di Ernesto Borghi*
ROMA, sabato, 17 gennaio (ZENIT.org).- Per ora limitiamoci ad esaminare le argomentazioni di Newsweek. Le Sacre Scritture, sostiene l’autrice dell’articolo, Lisa Miller, contengono esempi di amore e di legami affettivi così rivoluzionari da far pensare che l’interpretazione «tradizionale» del concetto di matrimonio, sostenuta dalle Chiese, sia troppo limitata e limitante: «Proviamo per un attimo a prendere in parola i religiosi più conservatori e a definire il matrimonio esattamente come fa la Bibbia», scrive la Miller, «Dovremmo prendere ad esempio Abramo, il grande patriarca, che divise il letto con il suo servo quando scoprì che l’amatissima moglie Sara era sterile? Oppure Giacobbe, che ha avuto figli da quattro diverse donne, due sorelle e le loro servitrici?». Primo e Nuovo Testamento sono miniere di casi di legami «proibiti» e scelte di vita del tutto divergenti rispetto alla «sacralità» del matrimonio fra uomo e donna: «Abramo, Giacobbe, Davide, Salomone, i re di Giudea e Israele: tutti questi patriarchi ed eroi praticavano la poligamia» continua la giornalista, che approfondisce, a suo dire, ulteriormente il discorso: «Il modello di matrimonio contenuto nel Nuovo Testamento non è migliore. Gesù era single e predicava la scarsa importanza dei legami del cuore – specialmente all’interno della famiglia. L’apostolo Paolo (anch’egli single) considerava il matrimonio una sorta di ultima spiaggia per chi non era in grado di tenere a bada le proprie pulsioni animali. «È meglio sposarsi che bruciare di passione», dice l’apostolo, in una delle dichiarazioni di sostegno al matrimonio più tiepide mai pronunciate». Nel quadro delineato sin qui, secondo la Miller, la Bibbia perde la sua aura di punto di riferimento per la difesa del matrimonio, «anche se chi si oppone al matrimonio gay vorrebbe poter sostenere esattamente il contrario». Fin qui l’essenziale delle posizioni di Newsweek.
Arroganza politicamente corretta
Chi come il sottoscritto è biblista professionista non da ieri o dall’altroieri – ma credo anche molti che sono appassionati lettori «amatoriali» delle Scritture ebraiche e cristiane – resta davvero attonito dinanzi alle affermazioni sin qui presentate. Di fronte al cumulo di informazioni considerate a partire da un’ignoranza biblica di base (occorrerebbe ricordare, per esempio, alla Miller, che Abramo ebbe rapporti con Agar, che non era un servo, ma una serva: se si usa in inglese il termine «servant» il dubbio è legittimo…) che si sposa perfettamente con una notevole dose di arroganza «politicamente e culturalmente corretta», è necessario contribuire a fare chiarezza.
Nell’antichità mediterranea l’omosessualità – in particolare nelle forme della pederastia e dell’amore saffico – era praticata e culturalmente sostenuta non soltanto come possibile, ma come umanamente promozionale ed arricchente. La Bibbia, rispetto a questa prospettiva, è all’opposizione senza sconti e incertezze (cfr., per es., Lv 18,22; 20,13; Rm 1,27.32; 1Cor 6,9.10; Gal 5,19; 1Tm 1,10). Anche taluni rapporti di amicizia particolarmente stretti tra persone dello stesso sesso – si pensi, per esempio, a Davide e Gionata (cfr. 1Sam 18,1ss; 2 Sam 1,26) – non possono certamente essere letti in chiave di relazioni omosessuali, anzitutto se vengono contestualizzati nella cultura dell’antichità mediorientale.
L’opinione di Gesù…
I testi biblici, a cominciare da Genesi 2,18-24, non fanno una teoria giuridico-canonistica del matrimonio e meno che mai di quello cristiano. Delineano le grandi direttrici fondamentali dell’esistenza umana, per individui che desiderino essere degni di sé rispondendo con l’amore alla logica di amore proposta da Dio verso di loro e per loro. La Bibbia, con una chiara univocità pur nelle differenze dei vari testi, sostiene la centralità fondamentale della relazionalità eterosessuale, anzitutto come occasione di umanizzazione principe tra i due partners prima che come opportunità di procreazione della vita. In questa linea viene censurato qualsiasi attentato all’indissolubilità del legame in questione (cfr., per es., Mc 10,1-12 e paralleli; Mt 5,27-28.31-32).
Circa la posizione di Gesù sui legami matrimoniali, basta leggere vari passi evangelici per rendersi conto che egli appare appassionatamente favorevole alla serietà del rapporto e ostile anzitutto a qualsiasi legame umano che chiuda l’individuo egoisticamente in se stesso, rispetto alle relazioni con Dio e con gli altri esseri umani. I passi evangelici a cui l’articolista di Newsweek sembra alludere – ad es. quelli in cui il Gesù evangelico parla delle condizioni del discepolato nei suoi confronti (cfr. Mt 10,37ss; Mc 10,17-31) -, sono da leggere nella prospettiva anti-egocentrica e contraria agli esclusivismi umani: basta entrarvi seriamente e si coglie subito questa prospettiva ermeneutica.
… e quella di San Paolo
Per quanto riguarda i testi di san Paolo la Miller fa, secondo me, le uniche affermazioni del suo articolo parzialmente fondate. Certamente Paolo – anzitutto in 1Cor 7 – dimostra di non essere un sostenitore appassionato del matrimonio, anzi ne dà una lettura fisicisticamente riduttiva e strumentale (cfr. vv. 8-9). D’altro canto l’Apostolo delle genti, in quegli anni tra il 50 e il 60 d.C., riteneva che la fine della Storia e il secondo e definitivo avvento del Messia fossero imminenti. Ciò lo conduceva a relativizzare tanti aspetti della vita umana e non si può escludere che anche il matrimonio entrasse nel novero.
Scorrettezze
È scorretto sotto il profilo culturale prendere a pretesto i segni biblici della cultura poligamica in cui Israele stesso è stato immerso per secoli e una serie di racconti primo-testamentari di alto valore simbolico e non di carattere cronistico per affermare che la presenza di «schemi matrimonial-familiari» molteplici, permette di collocare il matrimonio gay sul piano del rapporto eterosessuale. E il fatto che il Gesù delle versioni evangeliche abbia una considerazione dei propri contemporanei al di fuori di qualsiasi settarismo e chiusura relazionale, non autorizza a ipotizzare la «benedizione» gesuana dei rapporti tra individui dello stesso sesso.
Se si vuole affermare la liceità, anzi l’importanza del riconoscimento delle unioni omosessuali e il loro significato in termini di espressioni d’amore e di libertà relazionale, non si cerchino fondamenti nella Bibbia: si dà e si darà prova solo di ignoranza esegetico-ermeneutica e di tendenza alla strumentalizzazione culturale. E inoltre non si compiano equilibrismi anzitutto lessicali, per sostenere la congruenza tra matrimoni eterosessuali e unioni gay. Sono prospettive strutturalmente e fisicamente differenti e ambiti diversi. E non bastano a spingere il discorso verso l’omogeneizzazione massificante alcune «stravaganze» inaccettabili come, per es., l’adozione di bambini concessa a coppie omosessuali in presenza di contesti familiari eterosessuali adeguatamente ricettivi.
Uno sguardo intelligente
Detto tutto questo, è altrettanto evidente che a chi è omosessuale occorre guardare, da parte dell’intera società, con occhi comunque molto più intelligenti di quanto sia avvenuto sino al recentissimo passato e di quanto capiti spesso ancora oggi. Non rientra in questo mio auspicio positivo l’idea, assurda anzitutto scientificamente, di pubblicare una «Bibbia gay», come si è scritto in questi giorni. Essa avrà un impatto mediatico indiscutibile, forse darà del denaro in più ai suoi redattori, ma non aiuterà certo un’attenzione più matura alla «diversità affettiva e sessuale». Newsweek e la signora Miller, rincorrendo lo «scoop culturale», hanno perso una buona occasione per occuparsi di omosessualità da un altro punto di vista, seriamente religioso. Nessuno – a partire dai più alti dignitari ecclesiastici – può essere soddisfatto, se cerca di essere discepolo di Gesù, di come la componente omosessuale della società sia accolta in mol
te comunità cristiane.
Come dissi già qualche anno fa sulle colonne di questi giornale, il metro di giudizio della moralità trova i suoi momenti più alti nell’affermazione kantiana di non trattare mai l’altro come mezzo, ma sempre come fine, in quella interreligiosa «Fa’ agli altri quello che vorresti fosse fatto a te» e in quella biblica «Ama il prossimo/l’altro come te stesso». Se questo è vero, chi può affermare che in una relazione omosessuale non si possano realizzare tali valori etici in termini di effettiva reciprocità? E se anche la relazione eterosessuale resta il momento più alto della possibilità di comunione interpersonale, è legittimo negare a priori che tra due uomini o tra due donne si possa realizzare, in un clima di pacificazione interiore e di superamento di sensi di colpa paralizzanti, una relazione affettiva di quotidiano, reale dono di sé?
Discriminarli è anticristiano
Se si parte da questi presupposti, effettivamente morali e, mi pare, radicalmente evangelici e cristiani, allora si eviteranno non soltanto le prese di posizione sistematicamente omofobe, ma anche tutta quella serie di atteggiamenti – battute di «spirito», barzellette, ammiccamenti – e quelle parole che ancora sono diffusissime anche nella Chiesa e che sono figlie di una mentalità millenaria. Si credeva, infatti, di poter dividere la società tra «buoni» (= gli eterosessuali) e «perversi» (= gli omosessuali) a partire dall’idea che l’omosessualità fosse – era un deficit anzitutto di conoscenze scientifiche delle epoche precedenti la nostra – essenzialmente una tendenza peccaminosa e che gli omosessuali andassero emarginati come, per esempio, gli «untori» di manzoniana memoria. Nessuno potrà convincermi dell’opportunità che si facciano campagne, a vai livelli, a favore dell’omosessualità in sé come scelta di vita liberante (probabilmente neppure chi è omosessuale non per moda o per provocazione vorrebbe manifestazioni culturali del genere). D’altro canto nessuno riuscirà a persuadermi del fatto che non si debba gridare alto e forte che è assolutamente criminale, anti-umano, quindi anche anti-cristiano, discriminare o, peggio, punire qualcuno perché è di orientamento sessuale diverso dal mio.
Il timore, anzitutto nella Chiesa cattolica, di dare spazio nei propri ambienti alla pedofilia, fatto che negli ultimi anni si è tragicamente dimostrato assai più che un rischio, è giustificato. Tale situazione conduce, per esempio, a non accogliere tra i seminaristi persone sessualmente non equilibrate. Ma dovrebbe portare non soltanto a escludere chi ha tendenze omosessuali (quantunque ovviamente essere omosessuale non significhi essere necessariamente pedofilo), ma chiunque palesi atteggiamenti moralisticamente repressi e repressivi in ambito sessuale. Probabilmente queste attenzioni ci sono già, ma vanno tutte rafforzate. Com’è possibile essere presbiteri – cioè testimoni «per sempre» della verità cristiana essenziale, ossia dell’amore del Dio di Gesù Cristo tra i contemporanei -, se non si ha, anche rispetto ad una sfera importante della relazionalità umana quale è quella sessuale, una visione rispettosa dell’altro e gioiosa, non perfezionistica né moralistica?
Chi siamo per giudicare?
Per concludere: la Bibbia è contro l’omosessualità e, a mio avviso, la relazione matrimoniale etero-sessuale ha, lo ripeto, strutturalmente, una rilevanza anche sociale più elevata rispetto ad altre forme di convivenza, etero-sessuali o omosessuali che siano. Cionondimeno la valutazione sull’evangelicità della vita di ciascuno spetta, in senso cristiano, ad Uno e ad Uno solo. E qualsiasi relazione interpersonale che innalzi il tasso di amore altruistico nella società, fosse anche omosessuale, non va certo disprezzata. È legittimo non capirne i presupposti né condividerne l’articolazione e le scelte quotidiane. Ma, quando tali rapporti non sono frutto e causa di violenza morale e/o materiale, chi siamo tutti noi, tanto i singoli individui, quanto le istituzioni, comunque fatte da comuni mortali, per giudicare e condannare?
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L’articolo è uscito sulla terza pagina del Corriere del Ticino (www.cdt.ch) il 9 gennaio 2009.