La morte cerebrale è ancora vita?

Scienziati e intellettuali di fama internazionale a confronto

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di Luca Marcolivio

ROMA, giovedì, 5 marzo 2009 (ZENIT.org).- Un tema che sta guadagnando ampio spazio nel dibattito bioetico a livello mondiale è quello della ‘morte cerebrale’. Se ne è parlato il 19 febbraio nel corso del convegno “I segni della vita. La morte cerebrale è ancora vita?”.

La conferenza, organizzata dall’associazione “Famiglia Domani”, ha riunito scienziati, medici, bioeticisti e filosofi di fama internazionale, tutti concordi nell’affermare che l’identificazione tra “morte cerebrale” e “morte reale” di una persona, costituisca una contraddizione in termini. Inoltre tale concetto, ormai giuridicamente accettato in quasi tutto il mondo, pone un serio dilemma etico riguardo ai trapianti di organi umani.

L’accettazione del concetto di “morte cerebrale” da parte della comunità scientifica internazionale avvenne nel 1968, con il celebre protocollo di Harvard, che seguì di alcuni mesi il primo trapianto di cuore, eseguito in Sud Africa da Christian Barnard. Alcune recenti ricerche in campo medico hanno però messo in discussione tale paradigma.

Introdotto dal presidente dell’associazione “Famiglia Domani”, Luigi Coda Nunziante, ha preso per primo la parola, in qualità di moderatore, il professor Roberto de Mattei, storico del cristianesimo all’Università Europea di Roma e all’Università di Cassino, e vicepresidente del Consiglio Nazionale per le Ricerche (CNR).

De Mattei ha in primo luogo ricordato che “il problema della morte coinvolge i filosofi, i giuristi, i teologi, non soltanto gli scienziati. Questi ultimi possono solo constatare l’avvenimento del decesso”. Sull’identificazione della morte con la morte cerebrale il vicepresidente del CNR ha ricordato che “non c’è consenso unanime”.

In merito al pensiero di Papa Benedetto XVI sulla donazione di organi, de Mattei ha ricordato il discorso del Santo Padre dello scorso 7 novembre, secondo il quale “i singoli organi vitali non possono essere prelevati che ex cadavere”. Questa pratica non deve pertanto fornire “il minimo sospetto di arbitrio” e “deve prevalere il principio della precauzione”.

Le successive relazioni hanno fornito ulteriori prove riguardo all’ambiguità del concetto di ‘morte cerebrale’. Il professor Paul A. Byrne, neonatologo dell’Università di Toledo (Ohio), ha illustrato una serie di casi apparentemente ‘miracolosi’, di pazienti che hanno ripreso la vita normale, dopo una diagnosi di morte cerebrale.

“Il medico deve preservare la vita e difenderla – ha poi affermato il professor Byrne – . Ogni persona è un’unità di anima e corpo, unica ed irripetibile, creata ad immagine e somiglianza di Dio”.

Con riferimento al n° 2296 del Catechismo della Chiesa Cattolica (“La donazione di organi dopo la morte è un atto nobile e meritorio ed è da incoraggiare come manifestazione di generosa solidarietà”), Byrne ha affermato: “Elaborare una finzione per estrarre un organo è una schiavitù e non rispetta la dignità dell’essere umano. È una morte che viene imposta”.

Dello stesso tenore l’intervento del giurista e bioeticista Joseph L. Verheijde, professore all’Arizona State University di Tempe, secondo il quale “finché un organismo interagisce anche minimamente con l’ambiente esterno, esso è da considerarsi in vita”.

Il filosofo del diritto, docente all’Università di Genova, Paolo Becchi è, insieme a Roberto de Mattei e a Lucetta Scaraffia, l’intellettuale italiano che più di ogni altro si sta battendo sulla ridefinizione dei concetti di morte e di morte cerebrale. Secondo il professor Becchi il dilemma che si pone rispetto ai trapianti “non è di natura scientifica ma etica”.

Infatti, “dopo appena un minuto che il cuore cessa di battere si può autorizzare l’espianto – ha sottolineato Becchi –. tuttavia la letteratura medica cita pazienti la cui attività cardiaca è ripresa dopo venti minuti”. Sul piano scientifico, pertanto “non esistono criteri di certezza con i quali stabilire quando un paziente sia entrato irreversibilmente in uno stato di morte e quindi sia lecito un espianto”.

Il neurologo e neurochirurgo Cicero Galli Coimbra, docente all’Università di San Paolo del Brasile, ha sottolineato in modo particolare la pericolosità del ‘test d’apnea’, la cui conseguenza più o meno intenzionale è la morte cerebrale del paziente in arresto cardiaco o respiratorio. In ogni caso, anche secondo il professor Galli Coimbra “il numero di pazienti recuperabili dalla morte cerebrale a livello neurologico è piuttosto alto”.

Il filosofo Josef Seifert, membro della Pontificia Accademia per la Vita, ha sottolineato quanto sia inconsistente l’affermazione secondo la quale “le funzioni integrate dipendono dal tronco encefalico. Anche in caso di morte cerebrale, continuano infatti, la respirazione, la digestione, il metabolismo, la crescita”.

“È errato, dunque, asserire che il cervello è l’organo integratore dell’intero corpo e che tutto il resto è un’appendice – ha aggiunto Seifert –. Tanto più se consideriamo che il cervello non è il primo degli organi che si formano e si sviluppano nella vita dell’embrione.

“È errato dunque identificare la morte con la distruzione delle funzioni cerebrali e, nel dubbio, è sempre bene risparmiare una vita umana, anche quando il suo sacrificio possa permettere, attraverso i trapianti, la salvezza di altre vite umane”, ha poi concluso Seifert.

Il neurocardiologo John Andrew Armour, professore all’Università di Montreal, ha invece sottolineato, sul piano anatomico l’indipendenza del sistema cardiocircolatorio, rispetto al sistema nervoso centrale, giustificata dal fatto che “c’è un piccolo ‘cervello’ all’interno del cuore e, tanto più esso funziona, tanto più avranno successo i trapianti di cuore”.

Ari Joffe, specialista in pediatria all’Università dell’Alberta, concordando con l’affermazione di Seifert, ha affermato che attribuire la morte di una persona alla cessazione delle funzioni cerebrali, starebbe a significare che “un feto che non ha ancora sviluppato il cervello non è vita, quindi non è nemmeno una persona”.

Rosangela Barcaro, ricercatrice di bioetica e filosofia all’Università di Genova, ha ricordato che i dubbi sul confine tra vita e morte “insorgono anche grazie ai recenti sviluppi della tecnologia medica. Il fatto che il criterio di morte cerebrale sia accettato a livello legislativo in quasi tutto il mondo non significa che sul piano scientifico, il concetto non sia opinabile”.

È giusto, quindi, risvegliare il dibattito della comunità scientifica sul tema e, al tempo stesso, “tutelare il diritto all’obiezione di coscienza sia da parte del medico, che da parte del paziente. Penso ad ordinamenti come quello dello stato del New Jersey o del Giappone, dove l’espianto degli organi è vietato quando vada contro le convinzioni religiose o filosofiche di chi lo compie o lo subisce”, ha concluso la dottoressa Barcaro.

Considerazioni di carattere interdisciplinare sono state pronunciate da Rainer Beckmann, magistrato e membro della Academy for Ethics in Medicine. Anche Beckmann ha ricordato le affermazioni del Papa riguardo ai trapianti, ribadendo che “in questo ambito è richiesta assoluta certezza”.

“È importante, dunque – ha proseguito Beckmann – ricordare che: 1) chi muore è un essere umano dotato di un corpo e di un’anima; 2) la morte è la separazione di corpo e anima; 3) si può prendere atto della morte quando vi sia la disintegrazione di tutte le funzioni vitali”.

In merito all’ultimo punto, Beckmann ha sottolineato che “ovviamente non dobbiamo attendere la distruzione di ogni singola cellula per definire un organismo come morto”. “Inoltre – ha proseguito – anche in caso di ‘morte cerebrale’, tutte le altre funzion
i proseguono: ci sono persino casi di donne che hanno portato a termine la gravidanza in encefalogramma piatto”.

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ZENIT Staff

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