affrontare le paure, ma per vivere nella speranza e donare speranza”.
I volti della speranza
Nel suo intervento mons. Ravasi ha rilevato che il crak finanziario ha provocato nelle persone sensazioni che attraversano tutto lo “spettro cromatico” che va “dall’algido del colore violetto” al “caldo del rosso”, sottolineando poi che “c’è una necessità che la nostra fede conosca il violetto della disperazione”.
Secondo l’Arcivescovo esistono tre tipi di speranza: “la speranza spirituale, interiore e psicologica”; la “speranza che facciamo fiorire nel mondo fisico”, che si prova nei momenti di povertà e di malattia e che “deve stare in comunione con queste sofferenze fisiche”; e infine “una speranza sociale” come nel caso del miracolo della guarigione dei lebbrosi, che erano “scomunicati ed emarginati”.
Mons. Ravasi ha quindi assicurato che è Cristo che “fa fiorire la speranza” e che dona “un pò di colore”: “la speranza che facciamo fiorire nel mondo fisico, nella povertà ma anche nella malattia”.
L’Arcivescovo ha quindi ricordato che “nel misterio della incarnazione Cristo entra nella galleria oscura della sofferenza” e “ci dice che per diventare uomo si deve sofrire e morire”, però che non per questo la fede viene vinta perché “Cristo ci mostra la vicinanza e rompe il limite della fragilità”.
Il presule ha poi assicurato che “la speranza è la sorella più piccola rispetto alla fede e alla carità” e che “lasciarsi andare è la tentazione più grande”.
Mons. Ravasi ha quindi rimarcato l’importanza della responsabilità morale, che si manifesta “soprattutto in due dimensioni”: “da una parte il ritrovare ancora il senso di una solidarietà radicale nell’umanità”, dall’altra parte questa responsabilità “è nell’interno delle strutture stesse”, che “hanno bisogno di avere non prima di tutto le leggi dell’economia, come leggi quasi intangibili, ma di avere la presenza dell’umanità, dell’etica”.
Per far fronte alle crisi, ha suggerito un ritorno alla sobrietà, rinunciando in parte “a quel benessere a cui in maniera un po’ ottusa ci eravamo abituati”.
“La società dei consumi stava creando l’idea che quanto più benessere hai tanta più felicità hai. Questo è un meccanismo perverso e forse questa crisi fa capire che esistono dei valori non riducibili ai semplici meccanismi sociologici o economici”.
Perdita di stabilità
Dal canto suo, Giuseppe De Rita, già Presidente del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro e Segretario generale del Centro studi investimenti sociali (CENSIS), ha parlato della necessità per la società di “passare dal politeismo della paura al monoteismo della speranza”.
De Rita ha iniziato il suo intervento osservando che la società “ha perso la linearità” soprattutto in Europa, dove era abituata a uno “sviluppo equilibrato”.
“Il carattere rettilineo è scomparso dopo l’11 settembre. Arrivano il fondamentalismo islamico, il terrorismo internazionale, le nuove potenze; il mondo diventa multipolare. Arriva il potere politico in Cina. Crea incertezza, paura, non si sa cosa succederà”, ha affermato.
Riferendosi all’attuale crisi economica, il sociologo ha segnalato che “ci siamo ritrovati in una situazione cominciata dalle grandi banche internazionali e finita nel licenziamento di nostro zio”.
Questa situazione di instabilità, almeno in Italia, “ha aumentato la paura”, e “la paura economica ha stimolato altre paure”, ha constatato.
“Da dove viene una paura? Possiamo avere una riflessione sul concetto della paura? Riusciamo ad avere un concetto sulla paura?”, ha chiesto, rispondendo che “le paure hanno la stessa radice: conoscere i nostri limiti”.
Alcune manifestazioni di questo timore possono essere “non riuscire ad aiutare i figli a mantenere lo stesso livello di vita, non avere i mesi per la cura personale, restare senza lavoro”, e questo suscita altre paure per fatti come “malattie non guarite, perdita della facoltà intellettuale, timore di avere una vita peggiore”.
Le paure, ha sottolineato, non sono solo emozioni. “Una delle caratteristiche della società moderna è essere piena di emozione ma senza sentimento”.
De Rita ha quindi affrontato il tema della speranza, confessando che per averla “ci vogliono vigore e pazienza”. “Per capire le paure bisogna praticare le speranze”, ha aggiunto.
Il sociologo ha concluso il suo intervento sostenendo che la vera speranza non è “fisica, psicologica e intellettuale”, ma quella che “viene fatta da un disegno soprannaturale. Questa è la santità”.