ROMA, giovedì, 5 febbraio 2009 ZENIT.org).- Sembra strano, eppure: “nelle decisioni sulla fine della vita dei neonati, i pazienti possono non ricevere le cure basate sul loro miglior interesse”. E’ quanto emerge da uno studio intitolato “Flaws in the assessment of the best interest of the newborn” (inciampi nello stabilire il miglior interesse del neonato) pubblicato dalla prestigiosa rivista svedese Acta Paediatrica.
Lo studio esamina la letteratura scientifica disponibile a riguardo del comportamento e delle scelte dei medici che operano in neonatologia e arriva a questa sbalorditiva conclusione. Gli autori, gli italiani C. Bellieni e G. Buonocore, iniziano spiegando come, a differenza dell’adulto che può esprimersi, è difficile immaginare i reali desideri del neonato; per questo ci si basa spesso sull’ipotesi di quello che può essere il “miglior interesse” del bambino.
Ma quale è il metro per capirlo? Gli autori documentano le influenze psicologiche sulle decisioni dei genitori e dei medici, quali quelle legate alla loro età, sesso, presenza in famiglia di disabili, etnia: tutti fattori che vari studi mostrano influire in un verso o nell’altro sulle decisioni che, apparentemente non vengono prese sovente su una pura base scientifica e oggettiva.
Ad esempio gli autori riportano studi che spiegano che che “in Olanda chi esegue un lavoro quotidiano in terapia intensiva (al contrario dei colleghi che ruotano nei turni o fanno solo supervisione) è associato ad un’aumentata probabilità di prendere una decisione di eutanasia attiva” e “un quarto dei neonatologi prende in considerazione la storia familiare dei genitori per prendere decisioni sul fine-vita negli estremamente prematuri”, che poi significa che non c’è un criterio oggettivo e non si considera solo l’interesse del bambino, ma anche quello dei parenti, cosa che non avverrebbe mai per un paziente adulto.
La ricerca è ben documentata dall’analisi di molti studi scientifici, che portano a mostrare anche certi pregiudizi: ad esempio gli autori dello studio riportano una ricerca francese in cui fu domandato ad un gruppo di medici se rianimerebbero un bimbo di 24 settimane (e rispose positivamente solo il 21% degli intervistati) e se rianimerebbero uno che ha “il 50% di possibilità di morire, e se sopravvive, solo il 50% sarebbe neurologicamente normale” e a questa seconda domanda ben il 51% degli intervistati rispose positivamente… pur essendo il secondo quadro esattamente la descrizione della prognosi di un bambino di 24 settimane. In un altro studio, questa volta australiano, viene mostrato come la tendenza a sospendere le cure ai bimbi in cui reputano le cure essere “futili” sia proporzionale nei medici… alla paura che essi hanno di morire.
Gli esempi dello studio sono tanti e ben documentati, ad esempio quando viene mostrata l’influenza delle preferenze dei genitori sulla decisione dei medici: è un argomento delicato, perché si tratta di persone provate e sofferenti per la nascita prematura del bambino, e proprio per questo degli studi mostrano che “quando si capisce che il bambino può morire alla nascita” spesso “i padri mostrano una perdita di controllo, mentre le madri mostrano mancanza di conoscenza sulle conseguenze a lungo termine, shock, e mancanza di tempo sufficiente per deliberare”.
Si domandano allora gli autori come sia possibile che persone in questo stato di prostrazione possano ricevere sulle spalle il peso di una decisione sulla vita del proprio bambino. Eppure a fronte di alcuni studi americani che riportano che “i neonatologi in generale trovano poco spazio per un ruolo dei genitori in sala parto riguardo le decisioni da prendere”, altri studi mostrano che molti dei neonatologi studiati “accondiscenderebbero ad una domanda dei genitori di non iniziare la rianimazione di un bambino di 23 e 24 settimane di gestazione”.
Ma il problema – trapela dallo studio – non sta nei medici, che cercano di fare il loro meglio, o nei genitori, spesso posti di fronte a scelte improvvise e terribili; ma in legislazioni che permettono la non rianimazione per casi in cui non ci troviamo in situazione di fine-vita.
Perché si rischia, quando si sospendono le cure, che non ci sia sempre un motivo oggettivo e si oscilli tra vari gradi di interventismo in presenza di legislazioni che lasciano aperte alla possibilità di non rianimare per motivi diversi da una reale inefficacia degli sforzi. E questa è la chiave: dare a tutti i bambini una chance, da quando c’è possibilità di vivere dopo la nascita (cioè da 22 settimane di gestazione) per non cadere in discriminazioni o in arbitri.
Il Comitato di bioetica italiano e il Consiglio Superiore di sanità Italiani, virtuosamente hanno per questo stabilito che ad ogni bambino che abbia una chance di farcela debba essere data tutta l’assistenza possibile, certamente evitando l’accanimento quando si veda che gli sforzi sono inutili.
Anche questo viene riportato nell’articolo, che conclude dicendo che “una revisione della letteratura mostra che si viene influenzati nelle decisioni da taluni aspetti del background sociale e professionale, ma anche dalle proprie paure e dall’opinione che si ha sul valore della vita. E’ importante essere coscienti dell’influenza che le paure e le personali visioni hanno su medici e genitori, perché questo sottolinea la difficoltà nel considerare solo il miglior interesse del paziente come il primo criterio per la presa di decisioni”.
Dobbiamo allora domandarci quanto questa influenza di fattori psicologici valga anche per le decisioni di medici e parenti sul paziente adulto che non si può esprimere, perché in coma o perché disabile. Quanto le decisioni sul fine-vita dell’adulto in stato vegetativo dipendano da oggettive considerazioni o dalle nostre paure che riversiamo sul paziente stesso: la nostra paura di una dipendenza dagli altri che oggi noi vorremmo, ma che non sappiamo se il paziente che non si può esprimere non tolleri o non voglia sopportare pur di non morire e di continuare a sentire magari piccoli contatti con l’ambiente. Non lo sappiamo, ma la nostra paura potrebbe portarci ad ingigantire la sua sofferenza, come l’articolo mostra che può avvenire nei piccoli.