ROMA, domenica, 1° febbraio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito una intervista apparsa sull’ottavo numero della rivista "Paulus" (febbraio 2009), dedicato al tema della bellezza.
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di Paolo Pegoraro
San Paolo amava la musica? Certamente sì, se raccomandava a due comunità di intrattenersi «con salmi, inni e cantici spirituali» (Col 3,16; Ef 5,18-20), specificando anche come cantare: «con tutto il cuore», animati da una profonda gratitudine. Paolo stesso doveva avere una voce considerevole se, come ricorda il libro degli Atti (16,25), i carcerati stavano ad ascoltarlo mentre elevava la sua preghiera nel cuore della notte con il compagno di prigionia Sila. E l’Anno Paolino non ha mancato di stimolare compositori estremamente diversi. Mons. Marco Frisina è l’autore del solenne concerto-oratorio Apostolo delle genti per voci recitanti, solisti, coro e orchestra andato in scenza ancora la scorsa primavera, mentre l’Associazione per oratori e circoli giovanili ANSPI - che ha proprio san Paolo come patrono - ha realizzato il musical Sulla via di Damasco.
Un secondo musical è il Paolo di Tarso realizzato dalla compagnia teatrale “Il prezzo dell’Amore” dell’Oratorio San Carlo e San Luigi di Besana in Brianza. Opera dalle sonorità vigorosamente rock quest’ultima, che sta girerà in tournée per la Lombardia fino alla chiusura dell’Anno Paolino e ha recentamente presentato i 25 brani dello spettacolo in un doppio cd. Il terzo musical è Fino al Terzo Cielo, della compagnia teatrale “Piccola Comunità” di Guastalla (http://www.sangiacomo-sanrocco.it/finoalterzocielo_ilmusical.html). Senza dimenticare il reading teatrale ideato da Michele Casella, «giovane attore, giovanissimo regista e ‘neonato’ autore», come si autodefinisce lui stesso, che oltretutto ha scritto e diretto lo spettacolo dell’ANSPI, nonché interpretato san Paolo nella prima dell’oratorio di Frisina a Caserta. Paulus lo ha intervistato poco prima del nuovo debutto teatrale.
Caro Michele, cominciamo raccontando chi sei...
«Sono nato a Caserta nel 1981, dove ho studiato recitazione e regia presso il Teatro, mentre completavo gli studi universitari in Lettere classiche alla Federico II di Napoli. Dopo di che mi sono dedicato totalmente al teatro, incontrando diverse tipologie di teatro: classico, di sperimentazione, musical. Ma la passione iniziale era già sbocciata prima, presso l’oratorio e la parrocchia nel mio paese, Casolla. Abbiamo cominciato a recitare lì, da piccoli, per divertirci … un gruppo di amici. Fondamentale fu poi l’incontro con Claudia Koll nel 2006, che mi ha portato con lei in Africa, e ha generato numerose collaborazioni. È una carissima amica e una bravissima attrice da cui imparo molto».
L’Anno Paolino ti ha visto impegnato in ben tre ruoli-chiave legati all’Apostolo e alla musica...
«Sì, è qualcosa che un po’ ho cercato io e un po’ mi è capitato. In previsione dell’Anno Paolino ho proposto un musical sulla figura di san Paolo all’Associazione Nazionale San Paolo Italia (A.N.S.P.I.). L’idea è piaciuta all’Associazione che ha affidato la composizione delle musiche a Michele Paulicelli, mentre io mi sono occupato dei testi e della regia. Così è nato Sulla via di Damasco. Ma era la prima volta che scrivevo un testo così impegnativo, così com’era la prima volta che scrivevo canzoni. Ho dovuto studiare a fondo la figura di san Paolo e nel mentre è nata anche l’idea, dopo il musical, di realizzare reading teatrali sui testi di Paolo. La ragione è che il musical è una forma di spettacolo con regole precise, che non lasciano sempre spazio all’approfondimento di tematiche complesse. Per questo ho deciso di trattare alcuni punti particolari nei reading, con la forma di teatro sperimentale. Nella Cattedrale di Caserta il reading è unito ad una lectio divina: interpreto passi dalle Lettere di san Paolo che poi vengono spiegati da alcuni biblisti».
Del musical e del reading sei autore, ma c’è un terzo evento, cui hai preso parte come attore...
«Sì, è il concerto-oratorio Apostolo delle Genti di mons. Marco Frisina, nel quale ho interpretato san Paolo. Non senza difficoltà, devo dire: ho 27 anni, mentre il Paolo messo in scena da Frisina è adulto, è un Paolo vicino alla morte che traccia il resoconto della sua vita. Ma ne è valsa la pena; Frisina è un Artista con la “A” maiuscola».
Questi tre spettacoli hanno cambiato il tuo rapporto con san Paolo?
«Certamente. Prima ne avevo una conoscenza non approfondita e non ero affascinato dalla sua figura come quella, ad esempio, di san Francesco. Mi sono laureato sul testo martiriale delle sante Perpetua e Felicita, tanti sono stati i santi che hanno destato la mia attenzione... però non san Paolo. Non so perché. Poi Benedetto XVI ha indetto quest’Anno e ho cominciato la lettura degli Atti degli Apostoli e delle Lettere. È stato un vero e proprio studio che non ho svolto da solo, ma guidato da un biblista molto preparato: da un lato per poter scrivere il musical, dall’altro per poter interpretare bene il san Paolo nell’oratorio di Frisina. Poi lo studio ha lasciato il posto alla voglia di conoscerlo pienamente, anche solo per me stesso. Ora posso dire che la sua è una personalità che mi piace parecchio».
Come mai? quale Paolo hai scoperto?
«È un carattere forte e determinato, non solo prima della conversione. Mi ci riconosco: un ragazzo che segue deciso il suo percorso e non ha paura di cambiare strada, di rivedere se stesso e le sue posizioni. Totalmente. Però non ha perso la sua determinazione - nel dire quello che pensa, nel battersi per le sue idee - e questo mi piace, è eccezionale. Eppure ho scoperto un altro aspetto. Leggendo le sue Lettere, mi sono spesso commosso… c’è in san Paolo una sensibilità speciale... non è un gigante irraggiungibile. Le sue parole mi hanno allontanato da certe raffigurazioni generiche e talvolta fiabesche che lo mostrano imponente, caduto da cavallo, maestoso e accecato. È forte e sincero, ma anche silenzioso e solitario. Debole ma consapevole che proprio nella debolezza risiede la forza».
Come definiresti questa sua “sensibilità”?
«È il piangere, il farsi vicino agli altri. Paolo si rivolge a persone concrete e la lettera li raggiunge dove sono, come se fosse Paolo in persona. Tanto che scrive: “Voi siete una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra ma sulle tavole di carne dei vostri cuori”. Ne ho tratto spunto per una canzone che s’intitola Scrivo una lettera per te e che dice: non uso inchiostro, ma uso lo Spirito. Non uso pagine, ma uso i cuori. Sono dei passaggi eccezionali.
Leggendo Paolo, noto che è sempre attualissimo. Le sue parole riescono a rompere le barriere dei corsi e ricorsi storici. Non vorrei fare accostamenti troppo audaci, ma... penso alla persecuzione dei cristiani e alla Shoah. Penso a Stefano, che viene lapidato per la propria fede, e a Borsellino o Falcone, assassinati per quello in cui credevano. Ho visto come le sue parole sono vere. “C’è più gioia nel dare che nel ricevere”, ad esempio: quando sono tornato dal Burundi ero molto più contento di qualsiasi altra esperienza».
Veniamo ai tre spettacoli cui hai partecipato, a titolo diverso. Ognuno sottolinea un aspetto differente dell’Apostolo...
«Il concerto-oratorio di Frisina è stato scritto partendo dalle Lettere. Ci presenta un san Paolo veramente maturo, ormai prossimo alla morte, che guarda indietro e racconta alcuni momenti della sua vita, così come i popoli e le regioni che
ha incontrato. Le musiche sono emozionanti, così come i testi. Il musical dell’ANSPI è un po’ più frizzante, nel senso che san Paolo canta e balla, parla di sé attraverso momenti riflessivi ma anche momenti più leggeri. E non è da solo: ci sono anche Prisca, Aquila, Lidia, Timoteo, la Legge, la Grazia e altri personaggi. Quindi il profilo di Paolo non è affidato soltanto alle sue parole, ma soprattutto ad un’atmosfera. Inoltre in scena ci sono circa quaranta giovani artisti (ballerini, cantanti, attori, musicisti) di età compresa fra i 14 e i 26 anni: un Paolo molto “giovane”, dunque.
Il reading teatrale, invece, da voce essenzialmente alle parole di Paolo, senza filtri. Ma nello stesso tempo viene fuori l’intimità dell’Apostolo, il suo io più profondo. Paolo persecutore, convertito, apostolo, prigioniero: tutti i passaggi di un’unica grande personalità, di un’unica grande vita».
In vista della 13a Giornata mondiale della vita consacrata
Il Cardinale Carlo Caffarra denuncia la deriva di un’umanità senza Dio
di Carlo Bellieni*
ROMA, domenica, 1° febbraio 2009 (ZENIT.org).- Il numero di febbraio 2009 di National Geographic dedica una monografia a Charles Darwin, nel bicentenario della nascita: mostra i progressi che dopo Lamarck e Darwin il pensiero sulla mutazione della vita sulla terra – che nessuno dei due scienziati aveva ancora battezzato “evoluzione” – ha avuto nei secoli.
L’idea portante del pensiero di Darwin nacque dalla constatazione delle somiglianze e delle differenze tra le specie di animali – tartarughe, struzzi – nei Paesi del sud America da lui visitati con la nave Beagle; ciò lo portò a supporre che le diverse specie fossero scaturite non da creazioni separate, ma da una “trasmutazione” (così la chiamava) dovuta ad un influsso di ambienti diversi. Ma fu leggendo i lavori sulla crisi dovuta alla presunta sovrappopolazione scritti dal contemporaneo Thomas Malthus che Darwin trasse l’idea che questa “trasmutazione” fosse dovuta ad una lotta per la sopravvivenza del più adatto, in cui l’ambiente non aveva un ruolo di indurre la “trasmutazione”, ma di selezionare i soggetti che avevano la “trasmutazione” più adatta per vivere in esso. Erano idee innovative, ma che hanno parzialmente fatto il loro tempo. Intanto perché Darwin ancora sapeva poco di genetica. Matt Ridley sul National Geographic conclude l’articolo suddetto scrivendo che “le idee di Darwin sul meccanismo dell’ereditarietà erano sbagliate e confuse” perché pensava che le caratteristiche individuali fossero il risultato della mistura di quelle dei genitori, non rendendosi conto che invece fossero sì una mistura, ma delle caratteristiche di generazioni e generazioni precedenti, come invece capì “l’umile frate Gregor Mendel, padre della genetica moderna”.
Ma la genetica, spiega la biologa Mary Esteller sulla rivista Lancet del dicembre 2008, oggi ci fa fare un passo avanti. Se gli studi di Mendel aggiungevano ai dati di Darwin l’importanza della trasmissione e della selezione non solo dei caratteri dominanti, ma anche di quelli recessivi, e se Watson e Crick mostravano sessant’anni fa che questi caratteri son pezzetti di un lungo filamento di basi che si chiama DNA che passano di padre in figlio, oggi sappiamo che possiamo ereditare non solo caratteri congeniti, cioè presenti nel DNA al momento del concepimento, ma anche caratteri acquisiti per via dell’influsso ambientale sul DNA durante la vita. E questo ha un peso rilevante per i motivi che a breve vedremo.
Si tratta di una nuova branca della biologia detta epigenetica, che tratta dell’influsso dell’ambiente sul patrimonio genetico. Mary Esteller scrive: “Noi non siamo i nostri geni. I geni sono solo una parte della vicenda. Non possiamo prendercela solo coi geni per il nostro comportamento o per la nostra suscettibilità alle malattie”. E continua spiegando che questo si vede bene nei gemelli monozigoti che svilupperanno malattie genetiche in epoche diverse pur avendo lo stesso corredo di DNA, e anche dal fatto che “uno dei risultati più sorprendenti della comparazione dei genomi di varie specie animali è quanto simili essi siano. Il genoma del topo non differisce molto da quello dell’uomo. Come possiamo allora spiegare le differenze?”.
Susannah Vermuza sulla rivista Genome del 2003 spiega che “la ricerca mostra con evidenza che in natura avviene l’eredità di caratteristiche acquisite” ed Eva Jablonka insieme a Marion J. Lamb nel volume Evolution in Four Dimentions (MIT Press, 2005) spiegano che questa ereditarietà dei caratteri acquisiti avviene per via di azioni epigenetiche, cioè non per mutazioni del DNA, ma per un silenziamento di alcuni geni indotto dall’ambiente, che agisce tramite l’azione di gruppi metilici e di istoni – rispettivamente molecole semplici e proteine – sul DNA. Questo rende ragione anche del perché le tante cellule dell’organismo, tutte con un DNA uguale, si comportano in modo diverso – e sono realmente diverse -: proprio perché in ognuna, pur avendo gli stessi geni, solo alcuni di questi possono parlare, ogni cellula esprimendo solo alcuni dei tanti geni che possiede. E questo spiega anche perché nonostante i due animali abbiano DNA molto simili, il topo abbia un aspetto molto diverso dallo scimpanzé: gli stessi geni sono presenti in entrambi gli animali, ma le cellule del topo ne usano alcuni, quelle dello scimpanzé altri.
Sul Sunday Times del luglio 2008, Steve Jones, professore di genetica all’University College di Londra spiegava così: “C’è sempre maggiore evidenza che fattori ambientali come la dieta o lo stress possono influenzare l’organismo ed essere trasmessi alla prole senza mutazioni del DNA”, ma mutandone l’espressione dei geni (oltretutto questo mette anche in allarme sulle proprie abitudini di vita e alimentari, che possono portare alterazioni dell’espressione del DNA trasmissibili ai figli). Michael Skinner, direttore del Center for Reproductive Biology alla Washington State University descrisse su Science del 2005 che esponendo topi ad un particolare insetticida, si provocava una diminuzione degli spermatozoi e contemporaneamente un silenziamento di parti del DNA per l’azione dei suddetti gruppi metilici; ma soprattutto mostrò che l’effetto di questo contatto con la sostanza tossica avvenuta in una generazione, durava per almeno quattro generazioni successive.
Appare allora evidente l’effetto dell’ambiente sull’evoluzione, non più solo come selezionatore di mutazioni avvenute per caso, ma anche come induttore di cambiamenti genetici ereditabili. Eva Jablonka e Marion J. Lamb spiegano che “Ogni singola mutazione è casuale, ma la risposta del genoma – l’aumentata velocità di mutazione – può essere adattativa, cioè influenzata dall’ambiente”. Questo rende ragione della sopravvivenza di individui a cambiamenti ambientali bruschi e violenti ma anche improvvisi. Insomma, spiegano che “alcune mutazioni ereditarie sono dovute a istruzione più che a selezione”.
Perché è importante dal punto di vista intellettuale questa nuova pagina della moderna biologia? Perché è rilevante umanamente riscontrare che l’ambiente non è solo un selezionatore ma anche un induttore di cambiamenti ereditabili? Il famoso chimico Enzo Tiezzi, nel suo “Steps Towards an Evolutionary Physics” (WIT Press 2006), scrive che “l’avventura dell’evoluzione biologica è segnata da eventi-possibilità e eventi-scelta. E’ un’avventura stocastica, dal greco stokazomai, che significa, mirare con la freccia al centro del bersaglio”. Infatti le frecce arrivano in ordine sparso sul bersaglio, ma tutte protese verso il centro da parte dell’arciere. E continua “Il sistema combina la possibilità con la selezione. (…) Gli ecosistemi si evolvono stocasticamente per co-evoluzione e auto-organizzazione”, in cui l’ambiente ha la funzione di catalizzatore e organizzatore. Questo ci aiuta a rispondere alle domande che abbiamo posto prima: perché l’ereditarietà epigenetica è importante culturalmente? Perché mostra che l’evoluzione non è cieca.
La teoria sull’evoluzione è stata partorita da teorie nate a contatto del pensiero malthusiano, secondo cui il mondo è una continua e cieca lotta per la sopravvivenza tra cambiamenti casuali; ed è nata non a caso nell’epoca Vittoriana, in cui l’Impero inglese cercava le basi filosofiche e scientifiche del suo diritto a conquistare e governare il mondo di cui doveva dimostrare di essere il frutto migliore e più adatto; l’evoluzione mostra invece oggi il suo “volto umano”: un’armonica copresenza di tanti fattori, tutti cooperanti fra loro per evitare il disordine. Si mettono finalmente in discussione lotta e violenza come motori del mondo. Ci si domanda infatti se è sopravvissuto più agevolm
ente il più violento o invece il più capace di generare solidarietà, e dunque di far gruppo, stando attento ai più deboli della specie.
E’ un passo avanti importante; ma molto c’è ancora da scoprire in questo percorso di ricerca e conoscenza, che ha come nemico il fideismo cieco di chi crede ancora che tutta la realtà sia una casuale lotta, in cui “casualità” e “lotta” finiscono per diventare termini assoluti ed essere quasi divinizzati e, di conseguenza, trasformarsi in termini ideologici.
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*Dirigente del Dipartimento Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico Universitario “Le Scotte” di Siena e membro della Pontificia Accademia Pro Vita.