di Carlo Bellieni*
ROMA, domenica, 1° febbraio 2009 (ZENIT.org).- Il numero di febbraio 2009 di National Geographic dedica una monografia a Charles Darwin, nel bicentenario della nascita: mostra i progressi che dopo Lamarck e Darwin il pensiero sulla mutazione della vita sulla terra – che nessuno dei due scienziati aveva ancora battezzato “evoluzione” – ha avuto nei secoli.
L’idea portante del pensiero di Darwin nacque dalla constatazione delle somiglianze e delle differenze tra le specie di animali – tartarughe, struzzi – nei Paesi del sud America da lui visitati con la nave Beagle; ciò lo portò a supporre che le diverse specie fossero scaturite non da creazioni separate, ma da una “trasmutazione” (così la chiamava) dovuta ad un influsso di ambienti diversi. Ma fu leggendo i lavori sulla crisi dovuta alla presunta sovrappopolazione scritti dal contemporaneo Thomas Malthus che Darwin trasse l’idea che questa “trasmutazione” fosse dovuta ad una lotta per la sopravvivenza del più adatto, in cui l’ambiente non aveva un ruolo di indurre la “trasmutazione”, ma di selezionare i soggetti che avevano la “trasmutazione” più adatta per vivere in esso. Erano idee innovative, ma che hanno parzialmente fatto il loro tempo. Intanto perché Darwin ancora sapeva poco di genetica. Matt Ridley sul National Geographic conclude l’articolo suddetto scrivendo che “le idee di Darwin sul meccanismo dell’ereditarietà erano sbagliate e confuse” perché pensava che le caratteristiche individuali fossero il risultato della mistura di quelle dei genitori, non rendendosi conto che invece fossero sì una mistura, ma delle caratteristiche di generazioni e generazioni precedenti, come invece capì “l’umile frate Gregor Mendel, padre della genetica moderna”.
Ma la genetica, spiega la biologa Mary Esteller sulla rivista Lancet del dicembre 2008, oggi ci fa fare un passo avanti. Se gli studi di Mendel aggiungevano ai dati di Darwin l’importanza della trasmissione e della selezione non solo dei caratteri dominanti, ma anche di quelli recessivi, e se Watson e Crick mostravano sessant’anni fa che questi caratteri son pezzetti di un lungo filamento di basi che si chiama DNA che passano di padre in figlio, oggi sappiamo che possiamo ereditare non solo caratteri congeniti, cioè presenti nel DNA al momento del concepimento, ma anche caratteri acquisiti per via dell’influsso ambientale sul DNA durante la vita. E questo ha un peso rilevante per i motivi che a breve vedremo.
Si tratta di una nuova branca della biologia detta epigenetica, che tratta dell’influsso dell’ambiente sul patrimonio genetico. Mary Esteller scrive: “Noi non siamo i nostri geni. I geni sono solo una parte della vicenda. Non possiamo prendercela solo coi geni per il nostro comportamento o per la nostra suscettibilità alle malattie”. E continua spiegando che questo si vede bene nei gemelli monozigoti che svilupperanno malattie genetiche in epoche diverse pur avendo lo stesso corredo di DNA, e anche dal fatto che “uno dei risultati più sorprendenti della comparazione dei genomi di varie specie animali è quanto simili essi siano. Il genoma del topo non differisce molto da quello dell’uomo. Come possiamo allora spiegare le differenze?”.
Susannah Vermuza sulla rivista Genome del 2003 spiega che “la ricerca mostra con evidenza che in natura avviene l’eredità di caratteristiche acquisite” ed Eva Jablonka insieme a Marion J. Lamb nel volume Evolution in Four Dimentions (MIT Press, 2005) spiegano che questa ereditarietà dei caratteri acquisiti avviene per via di azioni epigenetiche, cioè non per mutazioni del DNA, ma per un silenziamento di alcuni geni indotto dall’ambiente, che agisce tramite l’azione di gruppi metilici e di istoni – rispettivamente molecole semplici e proteine – sul DNA. Questo rende ragione anche del perché le tante cellule dell’organismo, tutte con un DNA uguale, si comportano in modo diverso – e sono realmente diverse -: proprio perché in ognuna, pur avendo gli stessi geni, solo alcuni di questi possono parlare, ogni cellula esprimendo solo alcuni dei tanti geni che possiede. E questo spiega anche perché nonostante i due animali abbiano DNA molto simili, il topo abbia un aspetto molto diverso dallo scimpanzé: gli stessi geni sono presenti in entrambi gli animali, ma le cellule del topo ne usano alcuni, quelle dello scimpanzé altri.
Sul Sunday Times del luglio 2008, Steve Jones, professore di genetica all’University College di Londra spiegava così: “C’è sempre maggiore evidenza che fattori ambientali come la dieta o lo stress possono influenzare l’organismo ed essere trasmessi alla prole senza mutazioni del DNA”, ma mutandone l’espressione dei geni (oltretutto questo mette anche in allarme sulle proprie abitudini di vita e alimentari, che possono portare alterazioni dell’espressione del DNA trasmissibili ai figli). Michael Skinner, direttore del Center for Reproductive Biology alla Washington State University descrisse su Science del 2005 che esponendo topi ad un particolare insetticida, si provocava una diminuzione degli spermatozoi e contemporaneamente un silenziamento di parti del DNA per l’azione dei suddetti gruppi metilici; ma soprattutto mostrò che l’effetto di questo contatto con la sostanza tossica avvenuta in una generazione, durava per almeno quattro generazioni successive.
Appare allora evidente l’effetto dell’ambiente sull’evoluzione, non più solo come selezionatore di mutazioni avvenute per caso, ma anche come induttore di cambiamenti genetici ereditabili. Eva Jablonka e Marion J. Lamb spiegano che “Ogni singola mutazione è casuale, ma la risposta del genoma – l’aumentata velocità di mutazione – può essere adattativa, cioè influenzata dall’ambiente”. Questo rende ragione della sopravvivenza di individui a cambiamenti ambientali bruschi e violenti ma anche improvvisi. Insomma, spiegano che “alcune mutazioni ereditarie sono dovute a istruzione più che a selezione”.
Perché è importante dal punto di vista intellettuale questa nuova pagina della moderna biologia? Perché è rilevante umanamente riscontrare che l’ambiente non è solo un selezionatore ma anche un induttore di cambiamenti ereditabili? Il famoso chimico Enzo Tiezzi, nel suo “Steps Towards an Evolutionary Physics” (WIT Press 2006), scrive che “l’avventura dell’evoluzione biologica è segnata da eventi-possibilità e eventi-scelta. E’ un’avventura stocastica, dal greco stokazomai, che significa, mirare con la freccia al centro del bersaglio”. Infatti le frecce arrivano in ordine sparso sul bersaglio, ma tutte protese verso il centro da parte dell’arciere. E continua “Il sistema combina la possibilità con la selezione. (…) Gli ecosistemi si evolvono stocasticamente per co-evoluzione e auto-organizzazione”, in cui l’ambiente ha la funzione di catalizzatore e organizzatore. Questo ci aiuta a rispondere alle domande che abbiamo posto prima: perché l’ereditarietà epigenetica è importante culturalmente? Perché mostra che l’evoluzione non è cieca.
La teoria sull’evoluzione è stata partorita da teorie nate a contatto del pensiero malthusiano, secondo cui il mondo è una continua e cieca lotta per la sopravvivenza tra cambiamenti casuali; ed è nata non a caso nell’epoca Vittoriana, in cui l’Impero inglese cercava le basi filosofiche e scientifiche del suo diritto a conquistare e governare il mondo di cui doveva dimostrare di essere il frutto migliore e più adatto; l’evoluzione mostra invece oggi il suo “volto umano”: un’armonica copresenza di tanti fattori, tutti cooperanti fra loro per evitare il disordine. Si mettono finalmente in discussione lotta e violenza come motori del mondo. Ci si domanda infatti se è sopravvissuto più agevolm
ente il più violento o invece il più capace di generare solidarietà, e dunque di far gruppo, stando attento ai più deboli della specie.
E’ un passo avanti importante; ma molto c’è ancora da scoprire in questo percorso di ricerca e conoscenza, che ha come nemico il fideismo cieco di chi crede ancora che tutta la realtà sia una casuale lotta, in cui “casualità” e “lotta” finiscono per diventare termini assoluti ed essere quasi divinizzati e, di conseguenza, trasformarsi in termini ideologici.
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*Dirigente del Dipartimento Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico Universitario “Le Scotte” di Siena e membro della Pontificia Accademia Pro Vita.