Michelangelo e il Cristo morto

TRAPANI, sabato, 7 marzo 2009 (ZENIT.org).- Di seguito pubblichiamo il testo della conferenza tenuta questo sabato da mons. Timothy Verdon, professore di Arte Sacra nella Facoltà Teologica dell’Italia Centrale di Firenze, in occasione dell’apertura nella chiesa di Sant’Agostino a Trapani della mostra “Fulget Crucis mysterium”.

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di Timothy Verdon

La mostra organizzata dalla diocesi di Trapani dal 6 al 20 marzo nella chiesa di Sant’Agostino, dove il piccolo crocifisso che da qualche anno ormai credibilmente attribuito a Michelangelo verrà esposto ai fedeli e al pubblico, invita una riflessione sul rapporto del grande mastro fiorentino con il mistero di Cristo e precisamente con il Cristo morto.

Non parlerò del crocifisso stesso, che appartiene agli inizi della carriera dell’artista, e neanche della celebre Pietà vaticanense, similmente tra le opere giovanili del Buonarroti, ma piuttosto del gruppo statuario incominciato da Michelangelo a metà degli anni 1540 e lasciato incompiuto una decina d’anni dopo; di un’opera della vecchiaia del grande genio di notevole interesse personale e spirituale, in cui Michelangelo si ritrae nelle vesti di uno di quelli che deposero Cristo dalla croce, Nicodemo, visto nell’atto di adagiare il corpo del Crocifisso tra le braccia della madre, presente anche Maria Maddalena a sinistra. Oggi questa seconda delle tre Pietà del maestro si trova al Museo dell’Opera del Duomo di Firenze, ma l’artista pensava di collocarla nella cappella della chiesa romana in cui sperava di essere sepolto, in prossimità all’altare, probabilmente in una grande nicchia sopra di esso.

 Vicino a, o sopra, l’altare: il quadro di riferimento generale dell’opera era cioè eucaristico, com’è suggerito visivamente dal corpo di Cristo che domina il gruppo scultoreo. Tale enfasi sacramentale dà particolare forza alla «reale presenza» non solo di Cristo ma nel contempo di Michelangelo, che — come abbiamo detto — si ritrae nella figura del vecchio dietro Cristo, dal cui corpo eretto inizia la curva scendente del cadavere di Gesù; il vecchio la cui naturale commozione viene giustapposta alla calma sovrannaturale del Salvatore.

Non è chiaro se questo personaggio rappresenti Giuseppe d’Arimatea, l’uomo ricco che diede la propria tomba per la sepoltura di Cristo, o Nicodemo, l’uomo vecchio che aveva cercato Cristo di notte per chiedergli se un adulto possa rinascere e, se sì, se deve tornare nel grembo della sua madre per nascere fisicamente una seconda volta (cfr. Giovanni, 3, 4). Si può addurre buone ragioni per l’una e l’altra ipotesi, e gli studiosi hanno esaminato la questione, in rapporto alla Pietà di Michelangelo e ad altre raffigurazioni della Deposizione e Sepoltura di Cristo, senza mai risolverla.

 Nel caso che c’interessa, ha evidentemente importanza che entrambi i biografi cinquecenteschi di Michelangelo, Giorgio Vasari e Ascanio Condivi considerassero questo personaggio anziano essere Nicodemo, come anche il fatto che Michelangelo gli ha dato i propri tratti in un momento in cui, già anziano anche lui, si preparava a morire. In più, la tradizione toscana riteneva che Nicodemo fosse scultore, autore del veneratissimo «Volto santo» di Lucca; questo fatto, insieme all’età avanzata e la preoccupazione con morte e rinascita che il Vangelo associa a Nicodemo, c’inclinano a vedere il vecchio scolpito da Michelangelo come lui, il «segreto adoratore» di Cristo, Nicodemo.

Se l’identità analogica del vecchio rimane incerta, quella storica non lo è affatto: Vasari e Condivi affermano inequivocabilmente che quest’uomo con il corpo di Cristo tra le sue braccia rappresenta Michelangelo. Per la nostra comprensione del gruppo scultoreo, è in effetti meno importante la questione «Nicodemo/Giuseppe d’Arimatea» che non quella «Cristo/Michelangelo», che sembra nascere da un rapporto più intimo di quanto troviamo in altre Pietà dove l’artista ritrae se stesso tra gli astanti (si pensi all’autoritratto di Tiziano nella grande Pietà originalmente intesa, come il gruppo di Michelangelo, per l’altare dove l’artista voleva essere sepolto).

 Nel ben noto dipinto di Tiziano una certa distanza fisica separa l’artista dal corpo di Cristo, mentre nella Pietà del Buonarroti vi è praticamente una simbiosi: una fusione dei due personaggi maschili tale che lo spettatore ha qualche difficoltà a distinguere il punto esatto dove finisce Cristo e incomincia Michelangelo. Soprattutto se immaginiamo un’angolazione visiva di sotto in su — l’angolazione del sacerdote celebrante all’altare dove il gruppo doveva essere collocato, o dei fedeli inginocchiati davanti a esso — è chiaro che la figura che si erge sopra il corpo di Cristo era concepita come l’estensione fisica e psicologica del Salvatore. O — per dirlo in altri termini — il corpo giovanile di Cristo, potente anche nella morte, sarebbe apparso come «nato» dal corpo vecchio di Michelangelo, curvo nello sforzo di sopportare il peso del morto Redentore.

Il significato di questa innovativa fusione di corpi — del corpo vecchio con quello giovane, del vivo col morto — va cercato nel medesimo vangelo di Giovanni in cui troviamo il racconto della visita notturna di Nicodemo a Cristo. Due passi in particolare — collegati all’episodio di Nicodemo ma che non dipendono direttamente da esso — suggeriscono ciò che Michelangelo voleva dire sovrapponendo il corpo di Cristo al proprio corpo così che abbiamo difficoltà a distinguerli; sono poi passi che mettono la speranza di Nicodemo e di ogni credente, di rinascere dopo la morte, in diretto rapporto con l’Eucaristia.

Nel capitolo 6 del vangelo giovanneo, nel contesto del lungo discorso con cui Cristo turba profondamente i suoi ascoltatori insistendo che lui, il Cristo, è «il pane della vita», e che chiunque mangerà questo pane vivrà in eterno, il Signore dice finalmente: «La mia carne è vero cibo, il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue vive in me ed io in lui. Come io, mandato dal Padre, attingo dal Padre la mia vita, così chi mangia di me attingerà vita da me. Questo è il pane disceso dal cielo, non come il pane che mangiarono i vostri padri; essi morirono, ma chi mangia questo pane vivrà in eterno» (Giovanni, 6, 55-58).

Il secondo passo è costituito dal discorso d’addio che Gesù pronuncia durante l’ultima cena, e che nel quarto vangelo prende il posto di un racconto dell’istituzione dell’Eucaristia. Il tema ricorrente è quello della comunione: la perfetta comunione di vita tra Cristo e il Padre che, alla vigilia della sua morte, il Salvatore estende anche ai discepoli. «Non credete che io sia nel Padre e il Padre in me?», Gesù chiede loro all’inizio del lungo monologo (cfr. Giovanni, 14, 10). Poi, presentando il suo rapporto con loro nella metafora della vite con i suoi tralci, dice: «Chi rimane in me, ed io in lui, porta molto frutto» (Giovanni, 15, 15). Spiega che sta insegnando loro queste cose affinché «la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (15, 11), e perché «possiate trovare la pace in me» (16, 33). E infine, per coloro che in lui troveranno gioia e pace, Cristo chiede al Padre «che siano una sola cosa in noi come tu sei in me ed io in te (…). Con me in loro e tu in me (…), perché l’amore con cui tu mi hai amato sia in loro, ed io in loro» (17, 21.23.26).

Ora questi passi evangelici descrivono una comunione di vita nel contempo fisica e spirituale, nella quale, per il fatto di mangiare il corpo di Cristo e bere il suo sangue, noi viviamo in lui e lui in noi: attingiamo vita cioè da lui come lui l’attinge dal Padre. Ecco, la composizione elaborata da Michelangelo per la sua Pietà — il suo modo di mescolare un corpo vecchio con un altro giovane, un uomo vicino alla morte con il Dio che dalla morte risorgerà — ha a che fare con la totale comunione di vita resa presente nell’Eucaristia, che Michelangelo pensava verrebbe celebrata davanti alla sua Pietà.

Questa idea, di una perfetta comunione di vita tra Cristo e il credente, era stata esplicitata dai padri della Chiesa. Meditando l’Eucaristia in rapporto all’incarnazione e alla santissima Trinità, sant’Ilario per  esempio chiese: «Se il Verbo si è fatto veramente carne, e se noi veramente
riceviamo il Verbo fattosi carne nell’alimento del Signore, perché non dobbiamo ritenere che Egli rimanga con noi secondo natura?». Concluse poi che «noi siamo una sola cosa, perché il Padre è in Cristo e Cristo è in noi. Egli è in noi mediante la sua carne, e noi siamo in lui, e, uniti a lui, ciò che noi siamo è in Dio (…). Possiamo apprendere poi quanto sia naturale quest’unità dalle sue parole: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me ed io in lui“» (De Trinitate, 8, 13-16).

Tale «naturale» unità di corpi e spiriti viene spiegata anche da san Pietro Crisologo. Commentando l’esortazione di san Paolo a «offrire i vostri corpi viventi come un sacrificio santo» (cfr. Romani, 12, 1), Pietro Crisologo s’immagina che Cristo dica all’anima fedele: «Nel tuo corpo, nelle tue membra, nei tuoi organi, nelle tue ossa, nel tuo sangue tu vedi me» (Discorso 108: pl 52, 499-500). Vale a dire che il credente, esortato a offrire il proprio corpo, in realtà offre il Cristo che dimora in lui! In base a questo ragionamento, Crisologo conclude che le parole di san Paolo elevano ogni credente alla dignità sacerdotale, perché ogni credente è chiamato a offrire il proprio corpo come «un sacrificio santo» — conclusione, questa, basata su un altro testo paolino, Galati, 2, 20, dove l’unione perfetta tra Cristo e il credente viene espressa in termini analoghi: «Io vivo, ma non sono più io che vivo; Cristo vive in me!».

Se proviamo a leggere la Pietà michelangiolesca in questa luce, molte cose diventano chiare. Come davanti all’altare il sacerdote offre pane e vino che, transustanziandosi, diventano corpo e sangue di Cristo, così sopra l’altare Michelangelo offre il suo corpo vecchio come un «sacrificio santo» e lo vede trasformato in Cristo; vive, ma ormai con la vita di Cristo in lui. Nella sua conversione, voglio dire, Michelangelo sembra aver accettato l’invito dell’Apostolo a «deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici», per «rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio» (Efesini, 4, 22-24), per così «edificare il corpo di Cristo», diventando «l’uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo» (Efesini, 4, 13).

Ma c’è un’ulteriore dimensione del rapporto di totale comunione, che forse aiuta a capire la genesi formale della Pietà. San Gregorio di Nissa, mentre riflette sul passo di Qoèlet che afferma, «Per ogni cosa c’è il suo momento… un tempo per partorire e un tempo per morire» (Qoèlet, 3, 1-2), dice: «Noi siamo in un certo senso padri di noi stessi, quando per i nostri buoni propositi e le nostre libere scelte concepiamo e partoriamo noi stessi e diamo noi stessi alla luce» (Omelia 6). Il santo precisa poi che tale «paternità di se stessi» del credente consiste nel permettere che «la forma di Cristo» sia riprodotta in lui; ecco il «tempo per partorire». E il «tempo per morire» non è contrapposto alla nascita spirituale ma complementare, perché «il credente che non vive mai per il peccato, che anzi mortifica continuamente le membra della sua carne, portando nel proprio corpo il corpo morente di Cristo — colui che si lascia cioè crocifiggere con Cristo e non vive per se stesso ma ha in sé il Cristo che vive —  sperimenta, sempre secondo san Gregorio di Nissa «un’opportuna morte che produce la vita vera» (Ibid.).

<p>Ora, se con molti critici vediamo la Pietà fiorentina come derivante dal disegno fatto per Vittoria Colonna in cui il corpo di Cristo è stato deposto dalla croce e messo tra le gambe divaricate di Maria sua madre, allora la metafora di san Gregorio nisseno, secondo cui il credente genera Cristo in se stesso, acquista straordinaria eloquenza. In effetti, nel gruppo scultoreo destinato alla propria tomba, Michelangelo si mette al posto di Maria: non la «madre» ma il «padre» di Cristo che nasce sull’altare dal corpo ormai vecchio dell’artista. Il penitente Michelangelo «produce» nella sua stessa carne la forma di Cristo, perché — come insegna un altro padre della Chiesa, sant’Ambrogio — «ogni anima che crede concepisce e genera il Verbo di Dio… Secondo la carne, una sola donna è la madre di Cristo; ma mediante la fede Cristo è il frutto di tutti gli uomini» (Expositio in Lucam, 2, 19-23).

Così alla domanda di Nicodemo, se un vecchio possa rinascere, la Pietà fiorentina risponde nello spirito di san Cirillo d’Alessandria che «il corpo dà la vita a tutti coloro che hanno parte con lui. Facendosi uno con quanti devono subire la morte, il corpo di Cristo espelle la morte; e facendo nascere un principio capace di distruggere la corruzione, il suo corpo espelle la corruzione» (pg 73, 563-66).

Tale «fusione» è fatta tuttavia di parti disuguali tra loro. Se Cristo muore, è nel corpo avuto da noi quando, nel grembo di Maria, divenne «Figlio dell’uomo»; ma se noi possiamo ora rinascere — come sperava Nicodemo — ciò è dovuto alla sua risurrezione in quanto Figlio di Dio. «Da te egli ha avuto la morte, ma da lui tu hai guadagnato la vita», dice sant’Agostino; «nella tua carne egli accettò d’essere messo alla prova, ma in lui tu sei diventato vincitore» (Commento sui Salmi, 60, 2-3).  In un altro contesto, Agostino aggiungerà che Cristo «non ebbe nulla da appendere sulla croce se non il corpo avuto da noi… la nostra natura, ancora da rigenerare, è stata inchiodata alla croce con lui, affinché la nostra natura macchiata dal peccato potesse essere rinnovata e ripristinata, e perché noi non restiamo più schiavi del peccato» (Commento sui Salmi, 140, 4-6).  

L’articolazione più nitida di quest’equazione mistica riguardante «morte/vita» e «Cristo/uomo» — l’espressione della sua complessa semplicità più vicina a Michelangelo — è ancora di Agostino. Il vescovo d’Ippona, meditando il mistero del Figlio di Dio che accetta la morte per salvare l’umanità peccatrice, dice: «Da una parte, egli è il Creatore; dall’altra, si è fatto creatura. Libero nella sua divinità da ogni necessità di cambiamento o alterazione si è adattato alla nostra cangevole creaturalità, e così ci ha radunati in lui per diventare con lui un solo uomo, capo e corpo» (Commento sui Salmi, 85, 1).  «Per diventare con lui un solo uomo, capo e corpo»: non ci potrebbe essere descrizione più esatta di quanto Michelangelo ha realizzato nella fusione delle due forme, quella di Cristo e la propria, in totale comunione di vita sopra l’altare!

Occorre sottolineare ancora che questo modo di leggere la Pietà ha senso soprattutto nel contesto eucaristico. «Dal momento che il calice e il pane ricevono la Parola di Dio, e gli elementi eucaristici diventano il corpo e sangue di Cristo, recando sostentamento e crescita al nostro corpo», dice sant’Ireneo, «come possono alcuni mantenere che la carne umana sia incapace di ricevere il dono divino della vita eterna? Piuttosto la nostra carne si nutre del corpo e sangue del Signore e diventa membro suo» continua. «Così san Paolo scrive nella sua lettera agli Efesini “Noi siamo membra del suo corpo” cioè della sua carne e delle sue ossa. Non parla di un qualche uomo spirituale e invisibile, perché “un fantasma non ha carne ed ossa come voi vedete che io ho” (cfr. Luca, 24, 39). Al contrario, Paolo parlava dell’anatomia di un uomo reale, con carne, nervi e ossa, nutrito dal suo calice, il calice del suo sangue, e  che  cresce  grazie  al  pane che è il suo corpo» (Contro le eresie, 5, 2, 2-3).

[© L’OSSERVATORE ROMANO – 8 marzo 2009]

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ZENIT Staff

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