di Anna Bono*
ROMA, giovedì, 29 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Il 27 gennaio i Vescovi della Conferenza episcopale dell’Africa australe hanno preso nuovamente la parola per condannare i responsabili della situazione in cui versa lo Zimbabwe, attanagliato da una crisi economica talmente grave da aver indotto già tre milioni di persone (quasi un quarto della popolazione) a cercare scampo oltre i confini nazionali e aver ridotto alla fame ormai metà degli abitanti del paese.
Una crisi che ha origine nelle politiche dissennate del pluridecennale regime del presidente Robert Mugabe e che minaccia di degenerare ulteriormente, nell’indifferenza dei leader politici che da nove mesi si contendono il potere, incuranti delle condizioni dei loro connazionali ora colpiti anche da una epidemia di colera che proprio in questi giorni l’Organizzazione mondiale della sanità ha definito “fuori controllo”.
Lo scorso marzo il voto popolare aveva per la prima volta attributo la maggioranza parlamentare al partito all’opposizione, l’Mdc-T, guidato da Morgan Tsvangirai il quale inoltre aveva ottenuto la maggioranza relativa dei voti alle elezioni presidenziali, superando il presidente Mugabe.
Quest’ultimo, rifiutando il verdetto popolare, aveva usato l’arma delle intimidazioni e della violenza per ribaltare l’esito a proprio favore in occasione del ballottaggio successivo previsto dalla costituzione. Il clima si era talmente acceso da costringere Tsvangirai a non presentarsi al ballottaggio e a lasciare il paese per proteggere la propria vita.
Mugabe aveva allora ordinato che il ballottaggio si svolgesse ugualmente con se stesso come unico candidato, ovviamente risultando vincente. Da allora la comunità internazionale intervenuta per cercare di ottenere da Mugabe una resa parziale, consistente nella creazione di un governo di unità nazionale comprendente ministri dell’opposizione guidato da un primo ministro, carica finora inesistente da assegnare a Tsvangirai per controbilanciare il potere presidenziale.
A settembre i contendenti avevano concordato di accettare questa soluzione, ma tuttora la crisi resta aperta, in attesa delle modifiche costituzionali necessarie per istituire la nuova carica governativa e restando aperto il problema dell’assegnazione del ministero degli interni, un dicastero di importanza decisiva in quanto controlla le forze di sicurezza.
Da tempo nessuna voce si levava a ricordare che, se si arriverà all’accordo per il quale la diplomazia internazionale si è attivata nei mesi scorsi, si potrà dire conclusa la crisi politica, ma al prezzo di una sconfitta della democrazia che peserà sul futuro del paese e dei suoi abitanti.
Le nuove istituzioni politiche infatti non rispecchieranno la volontà espressa dagli elettori e, fatto altrettanto grave, sostanzialmente il potere resterà nelle mani di chi è responsabile dell’attuale disperata situazione.
Ecco perché, per voce dell’arcivescovo di Johannesburg Buti Tlhagale, la Conferenza episcopale ha formalmente dichiarato che la permanenza al potere del presidente Mugabe è un atto illegittimo che sta inoltre provocando un genocidio.
Unanimi, i vescovi dell’Africa australe chiedono a Mugabe di lasciare il potere immediatamente e ai governi della regione di tagliare tutti i rapporti con il presidente: “se questo non avverrà – ha spiegato l’arcivescovo di Johannesburg – saranno complici nell’aver creato una situazione che sta portando il paese alla fame, alla malattia, allo sfaldamento della società e alla morte dei cittadini”.
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* Docente in Storia e Istituzioni dell’Africa presso l’Università di Torino e Direttore del Dipartimento Sviluppo Umano del Cespas.